Quando le sentenze della magistratura amministrativa rendono onore agli atenei che tutelano la democrazia partecipativa

6 Settembre 2012 /

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Foto di Ingiroconmamadi Sergio Brasini e Gianni Porzi, Università di Bologna
Tra i tanti difetti attribuiti alla Legge 240/2010 sul riordino del sistema universitario italiano (più nota come riforma Gelmini), uno dei più deleteri è stato quello di aver reso possibile una crescita a dismisura della sfera di influenza dei Rettori sul funzionamento dell’istituzione. Inoltre, all’interno degli Atenei, il Consiglio di Amministrazione ha subito una radicale trasformazione del proprio ruolo assumendo un potere decisionale quasi assoluto. Ora è infatti arbitro unico per le questioni economiche e finanziarie, l’assunzione di docenti e ricercatori, lo stanziamento di fondi per la ricerca, la chiusura di Dipartimenti e Corsi di Studio, con un controbilanciamento da parte del Senato Accademico sostanzialmente nullo. Quest’ultimo è divenuto un organo prevalentemente consultivo confinato alla sola elaborazione di pareri sui provvedimenti relativi agli ambiti della didattica, della ricerca, del diritto allo studio e della internazionalizzazione, quasi mai vincolanti per il CdA.
Al momento dell’approvazione definitiva del nuovo Statuto (luglio 2011), in ottemperanza a quanto previsto dalla Legge 240/2010, l’Università di Bologna scelse deliberatamente di escludere dal futuro CdA le rappresentanze elettive di docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo. La responsabilità di questa grave decisione era riconducibile non tanto al dettato della legge, quanto piuttosto ad una precisa volontà dei vertici dell’Ateneo bolognese. La 240/2010 non vietava affatto che il CdA possa essere eletto in maniera democratica, ma si limitava a stabilire che i suoi componenti dovessero soddisfare particolari requisiti di competenza.

In altri prestigiosi Atenei italiani (ad esempio Genova, Politecnico di Torino, Pisa, Trieste, Firenze e Parma) si adottarono invece, nella riscrittura dello Statuto, soluzioni che consentissero di conciliare facilmente entrambe le esigenze, cioè la rappresentatività elettiva e la competenza dei consiglieri. Questi Atenei stanno “pagando” a caro prezzo la loro autonoma scelta, in quanto il Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Scientifica Profumo ha impugnato sistematicamente i loro Statuti presso i TAR competenti sul punto specifico giudicandoli contra legem. Vale la pena sottolineare en passant che Profumo era Rettore del Politecnico di Torino quando venne emanato il nuovo Statuto, contro il quale egli stesso, divenuto nel frattempo Ministro, si è poi opposto. Si potrebbe dire che il Ministro Profumo ha dunque proposto ricorso contro l’ex Rettore Profumo (situazione quantomeno un po’ kafkiana).
Su questi temi segnaliamo con grande soddisfazione la sentenza del TAR Piemonte n° 983 del 14/6/2012, appena resa nota, che legittima il Politecnico di Torino ad eleggere i membri interni del proprio CdA. Anche il TAR Piemonte difende la scelta democratica fatta dall’Ateneo torinese, dopo un’analoga pronuncia del TAR Liguria (n° 718 del 22/5/2012) con riferimento allo Statuto dell’Università di Genova. La Magistratura Amministrativa del Piemonte rigetta il ricorso intentato dal MIUR perché, in sostanza, la partecipazione democratica del personale universitario al governo dell’Ateneo non è in contrasto col dettato della Legge 240/2010, e ciò rappresenta una vittoria di grande significato politico per tutti coloro che sono convintamente e profondamente democratici. Ci pare molto interessante, in particolare, il seguente passaggio della sentenza:

Anzitutto va ricordato che il termine “designazione” indica, in sé, solo l’atto con cui una determinata persona viene additata ad un ufficio, mentre nulla dice in ordine al soggetto che effettua tale indicazione né sui criteri e modalità seguiti a tale fine: esso quindi non esclude che il designante possa essere un organo collegiale né che l’individuazione possa essere effettuata all’esito di una procedura elettiva. In tal senso le procedure elettive costituiscono solo una delle modalità di designazione di un soggetto ad un ufficio.

Ciò è in piena sintonia con l’opinione espressa dal Prorettore per gli Affari Giuridici dell’Università di Pisa Dal Canto, secondo il quale “una scelta può essere fatta in molti modi, dunque anche attraverso le elezioni: infatti, elezione deriva dal latino eligere, che significa scegliere”. A sostegno e a difesa del meccanismo elettivo per la scelta dei membri interni del CdA, il Rettore dell’Università di Trieste Peroni aveva a sua volta affermato che “la Legge 240 non contiene elementi di incontrovertibile divieto, e noi abbiamo difeso questo ulteriore passaggio democratico che garantisce la partecipazione di tutti”.
Con le sentenze dei TAR del Piemonte e della Liguria sono stati riaffermati quei principi elementari di democrazia partecipativa che altri Atenei, fra i quali quello bolognese, non hanno invece ritenuto importanti, evidenziando così un grado di sensibilità democratica molto diverso. C’è da augurarsi che anche le prossime sentenze dei Tribunali Amministrativi presso i quali il MIUR ha presentato ricorso riconoscano legittima l’opzione basata sull’eleggibilità diretta dei consiglieri. A tale proposito va ricordato anche che, a fronte della volontà dell’Ateneo di Pisa di tener ferma la sua posizione, il MIUR aveva presentato ricorso al TAR Toscana chiedendo la sospensione in via cautelare delle norme contestate. Ma il Tribunale Amministrativo, con ordinanza del 30 maggio 2012, ha respinto la richiesta di sospensiva, con grande soddisfazione del Rettore Augello e del prorettore Dal Canto, in quanto “non appare sussistere il pericolo di un danno grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dei provvedimenti impugnati”.
Questi avvenimenti recenti rafforzano in noi la convinzione che molto male fece l’Università di Bologna a non scegliere di intraprendere la stessa strada degli Atenei citati. Vale la pena ricordare che, sul tema delle modalità di nomina del CdA, il Rettore dell’Alma Mater Studiorum Dionigi e la Commissione Statuto da lui personalmente designata (senza includere – caso unico in Italia – nemmeno un rappresentante dei ricercatori e dei professori associati) non vollero mai rivedere la loro posizione. Nonostante l’esito plebiscitario e avverso all’impostazione rettorale di una consultazione referendaria telematica autogestita dalle principali organizzazioni sindacali del personale docente e tecnico-amministrativo.
Nel caso di un Ateneo pubblico non si dovrebbe mai perdere di vista un concetto fondamentale: l’Università appartiene prima di tutto alla comunità di coloro che vi lavorano e vi studiano. I processi di approvazione e poi di successiva adozione del nuovo Statuto dell’Alma Mater Studiorum ci trasmettono un segnale ben preciso: il Rettore Dionigi e gli Organi Accademici hanno operato con sistematicità scelte “iperdifensive”, tese prima di tutto a preservare l’intangibilità di quelle prerogative di stampo “assolutistico” che la legge attribuisce ora ai Rettori nella governance degli Atenei.
Di conseguenza non hanno saputo cogliere una magnifica opportunità: quella di abbinare alla storica autorevolezza dell’Alma Mater Studiorum, morale prima ancora che didattica e scientifica, l’orgoglio per uno Statuto che fosse riconosciuto come un modello di democrazia partecipativa e che costituisse un punto di riferimento per gli altri Atenei italiani. Ci resta invece un sistema di governance che rappresenta una sapiente miscela tra l’oligarchia feudale e la “burocratura” del più classico stampo sovietico.

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