Nell’articolo pubblicato il 06 aprile scorso . ci si era soffermati sulla problematicità e ambivalenza dell’espressione, spesso abusata, di “cultura della sicurezza”, intesa magari come una sorta di panacea per la sicurezza sul lavoro, come pure sul significato dei singoli termini che la compongono. E, ribadito che la gestione della sicurezza sul lavoro è inseparabile, anzi è parte della complessiva gestione di una azienda ed organizzazione, aderendo al significato comunque positivo del termine “cultura”, mi ero spinto a dare una definizione di cultura della sicurezza, che qui riporto integralmente (senza pretenderne chissà quale scientificità, ma che mi è sembrata più completa di altre, cfr. infra):
“ …. esiste una appropriata, reale cultura della sicurezza quando quest’ultima è un valore assoluto nell’organizzazione, che non cede ad altri e che si persegue sempre e comunque, con comportamenti coerenti e non mere affermazioni di principio; e non può esistere senza attenzione al benessere organizzativo e ad una buona gestione di chi lavora.”
Ora, chiunque operi o almeno conosca dall’interno una azienda privata votato all’utile, o una organizzazione pubblica o non profit votate ai propri fini istituzionali, si renderà conto della difficoltà di realizzare il primato della sicurezza sul lavoro su altri valori dell’organizzazione, perché occorrono risorse, tempo, studio, e prima ancora, il possederla, una cultura della sicurezza. Ed è tanto più difficile se vi aggiungiamo una attenzione non strumentale, o solo dichiarata (le parole non costano nulla) a benessere organizzativo e a una gestione di chi lavora rispettosa di diritti, personalità, condizioni di lavoro.
Ora, usando il termine “cultura” nella sola accezione positiva, per individuare una cultura della sicurezza potremmo partire dall’osservare le situazioni in cui detta positiva cultura latita. E troviamo:
- violazioni diffuse delle norme e delle procedure previste per le attività routinarie e non (NB: le norme sono ben conosciute, checché ne dicano certi politici, come un qualsiasi esame delle ispezioni, delle sanzioni amministrative e dei procedimenti giudiziari in materia confermerebbe. Le violazioni sono invece intenzionali, non dovute ad ignoranza; e lo stesso dicasi per altri aspetti della gestione aziendale, quali i rapporti di lavoro, gli adempimenti fiscali, la gestione dei rifiuti e delle emissioni ambientali);
- mancato rispetto, ove esistente (ma evidentemente solo sulla carta), del Sistema di Gestione Sicurezza dell’azienda/organizzazione (normativa obbligatoria, sistema organizzativo, perfino eventuali certificazioni, formazione e addestramento di chi lavora, rapporti con fornitori e sub-fornitori);
- gestione del management che sistematicamente privilegia produzione (quantità, tempi, flussi) e contenimento dei costi, quindi all’utile, rispetto la sicurezza, mai considerata un investimento ma solo un costo; e ancor minor attenzione al benessere organizzativo. E questo si traduce anche in un ricorso sistematico a forme di lavoro precario e pagato il meno possibile, ove la qualificazione del lavoro stesso, e chi lo svolge, non sono considerati importanti: il lavoro è considerato alla stregua della corrente elettrica, che uso quando, quanto e finché che serve, con qualità della stessa (erroneamente) considerata sempre sufficiente (e figuriamoci le conoscenze e consapevolezza sulla sicurezza ..), e quando non serve si stacca (la metafora è di Luciano Gallino, nel suo libro “Il lavoro non è una merce”, tutt’ora attuale, purtroppo). Poi, al contrario, le pur parziali indagini sugli infortuni mortali e gravi sembrano confermare un legame tra forme di lavoro precario e infortuni che, purtroppo, ripeto, i dati INAIL continuano a non indagare: ma non meravigliamoci, una politica che negli ultimi decenni ha sempre più precarizzato normativamente, e svalutato culturalmente, il lavoro in nome di asserite flessibilità e competitività non ama fare i conti con gli aspetti negativi di tale scelte politiche.
Ma se una qualche positiva cultura della sicurezza è presente, come la si verifica e misura? Partiamo dalle verifica. Diamo per scontato che il rispetto formale delle norme è condizione necessaria, ma non sufficiente, anche perché tale rispetto si concretizza in documenti ed atti formali che possono ben restare solo sulla carta o i files su cui sono scritti. La presenza di SGSL o MOG, con relative certificazioni di sicurezza, in particolare oggi la ISO 45000, certificate da organismi indipendenti aderenti ad ACCREDIA, sono una sufficiente garanzia. Esistono poi altre sistemi di certificazione “volontari”, settoriali, aziendali, oppure generali che seguono altri modelli come le norme UNI e non utilizzano certificazioni indipendenti; e questi, mi permetto senza poter approfondire, ne danno meno, di garanzia, perché si prestano ad essere costruiti solo sulla carta. Degli AIWM, e dei loro pregi e difetti, si è parlato negli articoli del 06 e 23 febbraio; e ci sarebbe da approfondire (ma qualcuno sarà già al lavoro) come si integrano con i sistemi citati in precedenza con questi AIWM.
In situazioni non strutturate secondo normative esterne, una ipotesi, ad opera dell’ingegnere, e studioso, Carmelo Catanoso (la si trova in un articolo Punto Sicuro nel marzo 2025) , è quella di verificare il presidio efficace di alcune aree chiave, che brevemente riassumo in seguito. Non è l’unico, ma lo giudico, a differenza di altri (cfr. infra) più comprensivo per estensione e intellegibile anche ai non specialisti.
Politica, organizzazione e comunicazione – (impegno visibile sulla SSL, comunicata regolarmente come importante, in tutta la catena di gestione, adozione di norme e procedure oltre i requisiti minimi i legge, revisione periodica della selezione dei fornitori)
Addestramento e formazione (precedente analisi dei bisogni formativi individuali e dell’organizzazione, ripetuta periodicamente, programmi rivisti in caso di infortuni, più o meno gravi, o di quasi incidenti – near miss -, risorse adeguate, valutazione sistematica dell’apprendimento e delle monitoraggio delle sue ricadute sull’attività)
Gestione delle performance – (sistema di indicatori delle prestazioni della SSL, es. indici frequenza e gravità, numero di near miss – programma di miglioramento, comunicazione sistematica di tali prestazioni a management e tutto il personale, analoga comunicazione a lavoratori e loro rappresentanti – RLS, RSU, RSA- delle misure adottate)
Valutazione individuale – (gestione di situazioni individuali, quali stress lavoro correlato ma anche extra lavorativo, inadeguata percezione del rischio, interventi sistematici per evitare il ripetersi di comportamenti a rischio, focus group sul controllo del rischio, formazione ed addestramento individuali per l’autovalutazione del rischio).
Quanto sopra resta però a livello organizzativo e non misura ancora il livello della così elaborata e progettata cultura della sicurezza all’interno dell’organizzazione aziendale, cioè, preciso io, quanto i comportamenti dei singoli, ad ogni livello dell’organizzazione, ne sono imbevuti e quali risultati danno. Catanoso suggerisce, almeno nelle realtà di medie o grandi dimensioni, di utilizzare appositi questionari (ad esempio su gestione manageriale, comunicazione e sua efficacia, partecipazione, formazione/informazione, motivazione, rispetto delle procedure, gestione dei quasi incidenti – near miss -, e simili, con contenuto e strutturazione appositi); oppure di procedere ad interviste individuali (scelta a mio parere più praticabile nelle realtà di minori dimensioni).
Senza pignolare su singoli aspetti di dettaglio, il modello è certamente condivisibile nel suo impianto, ma soffre di indeterminatezza. Almeno nell’articolo citato, non sono indicate infatti le unità di misura da adottare, come pure il “punteggio”, se così lo possiamo chiamare, dei singoli elementi, compreso il rispetto della normativa obbligatoria; ed è evidente che non tutti gli elementi sopra indicati hanno lo stesso valore, e ciascuno di loro, pur presente, può avere diversa importanza. Ma senza una unità di misura, una qualsiasi misurazione non è possibile, e, se ogni azienda/ente decide autonomamente le proprie, le misurazioni pur effettuate non sono comparabili. Peraltro, misurabilità ed eventuale comparabilità possono avere valore se legate a sistemi incentivanti, diffusione dell’immagine, rapporti con fornitori, stakeholders, pubblici poteri competenti per vigilanza e controlli ma non solo, insomma se dalla misurazione derivano conseguenze sull’operatività; conseguenze immediate all’interno, tutte da costruire all’esterno.
Dal punto di vista della misurabilità di una cultura della sicurezza e delle sue conseguenze, si conferma che la patente a punti nell’edilizia (cfr. l’articolo 8 settembre 2024) non è solo una occasione perduta, ma l’emblema della concezione sbagliata di cultura della sicurezza: mero rispetto delle norme (contraddetto peraltro da deroghe, eccezioni, “sospensioni condizionali” delle sanzioni, criteri di accesso all’attività che definire laschi è poco), punteggi assegnati opinabilmente quando senza logica apparente, nessuna attenzione ai processi interni né incentivi/premi al miglioramento. Ma, e qui concludo, la misurabilità della cultura della sicurezza in realtà presuppone, prima, una valutazione (nel senso etimologico del termine: dare valore) dell’importanza degli elementi che la costituiscono, nel modello teorico adottato come nelle sue applicazioni pratiche. Per chiarire, quanto sono importanti partecipazione dei lavoratori e flussi di comunicazione non solo top down – dal vertice alla base – (secondo il modello gerarchico che, più o meno consapevolmente e integralmente, adottano sia il sistema normativo obbligatorio del TU 81/2008, sia le certificazioni di qualità, sia in generale i modelli di organizzazione aziendale) ma anche orizzontali oppure bottom up – dalla base verso il vertice?
Infine, ogni tipo di cultura della sicurezza genera un certo tipo di gestione della sicurezza stessa; il modello esposto sopra è uno dei tanti, anche in altri se gli elementi di base spesso sono i medesimi, magari diversamente denominati e combinati. E, rifacendomi ad un articolo di Veronica Bonanomi pubblicato su Punto sicuro nel dicembre 2023, per la cultura della sicurezza esistono nel mercato della consulenza numerosi modelli per analizzarla, misurarla e accrescerla (lettrici e lettori, non fatevi venire il mal di testa):
- la Bradley Curve – Curva di Bradley –
- Il Safety Culture Maturity Model – Modello maturo di cultura della sicurezza;
- Il modello HSE (Health, Safety, Environment – Salute, sicurezza Ambiente) di Shell che vede molte aziende oggi dotarsi di specifiche strutture manageriali per una gestione integrata di questi aspetti
- Il modello di Cameron e Quinn basato sui concetti di cultura organizzativa in senso lato, applicabile anche a quella della sicurezza.
- Il modello Behavior-Based Safety (BBS): su osservazione dei comportamenti e modifiche agli stessi, più adatto a realtà di minori dimensioni
- Il modello Zohar: basato su psicologia organizzativa, percezione della sicurezza e impegno dell’organizzazione
- Il modello Geller: ancora sull’influenzare comportamenti attraverso coinvolgimento e promozione di quelli sicuri.
Compito a casa (non obbligatorio, per carità …) per chi mi legge: osservi livello ed elementi costitutivi della cultura della sicurezza che c’è nell’azienda/organizzazione in cui lavora, e poi la valuti, almeno in termini di presenza e adeguatezza. E non si deprima troppo, magari.