Il problematico concetto di cultura della sicurezza sul lavoro

di Maurizio Mazzetti /
6 Aprile 2025 /

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Avviso ai naviganti della rete approdati a questa rubrica e che si trovino a leggere il presente articolo: prima di parlare di cultura della sicurezza sul lavoro, farò un po’ di filosofia, ed in particolare di quella filosofia cosiddetta del linguaggio; e mi scuso con chi se ne occupa professionalmente per tagli, semplificazioni e approssimazioni, qui inevitabili. Ma mi consola Aristotele, che ebbe a scrivere come non si può fare a meno di filosofare, perché per non farlo, si deve fare appunto un’affermazione che è filosofica.

Della filosofia del linguaggio riporto, tra tante, la definizione che ne dà la mia vecchia Garzantina, cioè: “Qualunque insieme di dottrine filosofiche avente per oggetto il linguaggio umano, o, più in generale, i sistemi di comunicazione elaborati dall’uomo”.  Continuo  a riassumere: il linguaggio umano si serve di espressioni linguistiche, orali o scritte, ciascuna della quali ha uno o più significati sia per chi le produce, sia per chi ne fruisce. Per significato – e uso ancora l’accetta –  possiamo intendere qui da un lato quel che ha in mente, e che vuole indicare/trasmettere, chi produce una espressione linguistica (cit. il linguista Saussure), cosiddetto emittente; dall’altro, le reazioni/risposte che quella espressione linguistica genera nella mente del o dei destinatari (diretti, indiretti, consapevoli/inconsapevoli ecc.). Ed è noto che il classico problema di ogni forma di comunicazione è la coincidenza tra il significato che l’emittente intende dare a quella espressione linguistica, e quello che il destinatario percepisce: unico che realmente conta, e che magari finisce per essere diverso fino ad opposto. E ciò nonostante che in un certo gruppo di fruitori, che abbia avuto processi di apprendimento più o meno simili, intenzioni e reazioni/risposte dovrebbero essere simili, ed anzi esattamente le stesse nei linguaggi tecnici e specialistici.

Ora, se siete sopravvissute/i al rozzo Bignamino filosofico testé esposto, e non avete già virato verso per altre rotte, tornando a parlare di sicurezza sul lavoro tutti possiamo osservare che in Italia,  al verificarsi di un grave/mortale infortunio sul lavoro, magari plurimo, che impatta emozionalmente sulla pubblica opinione e si prende il suo breve periodo di celebrità sui media, ai consueti proclami sulla inaccettabilità di quanto accaduto (che però continua ad accadere, non sapendo di essere inaccettabile) immancabilmente segue il tormentone sulla necessaria “Cultura della Sicurezza”. Politici, rappresentanti di parti sociali, di associazioni di categoria, sindacalisti, magistrati, funzionari degli enti di vigilanza, consulenti, formatore, operatori dei media, raramente mancano di citare  la mancanza di una “Cultura della Sicurezza” come causa principale, o concausa, dell’evento avvenuto. “Cultura della sicurezza” che a loro dire manca, è poca, insufficiente, non conosciuta, trascurata, quindi da diffondere, migliorare, incentivare, promuovere, da fare già nelle scuole, magari finanziare, e via con consimili esternazioni: ma cosa intendono per cultura della sicurezza? Siamo sicuri che abbiano tutti in testa la stessa cosa? E io che scrivo, e chi legge, cosa pensiamo, cosa capiamo quando sentiamo, leggiamo, magari parliamo e scriviamo usando questa espressione?  Mentre chi legge fa un proprio rapido controllo, una cosa è certa: una spiegazione, o meglio definizione di cosa si intenda, di solito manca del tutto; e quando c’è, resta di solito confinata ad un rinvio a conoscenza e applicazione delle norme e delle regole vigenti,  il che (cfr. infra) non può bastare.

Proseguiamo a fare un po’ di rozza analisi linguistica sull’espressione “cultura della sicurezza sul lavoro”. Partendo dalla specificazione, assumiamo che sia sufficientemente chiaro cos’è il lavoro umano, svolto in forma autonoma o dipendente nella società odierna con tutte le sue regole giuridiche e caratteristiche tecniche, organizzative, economiche.

Quanto alla sicurezza sul lavoro, potremmo definirla oggettivamente grosso modo la mancanza, o più realisticamente la maggior diminuzione possibile, di eventi e/o situazioni dannosi (o potenzialmente dannosi, si pensi ai near misses) connessi al lavoro stesso che possano colpire, o colpiscano, persone, (in primo luogo chi il lavoro lo svolge), e/o cose. E se pur verificatisi che abbiano la minor possibile gravità, cioè entità dei danni in termini di durata se temporanei e gravità se  permanenti. Dette assenze e/o riduzione di eventi dannosi sono l’obiettivo, sappiamo,  di tutto un complesso di apposite norme giuridiche, regole tecniche, strumenti organizzativi, attività formative, attività di controllo, con un livello minimo obbligatorio per legge, ma con sempre possibili implementazioni e miglioramenti. Osservo però che a tale concezione oggettiva e negativa della sicurezza sul lavoro, si potrebbe affiancare una concezione positiva e soggettiva: cioè la consapevolezza, o forse meglio la fiducia, in chi lavora, che tali eventi nocivi non si verificheranno perché l’organizzazione assicura che non accadano, e che personalmente le persone hanno a disposizione tutti gli strumenti (e la possibilità concreta di usarli) per fare la propria parte. Esiste cioè una sicurezza non solo fisica ma anche psicologica (c’è chi parla di ergonomia psicologica), altrettanto importante ma scarsamente attenzionata, nonostante i moniti e gli studi della psicologia del lavoro. La sicurezza, nella sua duplice accezione, vede comunque sfumare il confine con il più ampio concetto di benessere lavorativo, benessere che come la sicurezza (non ci deve stancare di ripeterlo) a sua volta è parte della complessiva gestione aziendale.  Raggiungere tale sicurezza soggettiva può essere relativamente facile per gli infortuni, e almeno per quelli che possono accadere all’interno dell’organizzazione; ma ciò purché l’organizzazione sia “virtuosa” (o, almeno, rispetti le norme)  e operi per garantire tale sicurezza, anziché, come purtroppo la cronaca non smette di ricordarci, la sicurezza ceda ad altre priorità, quali diminuzione di tempi e costi e incremento degli utili, o ne manchino i presupposti in termini di conoscenze e strumenti. Ma anche in una organizzazione virtuosa esistono elementi non controllabili dall’organizzazione stessa, si pensi agli eventi legati alla circolazione, a appalti e forniture, e soprattutto a tutti i rischi psicosociali.

Più complesso invece il significato di “cultura”, significato che cambia a seconda degli ambiti (filosofico, antropologico, sociologico ecc.) in cui il termine viene usato. Di tutti i possibili significati del termine  in una accezione diciamo comune e senza ulteriori specificazioni, dal dizionario Treccani (https://www.treccani.it/vocabolario/cultura) riporto, per estratto,  quelle che mi paiono fare al caso nostro.

  1. “L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo …
  2. L’insieme delle conoscenze relative a una particolare disciplina …
  3. Complesso di conoscenze, competenze o credenze (o anche soltanto particolari elementi e settori di esso), proprie di un’età, di una classe o categoria sociale, di un ambiente: c. contadina, c. urbana, c

c. industriale; la c. scritta e la c. orale …

  • In etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale …
  • l’idealizzazione, e nello stesso tempo la scelta consapevole, l’adozione pratica di un sistema di vita, di un costume, di un comportamento, o, anche, l’attribuzione di un particolare valore a determinate concezioni o realtà, l’acquisizione di una sensibilità e coscienza collettiva di fronte a problemi umani e sociali che non possono essere ignorati o trascurati. (c. della vita,…  della morte, …. del lavoro …. della povertà … dell’assenteismo della pace … della solidarietà … dell’altruismo …. del dialogo … del profitto … c. ecologica o ambientaledel turismo ecc.   Esempi  tutti questi, che possono essere classificati sotto la triplice ripartizione, che talora viene enunciata, di una cultura ideologica, una cultura  materiale, una cultura comportamentale

Un primo significato, più ristretto e “tecnico”, e credo prevalente, dell’espressione cultura della sicurezza sul lavoro è riconducibile ai punti 2 e anche 3:  ma è piuttosto evidente che si tratti di ricadute di fenomeni ben più ampi e complessi, sovraordinati, o meglio di base, come la ricerca scientifica e tecnologica, il sistema formativo nel suo complesso, la struttura economica, istituzionale, sociale. E si tratta di elementi dati in certi tempi e luoghi, sui quali un’azione richiede tempo e non ha ricadute immediate e dirette.

Il significato di cui al punto 4 è ugualmente utilizzabile se si considera una azienda, o altra organizzazione produttiva, come un gruppo sociale, in quanto necessariamente composto da esseri umani; ma anche in questo caso, come per i due significati precedenti, il gruppo sociale è inserito in un contesto più ampio, imprescindibile e lento e complesso nei cambiamenti.

Più complessa, e forse più calzante, è l’accezione di cui al punto 5, soprattutto per il riferimento a sensibilità, valori, coscienze collettive, nonché per il richiamo alla classica tripartizione di cultura ideologica, materiale, comportamentale: e come non mi stancherò di ripetere, ancora una volta, la sicurezza sul lavoro si fa attraverso  comportamenti umani; e all’inverso l’insicurezza, che si traduce in incidenti, quasi infortuni, infortuni, malattie professionali, è anch’essa sempre frutto dei medesimi comportamenti. E si noti che i significati di cui sopra non fanno alcun riferimento ad un sistema di regole, qui le norme obbligatorie in questa specifica materia: ma il rispetto delle regole, indispensabili in ogni sistema sociale (in ogni ordinamento, dicevano i giuristi istituzionalisti come Santi Romano), che siano giuridiche o di altro genere, come valore e modello di comportamento adottato non solo per timore delle sanzioni in caso di trasgressione, è anch’esso una cultura (e su questa l’Italia non è esattamente un modello, e per qualsiasi regola ….). Perché, attenzione, il termine cultura non è valutativo, ma neutro, anche se nell’accezione comune assume un valore positivo, indipendentemente dal contenuto; ma anche a voler tener conto dell’accezione positiva del termine, di “culture della sicurezza” ce ne possono essere tante. Di che parliamo, allora? Quale è la “cultura della sicurezza” che manca, e che quindi va implementata? Una (non facile) documentata risposta non è possibile, e certo non  può darla chi scrive: ma sembra piuttosto che nessuno si ponga neppure la domanda. Ma i filosofi ci ricordano (Bertrand Russell, tanto per citarne uno  famoso) che più che dare le risposte conta fare le domande giuste …

E premessa per la domanda è non dimenticare che il termine “cultura” di per sé è avalutativo, neutrale, anche se nel linguaggio comune di per sé ha un significato positivo (esempi: avere una cultura, farsi una cultura, mancanza di cultura …): ma anche nella mafia, nel passato regime razzista sudafricano, in una tribù di razziatori cannibali, di mercanti di schiavi  ed in consimili nefaste organizzazioni troviamo una loro propria cultura, con valori che noi invece giudichiamo disvalori inaccettabili.  Quindi, attenzione,  una determinata “cultura della sicurezza” (come appunto ogni cultura in senso lato) può non essere positiva, perché non esistono giudizi di valore universali (certo poi non tutti sono uguali e condivisibili…).  E’ quindi, a suo modo,  una “cultura della sicurezza” anche quella che privilegia disvalori quali diminuzione dei costi, abbreviare i tempi, risparmio sulla formazione, mancato uso di DPI, rimozione di dispositivi di protezione a macchine e impianti, elusione o mancato, intenzionale, rispetto delle regole contrattuali e di sicurezza, metodologie simil-schiavistiche, di puro sfruttamento (anche se non si usa la sferza o il bastone del sorvegliante, ma qualche raffinato algoritmo, volto della schiavitù del XXI secolo), di gestione di chi lavora, e via enumerando. E con il profitto che diviene l’unico vero valore da raggiungere,  e il rispetto sostanziale dei diritti delle persone al lavoro un optional quando non un impaccio.

Tra le tante definizioni e teorie, spenderò due parole sulla definizione di “cultura della sicurezza” ad opera di Carmelo Catanoso, esperto/studioso della materia, che trovo più accurata e soprattutto più comprensiva. L’autore vede la Cultura della Sicurezza come “il prodotto dei valori, degli atteggiamenti, della consapevolezza, delle abilità e dei modelli di comportamento individuali e di gruppo che determinano l’impegno nella gestione della salute e della sicurezza, integrando tale prodotto nel rapporto tra l’organizzazione aziendale e gli individui che ne fanno parte”. Volendo semplificare è possibile definirla anche come “un insieme di modi di fare e di pensare ampiamente condivisi attori di un’organizzazione al fine di controllare i rischi più significativi associati alla loro attività”. Il che, almeno, significa che la sicurezza è un valore positivo …

Aderendo a questa impostazione, possiamo inoltre affermare che è l’intera cultura di un’organizzazione che influenza il sistema interno di gestione della sicurezza; ma non dimentichiamo che “Cultura della Sicurezza” non è sinonimo di “Cultura Organizzativa” proprio perché è quest’ultima e non la prima, quella che permette di raggiungere e mantenere un elevato livello di sicurezza sul lavoro; e di “Culture Organizzative” nel duplice ambivalente significato esposto sopra, ne potremmo trovare tante, anche pessime.  E la “Cultura organizzativa” è a suo un prodotto sociale che varia a seconda di tempi, luoghi, condizioni: ogni generalizzazione è pericolosa.

Tutto ciò premesso, avanzo una mia tesi: esiste una appropriata, reale cultura della sicurezza quando quest’ultima è un valore assoluto nell’organizzazione, che non cede ad altri e che si persegue sempre e comunque, con comportamenti coerenti e non mere affermazioni di principio; e non può esistere senza attenzione al benessere organizzativo e ad una buona gestione di chi lavora. Perché mettere in sicurezza una macchina o un impianto, o stabilire procedure di lavorazione sicure,  è relativamente facile rispetto all’ottenere sempre comportamenti sicuri. Una macchina, un impianto, un dispositivo, a parità di condizioni e input funzionano allo stesso modo; gli esseri umani, anzi anche il singolo essere umano, no, come sa bene la psicologia non solo del lavoro.

A questo punto, possiamo vedere in cosa può consistere questa benedetta “cultura della sicurezza” pur nella nobile accezione sopra accennata? Concretamente, all’interno di una organizzazione, in quali comportamenti si può tradurre, unici, ricordo, a contare al di là delle enunciazioni? Come, quindi, la si può favorire? E si può misurare, in qualche modo, verificando eventualmente (auspicabilmente) l’efficacia delle politiche per formarla, diffonderla, accrescerla, che come ricordavo all’inizio da ogni dove si indicano come soluzioni, salvo poi fermarsi a qualche proclama? Se ne riparlerà in un prossimo capitolo, senza la pretesa di esaurire un argomento molto vasto, ma dando qualche spunto.

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