di Rudi Ghedini
La prima volta era l’aprile del 1985. La Fgci gli fece una proposta e lui si rese disponibile per coordinare un foglio di poesia e prosa finalizzato alle elezioni comunali di Bologna: si chiamava “I prati di Caprara”, uscì 6 volte fra il 30 aprile e il 12 maggio, riprendendo un’idea che Roversi aveva inaugurato con “Il Foglio dei Quattro Giorni”, nel primo anniversario della strage del 2 Agosto. Roversi è morto ieri, a 89 anni; seguendo le sue disposizioni, i familiari hanno ritardato l’annuncio della sua scomparsa, non ci saranno cerimonie, né commemorazioni né camera ardente.
Non lo vedevo da 3-4 anni, da quando la malattia gli aveva fatto preferire un ritiro dignitoso, riservando la sua “visibilità” a un ristrettissimo numero di amici. Prima, l’ho incontrato decine e decine di volte, la sua scomparsa mi provoca un dolore acuto, dubito di trovare le parole giuste per comunicarlo. Lui, le parole, sapeva trovarle come nessun altro. Non esito a dire che è la persona più colta e generosa, affettuosa e carismatica che ho avuto la fortuna di frequentare. Provo per lui gratitudine. Mi ha segnalato per partecipare alla prima Biennale dei giovani artisti dell’Europa mediterranea (Barcellona, novembre 1987). Mi ha scritto la prefazione a un libro uscito nel 2002 (“Bye Bye Bologna. Cronaca irriguardosa della fine di un simbolo”), prima e dopo ha scritto per i piccoli giornali – “Nunatak, “Zero in condotta” – che ho contribuito ad animare. Conservo ogni testo dattiloscritto, con le correzioni a mano in quella sua accurata, meravigliosa calligrafia.
Nella sempre gelida tana in cui passava le giornate, fino al 2005, insieme alla moglie Elena – sul campanello la scritta: Libreria antiquaria Palmaverde – ho passato ore a chiacchierare, a farmi consigliare libri – due nomi su tutti, Stendhal e Stig Dagerman – a battibeccare di politica, lui sempre più ottimista di me, con quarant’anni in più a non avergli sottratto un grammo della fiducia nella possibilità di contrastare le ingiustizie.
Non gli farò il torto di un ricordo idilliaco: era puntiglioso e testardo, attento a ogni particolare (di ogni sua cosa ha sempre curato la grafica, scelto la carta e la tiratura), e con un’anacronistica fiducia nella tecnologia (una volta gli dissi che confondeva le centrali nucleari con le automobili guidate da Nuvolari). Era un poeta, perché aveva affinato uno sguardo poetico sulle cose. Perché cercava la parola giusta, l’unica davvero giusta, e lo faceva in modo inesorabile. Ha distillato testi di inusitata armonia, trovando in Dalla la musicalità più appropriata: andatevi ad ascoltare “Le parole incrociate” o “Anidride solforosa”, e cercate canzoni sull’Italia altrettanto potenti…
In pochi mesi, la mia città ha perso Lucio Dalla, Stefano Tassinari e con Roberto Roversi, il suo intellettuale più rigoroso, alieno alla retorica e alla frequentazione dei poteri e delle autorità. Bologna non l’ha ascoltato quanto era necessario, la sua coerenza gli ha alienato i favori dei poteri ufficiali. Lui non soffriva nello stare ai margini, sapeva di dover pagare un prezzo alla coerenza. Nell’ultimo mezzo secolo ha scelto di ignorare i grandi editori, pianificato perseguito raggiunto la più assoluta indipendenza nella distribuzione delle sue idee. In una mostra di un paio d’anni fa, erano esposte le lettere con cui Elio Vittorini e Italo Calvino, Giorgio Bassani e Giulio Einaudi si rivolgevano a Roversi, insistendo affinché pubblicasse per le rispettive case editrici.
Decise di autoprodursi libri e riviste, e di spedirli a richiesta. Fogli clandestini quanto preziosi. Chiunque ormai dovrebbe riconoscere a quest’uomo appartato e mite di essere uno degli autori più influenti del Novecento italiano.