Pensare a cos’abbia rappresentato per almeno due generazioni la figura di Goffredo Fofi è lo stesso che ritrovarselo davanti all’improvviso, sorridente, affettuosamente pungente nel suo socratico deambulare e intanto parlare, sempre partecipe, entusiasta anche nel dissenso, elegante di una sua speciale eleganza necessariamente delabré. Insomma Goffredo era Goffredo senza altri possibili aggettivi mentre la sua immagine poteva ricordare d’acchito un antico fraticello umbro (forse frate Leone, «pecorella di Dio») di quelli che stanno nei Fioretti e poi in Francesco giullare di Dio dell’amatissimo Rossellini ma rammentava anche un militante di base che abbia la voce arrochita in ore di assemblee, riunioni e discussioni dove peraltro Fofi prodigava il tesoro di una memoria sterminata (una anagrafe coi nomi di tutta quanta la letteratura, il cinema, la politica) la quale riaffiorava a cadenza in aneddoti all’improvviso trasformati in apologhi e parabole morali e politiche.
PERCHÉ FOFI HA SCRITTO TANTO e però da intellettuale naturaliter cristiano (una sua stella fissa è stata Aldo Capitini) ha sempre creduto che la verità della letteratura, pari a quella del cinema o di qualunque altra espressione artistica, stesse in ultima istanza fuori della letteratura, ovvero che se presa in sé stessa, o ridotta appena a sé stessa, la letteratura non fosse altro che una stolta o ambigua decorazione. Viceversa, per usare le parole di Franco Fortini (altro suo riferimento cruciale e insieme controverso), voleva che essa diventasse «cibo di molti» e cioè si traducesse o se non altro alludesse a un ethos, a una coerenza tra il dire e il fare, a una allegoria indirizzata, nella consapevolezza di mancarla ogni volta, verso la ricerca di una propria verità.
Prima e più che un critico (che da giovane, sfogliando le annate di Quaderni Piacentini o Ombre Rosse, poteva sembrare intransigente e persino efferato), Fofi era divenuto uno sparring degli scrittori, un vero e proprio compagno di via. E qui basta scorrere uno dei tanti libri il cui titolo è forse il più rivelatore nella sua insolenza, Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia (L’ancora del mediterraneo 1999), per ritrovare la costellazione dove accanto ai maestri secolari di una sinistra libertaria e fieramente antistalinista (Silone, Camus, Victor Serge, Nicola Chiaromonte) compaiono fisionomie dei grandi outsider con cui Fofi è entrato in contatto e a volte in intersezione, da Raniero Panzieri, il fondatore di Quaderni Rossi, all’economista Manlio Rossi-Doria, allo scrittore e meridionalista Danilo Dolci e a Danilo Montaldi, l’autore delle stupende Autobiografie della leggera, pioniere della ricerca sul campo e della storia orale che molto lo influenzò nella stesura del primo libro, un’opera pionieristica che sarebbe riduttivo definire di sola sociologia, L’immigrazione meridionale a Torino, edita da Feltrinelli nel 1964 (dal 2009 è nel catalogo di Aragno) dopo che Einaudi l’aveva rifiutata, per non avere grane con la Fiat e La Stampa, licenziando in tronco i redattori Panzieri e Renato Solmi che l’avevano sostenuto.
Ma c’è un altro libro che rappresenta, per così dire, il canone fofiano ed è Scrittori per un secolo. I narratori, i poeti, i saggisti italiani del ‘900 (Linea d’ombra, 1993) costruito sulle immagini fotografiche di Giovanni Giovannetti. Il centro pulsante è, in funzione anti-ermetica e più generalmente anti-accademica, la poesia di Saba, così calda di vita e fraterna al lettore, mentre le diramazioni vanno verso una letteratura di figure laterali e presunti minori che in realtà si scoprono maggiori, da Emilio Lussu (l’autore di Un anno sull’altipiano) al sempre poco rammentato Piero Jahier, da Alberto Savinio a Fausta Cialente, da un poligrafo geniale quale Luigi Bartolini, a Noventa, Carlo Levi, Brancati, Bilenchi, Volponi, Flaiano.
SOLO DELLE NUOVE AVANGUARDIE e del Gruppo 63 non v’è traccia perché Fofi diffidava in genere delle costruzioni intellettualistiche e, in particolare, delle opere uscite dal Gruppo 63 che riteneva così à la page da trasformarsi subito in esercitazioni accademiche. L’epicentro della seconda metà del secolo per lui è invece Elsa Morante su cui non ha mai smesso di scrivere e di interrogarsi, facendo del libro più amato Il mondo salvato dai ragazzini (data topica d’uscita: 1968), una bibbia personale all’insegna della libera inventiva da basso che contesti il potere (politico, economico, militare, accademico) sempre esercitato dall’alto.
E non è un caso che Fofi, maestro elementare, umbro che si sentiva in cuor suo napoletano e cittadino del Sud universale, si sia sempre interessato alla pedagogia antiautoritaria e a figure come don Milani e Paulo Freire. Né va mai dimenticato il suo impegno di talent scout appassionato e molto generoso, pure se dolcemente assillante come sanno esserlo solo i frati questuanti: in Italia non si vedeva un simile esempio di fervore organizzativo dai tempi di Elio Vittorini, leggendario promotore di riviste e di collane editoriali. Al riguardo, è sufficiente scorrere il sommario dei periodici che Fofi ha fondato (da Ombre Rosse e Linea d’ombra alle più recenti Lo Straniero e Gli asini) per constatare l’infinità degli autori ospitati e, talvolta, da lui direttamente promossi: per stare ai soli narratori fra gli altri vi compaiono Gianni Celati, Giorgio Pressburger, Pier Vittorio Tondelli, Claudio Piersanti, Luca Doninelli, Giorgio van Straten, Stefano Benni, Alessandro Baricco, Maurizio Maggiani, Roberto Saviano e Lorenzo Pavolini.
FRA I TITOLI DEL SUO DIORAMA bibliografico spicca un libro-intervista che ben testimonia del talento prodigato in un’eterna ricerca di sé e dei propri compagni di via, La vocazione minoritaria (a cura di Oreste Pivetta. Laterza, 2009) dove Goffredo Fofi, involontariamente, scrive non soltanto il suo testamento ma anche il proprio autoritratto etico-politico.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 12 luglio 2025