La democrazia concetto antico e contemporaneo, attraversa la storia degli ultimi duemilacinquecento anni con alterne vicende che ne hanno contrassegnato le fortune o le sconfitte non è stata ben considerata fin dalle sue origini.
Platone dette inizialmente una definizione molto negativa di democrazia da “demos” intesa come potere della gente comune, ovvero di coloro che non sapendo esattamente cosa comporta la gestione oculata del potere, saranno preda della demagogia e infine della tirannide ( cit.democrazia ateniese,Teatrocrazia).
Diversamente da Platone, Aristotele pur non riponendo ugualmente alcuna fiducia nella
democrazia, riteneva che un governo di molti fosse tendenzialmente più affidabile di un governo di
pochi, classificando i regimi in benefici (Monarchia, Aristocrazia e Politeia) e corrotti (Tirannia,
Oligarchia e Democrazia)
Per lungo tempo la democrazia non ha goduto di particolare consenso.
L’esercizio del potere, a seguito dell’evoluzione dalle prime forme di controllo organizzato del
territorio, da parte di signori feudali, si esercitava attraverso l’imposizione con la forza di norme e
tasse senza che ad esso corrispondesse alcun diritto da parte dei sudditi che non avevano personalità
giuridica.
Nel tempo la lotta tra feudi evolse fino alla costituzione delle prime forme statuali di regni sempre a carattere assolutistico che detenevano il comando su territori più vasti direttamente o attraverso
feudatari federati al regno.
Occorre giungere al secolo dei lumi e alla Rivoluzione francese per l’affermazione del concetto di
divisione dei poteri e di rappresentanza istituzionalizzata di interessi diversi.
In quell’arco di tempo che può essere compreso tra le figure di Montesquieu, Rousseau e De
Tocqueville, il pensiero sulla democrazia compie il percorso di maturazione più completo, dalla
democrazia diretta ovvero dalla volontà generale del popolo, alla democrazia rappresentativa dello stato liberale.
Il termine “dittatura” ha subito nel tempo mutazioni in senso molto diverso e si può dire in direzione inversa rispetto alla democrazia, almeno fino a poco tempo fa. Durante l’Impero romano veniva considerata una forma di magistratura straordinaria, necessaria per riequilibrare una situazione non più governabile ma in accordo con il popolo, nella forma della tirannide che durava il tempo necessario a ripristinare la normalità.
Le Repubblica romana (III secolo AC) affidò a Cincinnato e a Quinto Fabio Massimo un mandato
dittatoriale straordinario a termine. Machiavelli la considerava una scelta positiva per la repubblica
e anche la Rivoluzione francese contemplò un periodo di dittatura costituzionale col terrore, ma iniziò da lì una riconsiderazione diversa del tutto negativa di tale forma di potere. Anche le democrazie costituzionali possono prevedere periodi limitati ed eccezionali di accentramento di potere per ragioni di emergenza ma con mandati limitati.
In ogni caso, a partire dal ventesimo secolo, il termine dittatura, tirannide e autocrazia, hanno assunto un significato e un valore negativi. Oggi riscontriamo un “ritorno di celebrità” e meglio dire di minore “intransigenza critica” verso taluni regimi autoritari, soprattutto in relazione alla loro collocazione geopolitica, all’importanza economica e/o militare, un segno della complessa fase che stiamo attraversando.
Emblematica la fase pronunciata da Mario Draghi a proposito del sofagate in Turchia : “Mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione che la presidente Von der Leyen ha dovuto subire. Ma con questi, chiamiamoli per quel che sono, dittatori, di cui però si ha bisogno e con cui non possiamo rimpere, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di opinioni sulla società”
Alla base di molte o quasi tutte le teorie sulla democrazia, soprattutto dal secondo dopoguerra, vi è l’assunzione del modello di democrazia occidentale in un’economia di libero mercato capitalistico (liberista) come unico riferimento per misurare altre situazioni. Il confronto con i paesi orientali si è sviluppato lungo questo tracciato.
Le politiche verso i paesi sottosviluppati o in via di sviluppo del terzo mondo sono stati caratterizzati da determinazioni volte ad imporre a quelle incerte economie, scelte di gestione delle risorse che venivano stanziate secondo quel che veniva definito come il Washinton consensus, ovvero l’introduzione di politiche di mercato deregolamentato e competitivo per favorire l’ingresso di una pluralità di soggetti e dinamizzare l’economia e la società, a fianco di politiche pubbliche restrittive e di riduzione del ruolo dello Stato.
I soggetti deputati a governare queste politiche, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e i think thank di economisti vicini all’amministrazione USA, erano il nucleo di potere decisionale. I risultati non sono stati in linea generale quelli attesi e in molti casi hanno determinato veri e propri catastrofici fallimenti, nelle complesse situazioni in cui tali decisioni venivano calate.
Un ripensamento di questo indirizzo auspicato da economisti accreditati come il premio Nobel
Amartya Sen e Ben Fine per segnalare la necessità di preoccuparsi più del bisogno di
riforme sociali ed uguaglianza economica, non hanno finora prodotto codifiche sostanziali.
Alla base della formazione del pensiero politico si sono sviluppate diverse teorie della democrazia.
La teoria classica della modernizzazione sostiene che la trasformazione dell’economia da agricola ad industriale e terziaria con l’aumento del benessere economico e della stratificazione sociale, è un
fattore determinante della modernizzazione ed anche dell’evoluzione verso sistemi più democratici
come afferma Seymour M. Lipset . In parte diversamente, Adam Prezwosky sostiene
che l’aumento della ricchezza pro capite aiuta a mantenere la democrazia ma non a farla nascere. Egli ritiene che la maggior parte delle persone ricche preferisce vivere in una democrazia e, di
conseguenza, i paesi di reddito elevato tendono a restare democratici.al contrario in un paese a regime dittatoriale che diventa ricco, tutti coloro che non fanno parte della ristretta cerchia del potere preferirebbero vivere in democrazia per rischiare meno di perdere la posizione economica appena acquisita.
La teoria della modernizzazione, soprattutto dal secondo dopoguerra ha rappresentato, con
un’impronta fortemente funzionalista e strutturalista, è stata il caposaldo dell’ideologia occidentale del possibile sviluppo democratico di altri paesi, inclusi quelli del Medio Oriente e Nord Africa (area MENA). Secondo tale prospettiva, la democrazia può sorgere e consolidarsi in presenza di sviluppo tecnologico ed industriale, non dipende da fattori umani o dall’azione di gruppi sociali, se non in conseguenza dell’affermarsi di una borghesia produttiva. Questa teoria è entrata fortemente in crisi nell’ultimo quindicennio in cui si sono viste società progredire dal punti di vista della modernizzazione ma nello stesso tempo abbandonare i percorsi di sviluppo democratico. (Tunisia, Myamar, Turchia)
La teoria dello sviluppo, invece, considera che il processo di evoluzione economica e politica è
storicamente passato attraverso la modernizzazione dell’agricoltura che ha dato luogo al sorgere
dell’economia industriale e terziaria. La contemporanea nascita e l’evoluzione della funzione dei
parlamenti correlata ai processi di trasformazione economica e sociale, ha fatto scaturire nel rapporto con la monarchia il concetto del cosiddetto Debito Sovrano, in conseguenza dell’impegno credibile, come nell’esempio della “gloriosa rivoluzione” in Inghilterra, ovvero la trasformazione
dallo “Stato predatore” ad un’economia pubblica redistributiva condizione di sviluppo democratico.
Secondo la teoria del legame tra risorse naturali e democrazia o della maledizione politica delle
risorse i regimi dei Paesi che dispongono di ingenti risorse naturali in genere hanno poca propensione alla democrazia, a causa del fatto che usualmente, hanno un sistema di tassazione molto blando, in cui, anche se vi sono possessori privati di materie prime, questi in effetti non ne possono disporne del tutto liberamente, e se ci sono molte proteste per le condizioni di
vita, come nei casi nel 2011 dell’Algeria dell’Arabia saudita e dell’Egitto, i governi possono
rispondere con sussidi ed interventi economici a sostegno della popolazione senza particolari
difficoltà. È tollerata, a volte favorita, la corruzione e si premiano le forze fedeli, soprattutto
dell’esercito e della polizia. Si spendono molte risorse per armi ed equipaggiamenti alle forze di
polizia per reprimere il dissenso. Non necessariamente la presenza di risorse naturali è un
impedimento per la democrazia, se è accompagnata dalla presenza di ricchezze mobili dei privati,
oppure se la scoperta e l’utilizzo di risorse naturali avviene dopo che la democrazia è già consolidata (Canada, Norvegia Stati Uniti)
Un ulteriore punto di vista analizza l’incidenza che gli aiuti allo sviluppo determinano sulla
transizione alla democrazia: è molto dibattuto e dubbio se i paesi poveri o in difficoltà che ricevono
aiuti allo sviluppo da donatori terzi o organizzazioni internazionali, siano sospinti a riforme
democratiche. Generalmente non accade dal punto di vista del riscontro empirico se non a determinate condizioni che devono verificarsi complessivamente: a) il Paese che riceve gli aiuti deve dipendere effettivamente dall’intervento esterno b) il paese o l’organizzazione donatrice vuole effettivamente favorire la transizione democratica c) le minacce di sospensione degli aiuti, nel caso in cui le riforme richieste non vengano attuate, sia credibile.
Non c’è evidenza di un nesso esistente tra aumento o diminuzione delle diseguaglianze
economiche e democrazia, la componente sociale più importante secondo la teoria delle
disuguaglianze è rappresentata dalle élite borghesi, proprietarie di beni mobili e/o immobili. Nel caso di un Paese fortemente integrato con i mercati mondiali, la tendenza ad uno sviluppo democratico è più evidente. Dove invece predomina la proprietà terriera del latifondo ed un’economia più arretrata, le élite sono generalmente più conservatrici e non favoriscono affatto una redistribuzione della ricchezza; pertanto, l’evoluzione democratica è più lenta o assente.
Secondo la teoria delle determinanti culturali, lo sviluppo economico produce cambiamenti culturali e sono proprio questi ultimi a favorire il sorgere della democrazia; vi sono diverse e contrastanti opinioni a riguardo. In primo luogo, vanno individuati alcuni filoni principali di pensiero: i primordialisti conservatori ritengono che la cultura sia data all’origine del mondo, sia costitutiva delle società e sottende legami di razza di sangue, vincoli che impediscono in alcuni casi l’evoluzione verso la democrazia, ad esempio per alcune religioni come l’Islam che conterrebbero elementi di tradizionalismo retrogrado tali da impedirla. (Huntington)
I costruttivisti al contrario ritengono che la cultura è di per sé mutevole e poliedrica, di conseguenza
dinamizza i processi economici e sociali, divenendo in tal modo un fattore determinante della
democrazia. In tal senso non è affatto escluso che diverse culture possano pervenire ad un’evoluzione in senso democratico, se pur in forme proprie e diverse dalle altre (Mead, Piaget).
Nel confronto culturale tra pensiero occidentale ed intellettualità araba ha assunto un ruolo di primo
piano la critica alle teorie sulla classificazione tradizionale di “Oriente” espresse da Edward Said nel celebre saggio Orientalismo,l’immagine europea dell’oriente. Egli afferma che si tratta da parte dell’Occidente di una costruzione astratta di un’identità altro da sé in cui agiscono stereotipi, ignoranza, pregiudizi e molti interessi materiali, ma non casuali o sconnessi, bensì frutto di una precisa visione ideologica e strategica in cui l’ignoranza della realtà è una scelta voluta per costruire un pregiudizio funzionale ad un’idea di dominio.
La critica di Said è soprattutto indirizzata a metter in discussione quei circoli degli
area studies, come Middle Eastern Studies Association (MESA), finanziati dalla Fondazione Ford e
forse legati a centri potere e di governo americani.
Già Eschilo individuava delle differenze naturali tra popolazioni, considerando gli asiatici più inclini all’autoritarismo che alla democrazia ateniese. Successivamente Montesquieu sottolineava che le popolazioni europee erano predisposte alla monarchia mentre l’oriente al dispotismo e la democrazia era patrimonio del mondo antico. Considerava che il miglior governo sarebbe stato quello che seguiva le inclinazioni naturali del proprio Paese. Anche John Stuart Mill partiva dall’assunto delle differenti predisposizioni dei popoli ad accettare le regole della democrazia, ma credeva nella capacità della cultura di poter cambiare le abitudini e nella possibilità dell’affermazione delle idee democratiche anche in civiltà più arretrate.
La teoria della relazione tra sviluppo economico e cultura addiviene alla convinzione che il primo determina la possibilità della seconda ma che sia la cultura a poter determinare l’evoluzione verso la democrazia
L’occidente ritiene di aver inventato e costruito le forme più avanzate di democrazia, ma vediamo nel prossimo articolo come va a finire