La denunzia-monito del Presidente Mattarella sul dilagare del “lavoro povero” ha giustamente riempito la scena politica e rilanciato il progetto di un salario minimo legale (indicizzato), ma pone anche un importante interrogativo. Che è questo: si tratta soltanto di un pur importantissimo progetto politico e di una riforma ancora tutta da conquistare, oppure “nella pancia” del nostro ordinamento c’è già oggi una regola giuridica che consenta al “lavoratore povero” di rivendicare un salario dignitoso anche davanti ad ogni Tribunale della Repubblica?
E’ una domanda importante, e non perché si voglia, da parte nostra, brandire l’arma di un “pangiustizialismo”, ma perché la consapevolezza che quell’arma esiste non può che rappresentare una potente spinta per realizzare il progetto di riforma.
La risposta all’interrogativo è, invero, all’apparenza, positiva e semplice: il nostro ordinamento ha, al vertice, la Costituzione, e, nel dettato costituzionale, esiste l’art. 36 che garantisce al lavoratore una retribuzione adeguata e, comunque, sufficiente, per assicurare, a lui ed alla sua famiglia, “un’esistenza libera e dignitosa”. E poiché si tratta, comunque, di un precetto legale vero e proprio, e non solo di una dichiarazione di principio, il “lavoratore povero” può convocare il datore di lavoro avanti al Giudice del Lavoro e, invocando l’art.36 Cost., ottenere un aumento del salario sia per il futuro, sia per il passato come arretrati.
Le difficoltà nascono dal fatto che, nel nostro sistema sociale ed ordinamentale, i salari minimi, settore per settore, sono stabiliti e quantificati in cifra dai contratti collettivi, e quando si tratta di contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi, si ritiene, per lunga tradizione giurisprudenziale, che le tariffe contrattuali collimino, appunto, con la soglia minima della retribuzione adeguata e sufficiente ai sensi dell’art.36 Cost.
Si tratta, però, di una “presunzione giuridica” che con il passare del tempo (e specie dopo l’abolizione della scala mobile dei salari) è divenuta sempre meno convincente, in quanto i minimi retributivi contrattuali non sono riusciti a “star dietro” alla dinamica inflazionistica, venendo altresì aggirati, per il dilagare del “lavoro nero” o “grigio”, precario ecc.
E alla fine, nell’ottobre dell’anno 2023, il mito si è infranto, quando la Corte di Cassazione, con un “blocco” di sei sentenze tra loro conformi (Cass. 2 ottobre 2023 n. 27711 ed altre cinque consimili) ha sancito la prevalenza, in ogni caso, del precetto dell’art.36 Cost. anche sulle tariffe dei contratti collettivi (pur se stipulate dai sindacati maggiormente rappresentativi), di talché il datore di lavoro che applichi la tariffa contrattuale non è più per ciò stesso al sicuro da contestazioni imperniate sul precetto dell’art.36 Cost.
Per una completa e lineare illustrazione della situazione giuridica attuale pensiamo, allora, sia opportuno ricorrere ad un apologo, ossia, secondo la tradizione della cultura classica greco-romana, ad una breve storia o narrazione di fantasia, però esemplare e con forte significato didattico ed etico, così da restare scolpito nella mente e nelle coscienze.
Il nostro apologo ha per protagonista un personaggio chiamato “Numerio Negidio”, il quale, per i giuristi romani (certo non privi di senso dell’umorismo) rappresentava, nei diversi tipi di processi, “il povero” che si dibatte nelle difficoltà ed è in perpetua lotta e polemica con “Aulo Agerio”, ossia con il “ricco” che lo vessa costantemente: due personaggi di fantasia, dunque, come i nostri “Tizio” o “Caio”, ma già socialmente connotati.
Al principio, e nella prima parte del nostro apologo, dunque, il “lavoratore povero” Numerio Negidio, chiama davanti al Tribunale del Lavoro il suo datore Aulo Agerio, e lamenta che quest’ultimo, non essendo iscritto ad alcuna organizzazione sindacale datoriale, non gli applica il contratto collettivo, che prevede la retribuzione di “100” come tariffa minima, bensì gli paga una retribuzione inferiore, mettiamo di “90”. Numerio Negidio chiede al giudice che gli attribuisca, con gli arretrati, la differenza di 10, perché, anche se Aulo Agerio non è iscritto al sindacato datoriale, comunque la tariffa minima contrattuale collettiva di “100” rappresenta, per consolidata giurisprudenza, un “indicatore sociale” attendibile di quale sia la retribuzione nominale, cui corrisponde il potere di acquisto di beni e servizi necessari per “un’esistenza libera e dignitosa” ai sensi dell’art.36 Cost.
Il giudice non si scompone minimamente, forte di centinaia di precedenti giurisprudenziali conformi, e condanna Aulo Agerio al pagamento, per il futuro e per il passato, della retribuzione “100”, e non perché sia tenuto ad applicare il contratto collettivo in quanto tale (Aulo Agerio non è iscritto al sindacato), ma perché con “100” il lavoratore Numerio si può comprare quanto serve per “un’esistenza libera e dignitosa”.
Tutto bene, dunque, ma passati da lì quattro anni, Numerio Negidio convoca di nuovo Aulo Agerio avanti al Tribunale, e chiede che, con una nuova sentenza, il giudice porti la sua retribuzione a 110, con un aumento di 10, anche se la tariffa collettiva è sempre “100”, quella, cioè, di quattro anni prima, non essendovi stato alcun rinnovo di contratto collettivo. Il giudice è perplesso, ma l’argomento di Numerio Negidio è lineare: quattro anni prima il giudice aveva ritenuto che, in forza dell’art.36 Cost., avesse diritto ad una retribuzione con potere di acquisto “100” e non “90”, ma, poiché in questi quattro anni vi è stata un’ inflazione del 10%, occorre incrementare la retribuzione a 110, perché, l’art.36 Cost. continui a trovare applicazione nei suoi confronti con il potere di acquisto allora riconosciuto.
Aulo Agerio, questa volta, si oppone vivacemente, sottolineando che, in questi quattro anni, ha sempre rispettato la sentenza, e che la tariffa contrattuale, scritta nero su bianco, è sempre “100”.
Il giudice è in difficoltà, si ritira in Camera di Consiglio, e qui considera che l’effettivo contenuto della sua vecchia sentenza non era l’applicazione del contratto collettivo (non essendo Aulo Agerio sindacalizzato), ma l’applicazione dell’art. 36 Cost., che garantisce al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” attraverso la possibilità di acquisto di un “tot” di beni e servizi, che, allora, si acquisiva con la retribuzione nominale “100”, ed ora non più, ancorché restino validi ed identici la garanzia ed il precetto dell’art.36 Cost. Riflette che, in realtà, con quella sua sentenza ha riconosciuto a Numerio, come necessari e dovuti per un’esistenza dignitosa, un “tot” di beni e di servizi, e quindi, ora che la vecchia sentenza è passata in giudicato, quel “tot” costituisce (detto tecnicamente) un “giudicato esterno” rispetto al processo attuale, il quale, dunque, deve ad esso adeguarsi nella decisione finale.
Dunque, il giudice emette una nuova sentenza di accoglimento della richiesta di Numerio, ma subito dopo averla depositata in Cancelleria, viene assalito da un fastidioso pensiero: cosa farebbe, adesso, se, oggi o domani si presentasse un altro lavoratore che, diversamente da Negidio, sia sempre stato sindacalizzato (lui ed il suo datore di lavoro), di talché gli sia stato applicato ed ancora gli si applichi il contratto collettivo con il vecchio minimo tariffario di “100”? E cosa farebbe, allora, come giudice, se questo lavoratore gli chiedesse anche lui l’aumento di “10” appena concesso a Numerio?
Il giudice ha un attimo di smarrimento, ma poi si tranquillizza riflettendo sul punto che anche a questo lavoratore dovrebbe applicarsi l’art. 36 Cost., che è al vertice delle fonti normative e al di sopra di tutte le disposizioni dei contratti collettivi.
D’altro canto, sarebbe assurdo – ragiona il giudice – che ai lavoratori non sindacalizzati finisse con lo spettare, per il medesimo lavoro, una retribuzione più alta di quella dei sindacalizzati. Che spetterebbe per questo motivo: perché per i non sindacalizzati il minimo tariffario da contratto collettivo sarebbe solo un indicatore economico-sociale per l’applicazione della retribuzione sufficiente ai sensi dell’art.36 Cost., e quindi, proprio, come indice, naturalmente legato all’attualità e soggetto a variazioni, mentre per i sindacalizzati esprimerebbe una regola contrattuale e, quindi, giuridicamente vincolante e stabile.
Alla fine il giudice si mette l’anima in pace, mormorando tra sé: “Comunque, che l’art.36 Cost. possa passare sopra anche ai minimi retributivi contrattuali ufficiali, per fortuna, di recente, la Corte di Cassazione l’ha detto, non una, ma ben sei volte!”.
La morale dell’apologo di Numerio Negidio è, dunque, semplice: al momento della stipula di un contratto collettivo si può ritenere, come da tradizione, che il minimo retributivo in termini nominali da esso stabilito integri la garanzia costituzionale della retribuzione sufficiente per “un’esistenza libera e dignitosa”, la quale può essere razionalmente concepita solo in termini reali di potere d’acquisto. Poi, in prosieguo di tempo, termini reali e termini nominali possono allontanarsi tra loro, ma allora occorre prendere atto che la garanzia costituzionale che assiste i primi è più forte del vincolo contrattuale che assiste i secondi.
Non dovrebbero esserci difficoltà a spiegarlo a tutti i giudici italiani, a meno che ciò sia reso inutile da un consapevole intervento normativo (quod est in votis) del legislatore.
Il quale, ad esempio, potrebbe partire dalla considerazione che, all’interno di ogni salario, come di ogni pensione, vi è una “parte bassa”, corrispondente alle esigenze vitali delle persone, che deve sicuramente esser garantita e, quindi, indicizzata, con le opportune flessibilità.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 12 maggio 2025