La lotta di Papa Francesco contro le mafie

di Isaia Sales /
12 Maggio 2025 /

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Sul tema della lotta alle mafie Papa Francesco ha fatto compiere alla Chiesa notevolissimi passi in avanti, ma neanche su questa questione le gerarchie vaticane lo hanno seguito fino in fondo. Nessun Papa prima di lui aveva usato mai la parola “scomunica”, come fece in Calabria nel 2014, anche se fu Giovanni Paolo II nel 1993 ad Agrigento a prendere per primo una posizione pubblica sull’argomento. Fino al 1993 nessun Papa (tutti italiani prima di Wojtyla) aveva mai parlato di mafie in un discorso, in una omelia, in un libro.

In effetti, il rapporto dei mafiosi con il credo cattolico (e degli uomini di Chiesa nei loro confronti) rappresenta una delle questioni più complesse e spinose da affrontare. Se si esclude Matteo Messina Denaro, non si conoscono mafiosi atei. Sono stati (e sono) cattolici osservanti i peggiori assassini che l’Italia abbia mai avuto nel corso della sua storia. I mafiosi credono in Dio, vanno a messa, si comunicano, fanno battezzare i loro figli, si sposano in chiesa, fanno da padrini di battesimo e di cresima, ricevono l’estrema unzione e pretendono il funerale religioso, spesso sono tra i principali benefattori di molte parrocchie e portano sulle spalle le statue dei santi. Non li sfiora neanche lontanamente il sospetto di una incompatibilità tra l’essere dei feroci assassini e dei ferventi cattolici.

Sta di fatto che il primo tentativo di colpire i mafiosi con un provvedimento più efficace, cioè appunto la scomunica, era andato clamorosamente a vuoto già nel 1989. Alla vigilia dell’assemblea della Cei di quell’anno, il cardinale di Napoli, Michele Giordano, aveva annunciato che i vescovi stavano per decidere la scomunica di tutti coloro che fossero stati condannati come mafiosi da una sentenza di tribunale. Ma il cardinale Poletti nel discorso di chiusura corresse la posizione di Giordano con fastidio e imbarazzo: “La scomunica della mafia non è all’ordine del giorno. Non è prevista e non è prevedibile nessuna sanzione di questo tipo. La condanna della violenza da parte della Chiesa è sempre chiara e inequivocabile. Ma non è compito della Chiesa varare provvedimenti particolari.”

Che cos’era successo tra i vescovi italiani per causare una così clamorosa marcia indietro da parte del segretario della Cei? È indubbio che nel corso dell’assemblea c’era stato un duro scontro tra diversi settori dell’episcopato italiano e Poletti aveva frenato qualsiasi atto più coraggioso contro le mafie.

Nel 2014 Papa Francesco in Calabria ha pronunciato, invece, parole nette: “I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”.

Nel passato un lunghissimo silenzio dei cattolici, del clero, delle gerarchie locali e nazionali, aveva accompagnato l’evolversi dei fenomeni mafiosi anche quando avevano assunto fama internazionale. Anzi, la storia della Chiesa nei territori coinvolti si svolgeva parallela a quella espansione e più di una volta con essa si intrecciava, soprattutto in Sicilia. Un esponente emblematico di quella lunga fase era stato il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, che al silenzio accompagnava, quando necessario, la negazione dell’esistenza della mafia. Egli, infatti, respinse fermamente il primo tentativo di un Papa di condannare pubblicamente Cosa nostra. Dopo la strage di Ciaculli, nel 1963, in cui persero la vita sette uomini delle forze dell’ordine, Paolo VI (tramite il cardinale Dell’Acqua) gli chiese di prendere una posizione pubblica «per separare la Chiesa cattolica da commistioni con la mafia», ma Ruffini rispose piccato che non c’era nessun rischio del genere. Era una falsità dei comunisti per colpire la Dc. “In tanti anni di sacro ministero non ho mai potuto rilevare la più piccola relazione del clero con i delinquenti” ebbe l’ardire di rispondere al Papa. Per una gran parte della Chiesa dell’epoca i mafiosi erano considerati un “male minore” rispetto al pericolo comunista.

Le cose sono cambiate nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento. Sono state le omelie del cardinale Pappalardo nel occasione di alcuni delitti eccellenti, a squarciare il silenzio. Prima in Campania lo aveva fatto don Riboldi vescovo di Acerra, poi appunto il Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento nel seguito, gli omicidi di don Pino Puglisi a Palermo e di don Giuseppe Diana a Casal di Principe, gli attentati alle basiliche di S. Giovanni in Laterano e del Velabro a Roma, avevano spinto la Chiesa a più coraggiose prese di distanza dalle mafie, fino al documento della Conferenza episcopale italiana nel 2010 in cui apertamente viene scritto che “le mafie sono la configurazione più drammatica del male, e del peccato. Alcuni vescovi avevano già dato disposizioni contro i funerali ai mafiosi e conto la scelta di essi come compari di battessimo o di cresima. E Padre Puglisi era stato beatificato nel 2013: per la prima volta un uomo di Chiesa veniva proclamato beato per aver avversato la mafia. Infine, la scomunica nel 2014.

Ma si può affermare che il Papa con quelle parole ha fatto della lotta alla mafia un valore cardine della Chiesa cattolica italiana e universale? A questa domanda si può serenamente rispondere solo in questo modo: il Papa sì, ma le gerarchie vaticane non ancora, e non è detto affatto che in futuro seguiranno queste indicazioni. Le parole del Papa non sono state tramutate in atti formali, la scomunica non è entrata nel diritto canonico (dove sono contemplate altre fattispecie, compreso l’aborto), né è stata accompagnata da indicazioni precise per i parroci, nonostante la nomina nel 2017 di una apposita commissione con l’incarico di approfondire le modalità della scomunica per mafia e anche per corruzione.

Ed è proprio a motivo di questa ambiguità che ancora oggi si svolgono esequie religiose di mafiosi, erogazione dei sacramenti a persone notoriamente appartenenti alle cosche, inchini delle statue dei Santi in numerose processioni religiose. Il caso più clamoroso è stato sicuramente il funerale del boss Casamonica nel 2015 a Roma nella chiesa di S. Giovanni Bosco. Il parroco ha sostenuto di non essersi accorto che stava celebrando i funerali di un notissimo mafioso. Eppure, erano stati affissi enormi manifesti davanti alla Chiesa inneggianti al boss (con la scritta “Hai conquistato Roma ora conquisterai il Paradiso”) mentre un elicottero sorvolava la zona gettando fiori sui presenti, una banda intonava la musica de Il Padrino.

Eppure, nella stessa chiesa era stata vietata la cerimonia religiosa per Piergiorgio Welby, afflitto da sclerosi multipla e militante del Partito Radicale, deceduto grazie all’assistenza di sanitari che diedero seguito alla sua volontà di porre fine alla lunga agonia. Ad un giornalista che aveva chiesto al cardinale Camillo Ruini, all’epoca vicario per la diocesi di Roma, se fosse pentito di aver negato il funerale a Welby, il porporato aveva risposto: “Negare a Welby il funerale religioso è stata una decisione sofferta, ma non ho cambiato parere”. Il caso era stato affrontato direttamente dalla curia romana e non affidata alle decisioni del parroco del posto. Al boss Casamonica il funerale religioso, al mite Welby no? Papa Francesco ha provato a sciogliere questa cocente contraddizione, ma non lo hanno voluto seguire.

Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 9 maggio 2025

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