“Un giornale non si limita a registrare le cronache, ma ha una linea, ha obiettivi precisi” ricorda Valentino Parlato nella sua risposta del 12 agosto ad alcune voci del dibattito sul futuro del “manifesto”.
Anche se il contesto politico oggi è molto diverso da quello degli inizi mi pare che “la linea” può essere ancora ridefinita facendo riferimento a quell’inizio che fu una profonda rottura, una “fuga in avanti” rispetto alla politica del PCI di oltre 40 anni fa.
Dopo il primo anno (1969/70) la rivista “il manifesto” abbandonò il progetto di essere piattaforma teorica con respiro strategico per le diverse posizioni di dissenso nei partiti comunisti italiano ed europei. Alla prospettiva rivoluzionaria nel lungo periodo (cfr. le tesi “Per il comunismo” del numero di settembre 1970 della rivista), si mescolò la impazienza rivoluzionaria degli studenti e operai post-68 e l’impostazione politica del “manifesto” si rivolse dal 1971 a quel variegato movimento della nuova sinistra e divenne il primo “quotidiano comunista” autofinanziato rimasto in piedi – malgrado tutto – fino ad oggi.
Da allora è – con alti e bassi – giornale di controinformazione, ovvero di informazione altra, rispetto alla stampa tradizionale, e attinse – almeno nei primi anni – anche alle corrispondenze dalla realtà sociale dei suoi interlocutori. Il fatto che dopo avvennero svariate modifiche di questa prima impostazione non può stupire chi vede anche “il manifesto” inserito nel contesto della dissoluzione ideologica delle sinistre (non solo) in Italia.
Ciò non toglie che “il manifesto” è rimasto ad oggi l’unico organo che ha mantenuto la qualifica “comunista” e dispone ancora di una propria base di lettori e soci disposti a sostenerlo e a partecipare ad una nuova impostazione del quotidiano – e ciò non dovrebbe creare contrasto con la redazione!
Se oggi siamo lontani da prospettive “rivoluzionarie”, ma di fronte a derive totalitarie di nuovo tipo, e la conflittualità sociale aumenta ancora, non ci resta che unire tutte le forze possibili per evitare la fine – anche in Italia – di una voce per il “movimento reale capace di superare lo stato attuale delle cose”.
Susanna Kuby da Venezia