di Maurizio Matteuzzi
C’era una volta la Spagna. La Spagna felix. La Spagna virtuosa che aveva i conti in regola rispetto ai «parametri di Maastricht». Che segnava indici annuali di crescita intorno al 3% doppi rispetto alla media UE. Che, insieme al Portogallo e al contrario di altri soci europei come Italia e Grecia, nei 20 anni di adesione all’Unione Europea aveva cessato di essere il parente povero. La Spagna che aveva triplicato il suo prodotto interno lordo in poco più di un decennio, fra l’80 e il ’92, che con le sue imprese di punta e le sue banche aveva avviato la secondo conquista dell’America latina. Che aveva saputo maneggiare i conflitti sociali grazie alla politica di concertazione e dialogo triangolare governo-padronato-sindacati e aveva saputo convivere e regolare i problemi legati all’ondata migratoria più forte d’Europa (il 10% dei 45 milioni di abitanti). La Spagna che nel 2008 annunciava – con una fretta troppo ottimista ma comprensibile – di avere superato l’Italia nel reddito pro-capite, mentre quello totale toccava i 1400 miliardi di euro facendone la quarta economia dell’Unione e la undicesima al mondo.
Era la Spagna felix di Josè Luis Rodriguez Zapatero, il volto nuovo e fresco e, finalmente, giovane di un socialismo europeo vecchio e succube, in caduta libera di appeal, idee e consensi. L’uomo dei diritti civili, dei matrimoni omosex, della parità di genere nel governo, dell’aborto super-garantito per legge e del divorzio rapido, dello Stato laico di fronte a una chiesa ancora nazional-franchista e di un Partido Popular ancorato a un concetto obsoleto di «famiglia». L’uomo del ritiro immediato del contingente militare spagnolo dalla guerra in Iraq.
D’improvviso tutto è sembrato crollare con la crisi economico-finanziaria globale avvistata (tardi e male) nella seconda metà del 2008 e deflagrata nel 2009 con la forza di uno tsunami. Lasciando un cumulo di macerie da cui si scorgevano le pecche originarie e nascoste di un sistema-paese (e del suo acclamato leader). La «bolla immobiliare» gonfiata a dismisura e poi esplosa rovinosamente; la disoccupazione irrefrenabile (8% nel 2006, 27% previsto nel biennio ’13-’14 contro la media europea dell’11.8%; 56% fra i giovani al di sotto dei 25 anni contro la media europea del 22.7%); i conti in rosso; la debolezza strutturale del modello.
E ancora i tremendi effetti diretti sul piano economico-sociale di tagli e licenziamenti (e gli immancabili danni collaterali sul piano delle libertà e dei diritti); la speculazione edilizia selvaggia su cui poggiava il boom; il crollo a catena delle compagnie immobiliari; i debiti impagabili delle «famiglie» che non ce la facevano a tenere dietro a mutui e affitti; la corruzione dilagante rivelata da un intreccio affari-politica sempre più perverso e inestricabile (il «caso Gürtel» nel 2009 e “l’affare Barcenas” a inizio 2013 con al centro il PP, ma anche altri con dentro il PSOE); gli errori e le incertezza del governo socialista e del suo leader fino ad allora carismatico.
L’unica eccezione al disastro sembravano le banche – con i colossi BBVA e Santander in testa -, apparentemente capaci di far fronte allo tsunami. Ma anche quella si rivelava un’illusione durata poco. Nel giugno 2012, il nuovo premier, il leader del Partido Popular Mariano Rajoy – succeduto al socialista Zapatero dopo che le elezioni anticipate del 20 novembre 2011 avevano sancito l’annunciata debacle del PSOE – era costretto a chiedere l’aiuto immediato del fondo salva-stati della UE per salvare e ricapitalizzare le banche spagnole: un intervento da 100 miliardi di euro.
Anche la Spagna diventava un paese sotto tutela, il quarto dopo Grecia, Irlanda e Portogallo. Zapatero era andato al voto nel marzo 2008 e aveva di nuovo vinto sul grigio Rajo. Vinto ma non stravinto. Sull’orizzonte errano già visibili le avvisaglie dell’uragano, ma Zapatero aveva cercato di non vederle (“una leggera brezza passeggera”) denunciando le critiche «senza fondamento all’economia spagnola» e assicurando che «entro breve tempo tornerà a crescere». Ma i numeri erano impietosi e avevano prodotto un effetto valanga. Dal 2009, per la prima volta in un decennio la Spagna era in recessione, -3.6%, la più profonda da mezzo secolo e destinata a continuare; la distruzione più devastante di lavoro (-6.7% sul 2008); il deficit pubblico al 10% del pil…
Le risposte di Zapatero erano apparse ondivaghe, improvvisate, insufficienti e tutte interne o subalterne alla logica neo-liberista e recessiva dell’austerità che dominava la scena europea: l’aumento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, il taglio delle spese per 50 miliardi di euro, la riforma del mercato del lavoro nel senso dei contratti a tempo e della flessibilità, addirittura facendo della Spagna il primo paese europeo a inserire il pareggio in bilancio – la clausola-capestro imposta dalla signora Merkel – nella costituzione.
Zapatero aveva perso non solo il carisma ma anche il controllo e la situazione diveniva insostenibile. In aprile del 2011 annunciava che non si sarebbe ricandidato per un terzo mandato (un’uscita di scena dignitosa ma triste) e, in giugno, le elezioni anticipate a novembre. Il risultato del voto era scontato: a vincerle non era tanto il PP di Rajoy quanto il PSOE a perderle con il suo peggior risultato (28.7%, 3.5 milioni di voti in meno). Anche Izquierda Unida beneficiava dalla debacle dei socialisti e dava qualche segno di vita passando al 7% e quintuplicando i seggi (da 2 a 11), con l’ambizione di divenire, diceva il suo coordinatore Caio Lara, “la Syriza spagnola”.
Al congresso del PSOE di Siviglia, febbraio 2012, Zapatero usciva definitivamente di scena ma i propositi di rinnovamento finivano con la nomina a segretario di Alfredo Perez Rubalcaba, uno dei baroni della vecchia guardia (ed ex ministro degli interni di Zapatero), un pesante segnale di immobilismo che rendevano poco credibili gli annunci di una “dura opposizione” al governo Rajoy.