Il futuro del Manifesto: basta con le mediazioni, il confronto serva a progetti veri

19 Novembre 2012 /

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di Lidia Menapace
È bene che si facciano iniziative come questa, il manifesto deve sopravvivere, ma dobbiamo anche dire che alcune cose, riferite alle vicende dell’ultimo periodo, vanno corrette. Proprio perché questo giornale è stato per anni una forma diversa e straordinaria della politica, io dico, essendo contro ogni forma di monoteismo politico e religioso, che tali forme sono varie e non riducibili a un modello, e che è meglio parlare di molteplicità, anziché come spesso si fa, a vanvera, di pluralità, che indica sommatorie indistinte e contraddittorie di opzioni e visioni politiche che lasciano il tempo che trovano o generano confusione.
Io sono contro il pluralismo così come contrasto la reductio ad unum che è banalizzazione di una complessità che noi dobbiamo saper decifrare, come faceva Engels con le inchieste sul lavoro operaio, e come si dovrebbe fare oggi, più spesso e non sporadicamente. Insomma contesto le semplificazioni che derivano da Luhmann e dai seguaci del neoliberismo che parlano di fine delle ideologie per azzerare il conflitto di classe restituendo però il massimo di potere e di dominio alle classi dominanti che ci hanno portato in questa crisi. È chiaro poi che, mentre ancora si protrae un tale scenario di crisi strutturale del capitalismo, servono progetti a sinistra alimentati dal confronto e dal conflitto, anche dalle litigate se occorre, ma non più mediati o condizionati da liturgie diplomatiche tra gli stati maggiori.
Certo questa necessità comporta rispondere ad una domanda: cosa vuol dire oggi sinistra? E poi, è serio, o corretto, usare termini come “riformisti” e “moderati”? Bersani che sostiene Monti è un riformista? Casini è moderato? Ma rispetto a cosa? Perfino il giovane Agnelli quando visitò Mirafiori per la prima volta si accorse dell’inumanità di quel luogo, giungendo a dire “ma Mirafiori è un’inferno”; e l’aveva fatta lui. E dunque oggi, se la crisi precipita, è solo colpa della destra confindustriale? Non ci si accorge che più d’uno vi ha contribuito? Stiamo attenti quindi a come vengono usate le parole, perché dal loro significato e dalla loro aderenza all’interpretazione che diamo dei fatti reali, noi dobbiamo saper agire per comprendere come cambiare, mutare lo stato di cose esistente. Ed a questo innanzitutto ancor oggi serve la presenza del manifesto, la sua voce, la sua intelligenza collettiva.

Dunque diciamo che questa non è una semplice crisi finanziaria da cui usciremo con le politiche di Monti o il cosiddetto riformismo di Bersani, ma è una crisi strutturale e globale del capitalismo, che non riguarda solo la finanza o solo l’Europa, ma tutto il modo di produzione capitalistico e che, come scrive Samir Amin, non si tratta di uscire dalla crisi, ma dal capitalismo in crisi.
È tornata attuale la parola d’ordine di Rosa Luxemburg, “socialismo o barbarie”. Perché se le “riforme” che vediamo sono quelle della Fornero, o di chi vuol distruggere la pubblica istruzione, ecco, quella è la barbarie, e noi dobbiamo lavorare per l’alternativa sapendo che quegli episodi altro non sono che la riprova, di più, l’ennesima dimostrazione dell’irriformabilità del capitalismo, ed è come se oggi fossimo davanti ad un ’89 rovesciato, dopo il crollo del socialismo reale, ecco, il fallimento della globalizzazione è davanti ai nostri occhi.
Recessione, miseria, disoccupazione e bastonate su chi protesta. Comunque serve una analisi più attenta della crisi e non restare alla superficie, e però è questa una straordinaria occasione per la sinistra di provare a forzare i limiti angusti della politica sin qui praticata. Sicuramente dobbiamo aggiornare il nostro lessico, i vocaboli, ed illustrare meglio il termine “barbarie”; Rosa Luxemburg, poi, parlava non a caso di Katastrophe, che in tedesco significa rivolgimento, rovesciamento, cercando di capire quanto avvenne dopo il 1917; ed è ciò cui stiamo arrivando oggi, con l’individualismo feroce, la mancanza di relazioni umane tra le persone, i femminicidi, la natura che si ribella, i disastri ambientali ripetuti, la guerra infinita, i fondamentalismi, eccetera.
Dunque in questa normalità è una mistificazione parlare di emergenza, si tratta di un termine abusato che significa ad esempio, che quando piove (un fatto naturalmente e meteorologicamente normale) non si dovrebbe alla fine contare i morti, poiché è ovvio che le cause sono altre, e a cosa serve un istituto di sorveglianza del territorio se poi succede quello che abbiamo visto all’Aquila, con oltre trecento morti e nessuno in grado di allertare e proteggere la popolazione?
Sono esempi di regresso e di inefficienza colpevole dello stato.
Parlando di lavoro, se Sacconi vuole rapporti sociali fondati come nel medioevo, dove sarebbe la modernità? In tutto quello che vediamo essa non compare proprio, ma abbondano ipocrisia e menzogna, e sicuramente c’è un disegno nel capitalismo di oggi, per cui le donne dovrebbero tornare al casalingato e gli operai, senza diritti, stare a disposizione del padronato come i servi della gleba, e non solo, c’è tra i tanti aspetti di questa nuova barbarie anche il ritorno al Patriarcato, alla sottomissione della donna.
È “moderno” mandare a casa le donne o trattenerle indebitamente sul lavoro mentre contemporaneamente si rendono precari a vita i lavoratori e viene reso inagibile il diritto al lavoro? Questo infine è il terreno di lavoro del manifesto di oggi e di quello che verrà. Il manifesto deve tornare a fare inchiesta, deve avvalersi del lavoro dei circoli e della presenza di una sinistra sul territorio che non rinuncia a progettare l’alternativa, ma senza essere ondivago, bensì trasmettere una voce forte di molteplici soggetti di sinistra che convergono sulla necessità di fuoruscire dal capitalismo in crisi.
Un’ultima parola sullo scontro generazionale, che sembra abbia contagiato anche qualcuno di noi, se dobbiamo dare credito alle polemiche apparse sul manifesto nel dibattito in corso sugli esiti della crisi. Ricordiamoci che siamo comunisti, quella del giovanilismo è roba da fascisti, era lo slogan della borghesia fascista che preparava il terreno ai suoi rampolli, il ricambio pilotato della classe dirigente, diffidiamo pertanto di tali atteggiamenti che non c’entrano nulla col rinnovamento che non è un fatto biologico, semmai politico, ed impariamo a capire che l’appartenenza biologica o il dato anagrafico non sono sufficienti a garantire delle capacità, della serietà e delle competenze che servono alla sinistra.
Detto questo continuiamo a lavorare per i prossimi quarant’anni del manifesto.
Questo articolo è un estratto dell’intervento che Lidia Menapace ha fatto all’assemblea del 15 novembre presso il il circolo del manifesto di Trieste “Raffaele Dovenna”

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