Riservatezza e “obbligo di fedeltà” sono alcune delle clausole che i dipendenti di Medihospes Albania hanno dovuto sottoscrivere per iniziare a lavorare nelle strutture di Shëngjin e Gjadër. Gli operatori lamentano cattiva gestione e licenziamenti improvvisi. A un anno dall’aggiudicazione dell’appalto, la prefettura di Roma e il gestore non hanno ancora firmato il contratto. Mentre il governo ha riavviato i trasferimenti nella massima opacità. [l’inchiesta di Altreconomia].
“Firmando il contratto abbiamo dovuto accettare una clausola che prevede ‘l’obbligo di fedeltà’: all’interno dei centri c’era un clima di terrore”, dice Arben, nome di fantasia di un ex dipendente della Cooperativa Medihospes, l’ente gestore delle strutture per migranti di Shëngjin e Gjadër, in Albania, volute dal Governo Meloni. Un castello di carta retto da silenzio e “fedeltà” che poche informazioni fanno crollare in fretta.
Documenti ottenuti da Altreconomia dimostrano infatti la confusionaria gestione del ministero dell’Interno dopo la frettolosa apertura di metà ottobre 2024, quando i centri erano in gran parte inagibili. A pochi mesi di distanza, la sostanza non è cambiata: il nuovo avvio dell’11 aprile è avvenuto nel buio più totale e ancora senza un contratto esistente tra la prefettura di Roma e Medihospes.
Riavvolgiamo però il nastro per capire che cosa è successo. Esattamente un anno fa, il 16 aprile 2024, viene aggiudicato l’appalto da oltre 133 milioni di euro per la gestione dei centri e quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si reca in Albania il 5 giugno 2024 per inaugurarli, l’apertura sembra imminente. Non è così: tutto resta fermo per settimane con l’esecutivo che posticipa di mese in mese l’apertura. Poi, in pochissimi giorni arriva un’accelerazione.
L’8 ottobre avviene il doppio passaggio di “consegna” della struttura di Gjadër, il cuore del progetto albanese che prevede oltre 800 posti tra l’hotspot, il Cpr e la sezione destinata al carcere: il ministero della Difesa italiano, che ha svolto i lavori, consegna le strutture alla prefettura di Roma che a sua volta ne affida la gestione a Medihospes. Il documento, ottenuto da Altreconomia, sottolinea che l’avvio è parziale e “in via d’urgenza” ma il motivo dell’improvvisa fretta del governo non è indicato. Quel che è lampante, invece, è il ritardo dei lavori come dimostra la mappa allegata al verbale di inizio attività in cui vengono delimitate le aree ancora oggetto di cantiere che coprono gran parte del perimetro dei centri.


I problemi non sono solo relativi agli spazi inagibili. Con una nota del 14 ottobre 2024, a tre giorni dall’arrivo dei primi migranti intercettati in mare, Medihospes indica alla prefettura tutte le criticità di un avvio della gestione così precipitoso. “Sono state consegnate all’ente gestore due palazzine alloggi ma, come poi verificato nelle ore successive presso il sito di Gjadër, solo una è utilizzabile dal personale atteso che la seconda è priva di letti”. I posti destinati ad alloggi per l’ente gestore “da capitolato risultano essere 60” mentre al 14 ottobre erano stati consegnati “soli 24 posti e non 48”, come era stato evidentemente pattuito. Secondo la cooperativa ciò rappresenta una “enorme criticità che comporta un notevole aggravio dei costi per la conseguente sistemazione del personale trasfertista”.
Ancora. “Il numero delle aree destinate a spogliatoio del personale dell’ente gestore risulta assolutamente insufficiente”. Un’altra criticità è l’assenza di un locale da destinare a mensa o sala per la distribuzione dei pasti, così come l’affidamento a Medihospes della gestione di una “control room” non rientrante nelle prestazioni previste dal capitolato e dagli atti di gara. Solo per questa attività, comunicata all’ente gestore a sette giorni dall’avvio del servizio, serviranno un totale di 336 ore settimanali per le operazioni di videosorveglianza, antintrusione, antincendio, gestione di accessi e la filodiffusione.
La cooperativa si mette addirittura a disposizione per fornire servizi non previsti del bando di gara, compresa la citata “control room”. Il confine tra gestione e sorveglianza si fa così progressivamente sempre più labile. Tanto che l’ente segnala le problematiche relative ai “varchi con cancelli motorizzati, non essendoci cancelli pedonali per entrare nei singoli lotti”. Medihospes sottolinea che “l’apertura frequente dei cancelli carrabili aumenterebbe il rischio di tentativi di fuga dal singolo lotto verso le aree comuni”, auspicando la realizzazione di “cancelli metallici dotati di tornello” così da garantire un maggior controllo.
Insomma, i centri allora sono ancora lontani dall’essere pronti ma il 15 ottobre, mentre la nave Libra sta trasportando le prime persone soccorse al largo di Lampedusa verso le coste albanesi, arriva la firma del “verbale di esecuzione anticipata”. La giustificazione indicata dalla prefettura è “l’esigenza e l’urgenza di assicurare nell’interesse pubblico l’avvio del servizio di accoglienza e dei servizi connessi”.
“La mancata firma del contratto sembra testualmente fondarsi su ragioni di urgenza che tuttavia sono correlate all’interesse pubblico di vedere avviati i centri -osserva Maria Teresa Brocchetto, avvocata amministrativista di Milano e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)– con una formulazione che suona solo tautologica e lascia inspiegata la ragione stessa dell’urgenza, a fronte di un protocollo della durata di cinque anni e di un contratto di gestione della durata di due anni prorogabile per altri due”. Un contratto che ancora oggi, a un anno di distanza, non sembra essere stato firmato.

La confusione organizzativa poi ha avuto effetti negativi soprattutto sui lavoratori assunti da Medihospes, che a luglio 2024 ha aperto una filiale con sede a Tirana. “Ho siglato il contratto la notte prima dell’arrivo della nave Libra, non ho avuto neanche il tempo per leggere attentamente tutte le clausole”, riprende Arben, che racconta di non aver mai neanche ricevuto una copia dell’originale. “Ci è stata consegnata solo la fotocopia ma due mesi dopo la firma”, aggiunge, raccontando poi nel dettaglio come ha vissuto la prima operazione del governo. “Quando le prime persone sono arrivate sembravano spaventate, con gli sguardi assenti e sopraffatti dalle informazioni ricevute nell’hotspot di Shëngjin. Anche per noi è stato difficile seguire queste procedure”.
Dopo il primo sbarco non sono stati solo i migranti ad affrontare la confusione ma anche gli operatori albanesi che non avevano ricevuto alcuna formazione. “Ci è stato detto di mantenere un ruolo di osservazione durante quella operazione. Non conoscevamo altri colleghi, né avevamo una visione d’insieme sul funzionamento dei centri. Fino alla fine di dicembre non abbiamo avuto nemmeno un ufficio”, sottolinea l’ex lavoratore, criticando la cattiva gestione e il caos della prima operazione avvenuta in fretta e furia. Tanto che i turni di lavoro sono stati forniti ai lavoratori molto tardi. “Tra le nove e le dieci della sera prima, e questo è accaduto anche nella seconda operazione”, spiega Arben.
Inoltre, la prima formazione dello staff, durante la quale i lavoratori sono stati istruiti su tutte le procedure che si svolgono a Shëngjin e Gjadër con esercizi di simulazione sarebbe avvenuta solo una settimana dopo il primo trasferimento. Le sessioni informative sarebbero state condotte da Benedetto Bonaffini, imprenditore di Messina e già vicepresidente nazionale della Federazione italiana esercenti pubblici e turistici (Fiepet) di Confesercenti nonché colui che ha supportato Medihospes (allora Senis Hospes, come raccontato qui) a implementare le proprie attività nella città siciliana, soprattutto nell’ambito dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.
I lavoratori albanesi assunti da Medihospes nei primi mesi di attività nei centri sono stati 99. Il contratto che hanno firmato ha stringenti clausole di riservatezza e fedeltà
Nonostante gli esorbitanti investimenti per i centri stimati in 800 milioni di euro, i lavoratori hanno poi lamentato l’assenza di condizioni adeguate di base per il personale, tra cui il fatto che hanno dovuto viaggiare a proprie spese per coprire i venti chilometri di distanza che separano l’hotspot di Shëngjin ai centri di Gjadër. “Il mio turno più lungo è durato dalle otto del mattino alle undici di sera, anche se per legge non possiamo lavorare più di 12 ore -denuncia il lavoratore-. La cooperativa ci ha pagato tutti gli straordinari che abbiamo lavorato, ma non ci ha riconosciuto l’aumento del 25% del salario per le ore extra dopo le 19 previsto dal contratto”.
Sulla base di una lista interna di lavoratori ottenuta da Altreconomia, Medihospes Albania avrebbe assunto 99 lavoratori nei primi mesi di attività dei centri. Tra ottobre 2024 e metà gennaio 2025 sono stati contrattualizzati dieci mediatori, 14 informatori legali, sette operatori sociali e altri professionisti sanitari e amministrativi. Uno di questi ci ha mostrato il contratto di lavoro, basato sul diritto albanese, evidenziando le stringenti clausole di riservatezza che hanno costretto molti dei suoi colleghi a non parlare con i giornalisti. L’articolo 11 s’intitola “Riservatezza”, quello successivo “Obbligo di fedeltà” e prevede il dovere dei lavoratori a “mantenere segrete tutte le informazioni relative all’attività del datore di lavoro, informazioni di cui è venuto a conoscenza durante il periodo di impiego presso il datore di lavoro”. Anche dopo la fine del rapporto di lavoro.
Oltre al contratto, i lavoratori hanno dovuto firmare poi un codice di condotta, ovvero un documento interno che stabilisce le linee guida per garantire standard etici e professionali. Quest’ultimo li obbliga a consegnare il telefono all’ingresso del centro e a riporlo in un armadietto chiuso a chiave per utilizzarlo solo durante le pause, tranne nei casi in cui abbiano presentato al direttore del centro la richiesta di tenere il cellulare per esigenze di salute. Se non rispettano il codice di condotta, le persone assunte rischiano di incorrere in sanzioni che vanno dall’ammonimento scritto alla risoluzione del contratto. Come sostengono diversi ex dipendenti sentiti da Altreconomia, i rischi di infrangere il dovere di riservatezza ha fatto sì che si diffondesse paura nel denunciare potenziali abusi per timore di azioni legali o di licenziamento da parte dell’ente gestore.
“Alcuni colleghi mi hanno raccontato di aver firmato il contratto il 3 febbraio quando i migranti erano già stati riportati in Italia. Appena due ore dopo la firma sono stati informati in una riunione che il rapporto di lavoro si sarebbe concluso a metà febbraio” – Arben
Licenziamento che è comunque arrivato, per molti di loro, a metà febbraio. Infatti, dopo la conclusione dei primi tre mesi di contratto a gennaio 2025, alcuni dipendenti sono stati richiamati in vista del terzo tentativo del governo italiano di trasferire i migranti dopo i due “fallimenti” di ottobre. Ai lavoratori è stato fatto firmare un contratto di sei mesi ma le cose non hanno funzionato come il Governo Meloni auspicava: il 31 gennaio tutti e 43 i migranti portati in Albania hanno fatto rientro in Italia su decisione del Tribunale di Roma, che ha applicato la legge. “Alcuni colleghi mi hanno raccontato di aver firmato il contratto il 3 febbraio quando i migranti erano già stati riportati in Italia -sottolinea Arben-. Appena due ore dopo la firma sono stati informati in una riunione che il rapporto di lavoro si sarebbe concluso a metà febbraio”. La “giustificazione” data dall’ente gestore è stata fatta risalire a “una serie di pronunce giudiziarie contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Corte di cassazione”, come si legge nella comunicazione di interruzione del contratto di lavoro inviata ai dipendenti da Walter Balice, l’amministratore di Medihospes Albania.

L’ennesimo tentativo di rendere operativi i centri è iniziato come detto l’11 aprile di quest’anno con il trasferimento a Gjadër di 40 persone straniere rinchiuse nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani. Due sono già tornate in Italia ma è una delle poche informazioni note. L’operazione è infatti avvenuta nella più totale opacità. “Non abbiamo potuto avere accesso alla lista di chi è rinchiuso e ci sono già stati gravi atti di autolesionismo -racconta Rachele Scarpa, parlamentare del Partito democratico che ha visitato i centri il 16 aprile-. Sul contratto, invece, l’ente gestore non ha potuto rispondere altro che ‘no comment’”.
I nodi critici rimangono così molti. Non si sa se è previsto un importo minimo garantito a Medihospes per questi mesi di stop forzato delle strutture ma soprattutto la prefettura oggi sembra trovarsi in una posizione scomoda con l’ente gestore, vista la mancata firma del contratto a un anno dall’aggiudicazione dell’appalto. La prefettura di Roma non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento, così come la cooperativa che si è limitata a dire che “essendo un fornitore” non gli è permesso commentare quello che succede nei centri in Albania.