Il futuro del Manifesto: storia di uno scambio mancato. È ora di una riflessione collettiva

18 Dicembre 2012 /

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Il Manifestodi Luciana Castellina
Ai compagni dei circoli de Il manifesto e affini. Cari compagni, se sono rimasta zitta tutto questo tempo, né sono venuta alle vostre assemblee, non è per indifferenza: come potete immaginare la fine, e per di più così ingloriosa, de Il manifesto è per me una grande tristezza. Non ho parlato per due ragioni:la prima, e la più importante, è perché a questo punto ( e il punto era arrivato già da tempo) non ho soluzioni:la vostra generosa offerta di raccogliere i soldi per ricomprare la testata non è purtroppo sufficiente, ci vogliono mesi e mesi per mettere assieme quella cifra, e poi c’è un deficit quotidiano da colmare prima che il quotidiano riprenda; per cui occorrono ulteriori capitali.
La seconda ragione sta nel fatto che io non faccio più parte della redazione del giornale ormai dal 1978. Dalla cooperativa – quando fu creato l’assetto attuale – fui peraltro esclusa senza neppure esser avvertita, ma oramai pazienza. Il mio allontanamento, così come quello di molti altri compagni, è stato il risultato del conflitto che ci separò alla fine degli anni ’70 e che non fu affatto relativo al modo in cui si doveva fare il giornale, ma attorno a serie questioni politiche.
Vorrei cogliere l’occasione per respingere la versione caricaturale che di quel triste evento è stata recentemente data da Valentino, secondo cui “il partito”, di cui peraltro Rossana,Luigi e lui stesso sono stati massimi dirigenti fino alla fine degli anno ’70, voleva che venissero pubblicati dei comunicati e la redazione non
voleva. Tanto poco “partitista” era il Pdup che, quando non ha avuto più Il manifesto come giornale di riferimento, ha usato i soldi del partito per pubblicare un settimanale diretto, oltrechè da me, da Rodotà e Napoleoni e che raccolse le più svariate e autorevolissime collaborazioni non solo italiane ma mondiali.

Mi meraviglio anche di quanto scritto nel comunicato finale della redazione di oggi, 16 dicembre: davvero ritengono che il periodo più brutto del giornale sia stato quello in cui Il manifesto era anche un movimento organizzato, poi chiamato Pdup? Dovrebbero andarsi a rileggere quelle pagine per sapere che fu ricchissimo: di scritti nostri, di importanti interlocutori, e, che non è cosa di poco conto, di un numero di lettori quale non si è mai più avuto se non per qualche giorno in occasione di eventi di punta. Rossana, con cui pure ci siono stati dissensi di linea dopo, ma solo dopo, il ‘78, ne ha data, anche recentemente, una versione corretta.
Col tempo, comunque, i nostri dissensi sono stati superati, anche perché il legame umano che ci univa era molto saldo ed era naturale che continuassimo a volerci bene e a stimarci reciprocamente. Tant’è vero che quando emerse la proposta dello scioglimento del Pci il famoso “gruppo storico” si ritrovò in quella battaglia ( ma una parte della redazione non volle un impegno diretto del giornale) e poi dette vita, nuovamente ma questa volta insieme anche ad altri compagni, alla Rivista Il manifesto che uscì come supplemento del quotidiano per quasi cinque anni sotto la direzione di Lucio Magri (una rivista che fu un gran peccato chiudere e anche su questo ci sarebbe da dire).
In tutti questi anni io ho collaborato sporadicamente, ma non sono stata più coinvolta nella fattura del giornale, nelle sue scelte editoriali, nel dibattito di linea, nella selezione delle responsabilità redazionali. Ogni tanto mi chiamavano e mi chiamano per chiedermi un pezzo su questo o su quello, ma mai per un’assemblea decisionale. Per questo non so praticamente niente di votazioni e controvotazioni, che pure si sono succedute con grande frequenza e molti malumori in questi ultimi anni. Ho visto che Repubblica ha scritto che la sola “a non lasciare” sono io, ma, confesso, che io non ho nulla che devo lasciare perché non sono più dentro da tanto tempo.
Questo non vuol dire che non abbia un’opinione sul giornale e su quanto accade. Innanzitutto sono ancora assai arrabbiata perché la proposta di inventare per tempo, 5-6 anni fa, un nuovo giornale on line, che ho avanzato (così come del resto Rossana) più volte, proponendo anche i qualificatissimi collaboratori che volontariamente avrebbero potuto metterlo a punto, non è stata non dico presa in considerazione ma nemmeno degnata di una discussione. Peccato: avremmo potuto rinnovare le glorie del manifesto varando un esperimento d’avanguardia, che peraltro proprio Il manifesto poteva fare con più facilità. Quando lo proposi era già chiaro che prima o dopo a questo si sarebbe arrivati e infatti ci sono arrivati i grandissimi giornali.
Pensate al chiasso che ha fatto Huffington Post. Mi furono dette frasi vacue, sul fatto che non si sarebbero potuti salvaguardare i posti di lavoro (non vero, con creatività se ne sarebbero potuti inventare di nuovi, così invece si sono perduti comunque). E poi che gli operai non lo avrebbero potuto leggere, come se anche
gli operai non adoperino ormai il computer, loro o i loro figli (me lo disse Loris, che pure stimo perché lui conosce gli operai, e però la paura del nuovo fa paura); e come se non fosse stato possibile fare abbonamenti nelle sedi sindacali, dotandole (ma anche i singoli abbonati) di una piccola stampante che ormai costa solo poche decine di euro.
Assai meno leggibili nelle fabbriche mi appaiono in realtà le pagine culturali del giornale, improntate a un elitarismo snob che non ha paralleli. E che pure sembrano godere del privilegio di una sorta di extraterritorialità. Che fare adesso? Io sono d’accordo con Rossana che il problema non è, o non è solo, come può vivere il manifesto, ma cosa deve e può essere Il manifesto nel 2013. Che non si possa eludere una riflessione di fondo. Non capisco invece cosa voglia dire Valentino con il “giornale partito”di cui ha parlato in un’intervista su Repubblica, e ancora meno, però, sono d’accordo con le interpretazioni del conflitto insorto in chiave generazionale di cui dice Norma in un’intervista a Repubblica.
Bisognerebbe piantarla di vedere tutta la politica italiana in termini di rottamatori e rottamati, speravo che il renzismo ci fosse risparmiato. Al Manifesto non c’è un problema di vecchi e di giovani, ci sono culture diverse e modi diversi di intendere la famosa “autonomia” del giornale. Per autonomia io credo si debba intendere autonomia nella trasposizione giornalistica di una ispirazione, cultura, linea, giudizio, non il fatto che 15 redattori – non delegati da alcuno – dicono quello che pensano loro. Questa non è autonomia, è autoreferenzialismo, che è diverso. Sopratutto risulta poco interessante per i lettori.
Capisco che oggi questa necessaria interpretazione è difficile perché non c’è più un’area di riferimento precisa, quella che era tradizionalmente del manifesto essendo ormai da tempo dispersa (fra noi stessi, quante sono le differenze?); e quella della sinistra più larga essendo attraversata da rotture feroci.Capisco che il compito di Norma oggi, così come dei direttori che l’hanno preceduta, sia per questo arduo. E però una cosa che a me ha insegnato, prima il Pci, e poi Il manifesto-Pdup – e ci tengo – è che bisogna non fare mai la caricatura degli avversari, ma sforzarsi di capirne le ragioni proprio per contrastarne le scelte più efficacemente.
Ebbene a me dà un gran fastidio il tono supponente e altezzoso con cui il giornale tratta tutti, come se fosse il solo a detenere la verità (vvoglio poter criticare Bersani, per esempio, ma non chiamarlo la “ditta Bersani”). Penso per questo che ci vorrebbe uno sforzo maggiore per capire cosa fa e perché questo o quello spezzone dell’area che potrebbe-dovrebbe essere il riferimento de Il manifesto; che bisognerebbe ascoltarli, parlarci quasi quotidianamente, per vedere
anche come – quando è giusto – possano essere aiutati. Un dialogo non solo con i collaboratori, ma con coloro che hanno responsabilità di movimento, di partito, di corrente, di gruppo, di iniziativa. È dopo averli ascoltati e averne discusso che si può decidere cosa scrivere, se si vuole avere una funzione.
Le poche volte che ho assistito ad una riunione di redazione in questi anni non ho mai visto procedere così. Il resto del mondo può certo imbucare delle lettere o anche degli articoli indirizzati al manifesto, ma un dialogo non è essere una buca delle lettere: è uno scambio. Così facendo, e continuando ad invocare il famoso “dalla parte del torto”, il giornale diventa antipatico, così almeno vedo che lo sentono tanti giovani che incontro, e ne incontro molti nella mia militanza Arci.
Negli ultimi tempi una scelta diciamo così partitica invece è stata fatta, quella dei cd antipartiti, i quali ritengono che il problema principale sia liberarsi della cultura politica del ‘900, in cui – a vedere cosa propongono – mi pare includano prima di tutto Antonio Gramsci. Liste arancioni, albe e così via, che almeno in termini di spazio sul giornale hanno avuto una assoluta preminenza. Sarebbero il nuovo che avanza? Io penso proprio di no e non credo che per questo io e quelli che la pensano come me siano da rottamare.
E allora? È possibile ritrovare un consenso per andare avanti? A me pare, a questo punto, difficile nei tempi brevi in cui al massimo sarà necessario salvarsi dai peggiori acquisti, sui quali peraltro mi piacerebbe sapere qualcosa e invece non so. O salvarsi dalla chiusura. Che potrebbe tuttavia non essere il peggiore dei mali se viene usata per darsi un tempo per ripartire. Ma un tempo dedito non solo a riacquistare la testata, ma anche a interrogarsi su cosa possa esser oggi Il manifesto. Capisco la preoccupazione (e la fatica) dell’attuale redazione di tener duro a tutti i costi, intanto, e non è secondario, per garantire i posti di lavoro.
Ma non basta: perché alla lunga così non si salvano neppure i posti e via via rischiano di allontanarsi molti altri lettori. Un giornale come Il manifesto deve poter essere utile alla sinistra, se è solo irrisione di quello che fa questo o quello, alla fine dà fastidio. Siamo in grado di prendere una pausa, di sopravvivere a una chiusura temporanea e anzi usarla per una riscossa, assumendoci l’impegno non solo finanziario di un riacquisto ma sopratutto quello di una riflessione collettiva rifondante che parta da quanto di comune e di valido c’è ancora in chi si definisce area de Il manifesto?
Non è archeologia, compagni, è salvaguardia critica (e possibilmente rinnovatrice) di una identità. Del resto perché piangeremmo la fine del manifesto, se non fosse perché in quel nome riconosciamo l’origine della nostra identità? Per carità non facciamone un feticcio, la copertina di Linus, una sicurezza consolatoria vuota di contenuti.
Io sono convinta che provarci sia difficilissmo ma non impossibile. Incontro molto spesso tanti compagni di quello che fu il Pdup-Maanifesto: ci sono ancora e sono
spesso in contatto attivo con i più giovani per via delle cose che continuano a fare nelle più svariate collocazioni. Hanno qualcosa da trasmettere.Un dialogo fra noi può ripartire, ma a condizione di non mitizzare una testata quale che sia il contenuto dell’impresa che rappresenta. Recentemente in molti ci siamo ritrovati per ricordare Lucio Magri ad un anno dalla sua morte. Insieme, siamo più di un centinaio, abbiamo aperto a suo nome – luciomagri.com – un sito dove ci proponiamo di riversare tutti i suoi scritti mano mano che li avremo digitalizzati.
Perché riteniamo che siano tuttora validissimi per capire il che fare di oggi. Potremmo usare questo sito per scambiarci delle idee e conservare un luogo comune se il peggio dovesse accadere per quanto riguarda il giornale.Per non perderci di vista. Il patrimonio comune della nostra storia non è acqua fresca, e non è cosa da vecchi dire che ci serve ancora, sia pure in modo innovativo, per andare avanti.

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