Quando l’economia riparte dopo un breve o lungo periodo di crisi, è scontato che si riprendano più velocemente i settori e i territori che prima di essa erano più dinamici. Contrariamente a quello che immaginano i sognatori, le crisi non fanno altro che confermare (se non addirittura acuire) le differenze e le disuguaglianze precedentemente esistenti, siano esse economiche, territoriali, sociali o civili. In Italia questa regola è stata sempre rispettata dopo le numerose recessioni che abbiamo conosciuto dal Dopoguerra in poi, a partire dallo shock petrolifero del 1973 a quella dei primi anni Novanta, dallo scoppio della bolla finanziaria del 2008 fino alla pandemia. In tutti questi momenti difficili per la nostra economia, il Centro-Nord ne è uscito sempre prima e sempre in avanti, mentre il Sud stentava e via via aumentava la distanza con il resto del Paese. Sono state le crisi, anzi la loro gestione e le strategie per superarle, che hanno reso l’Italia la nazione “resiliente” per eccellenza e al tempo stesso sempre più fragile perché basata sul teorema dei due terzi virtuosi. In base a questo teorema una nazione è forte se almeno due terzi di essa si sviluppano e consolidano nel tempo i loro risultati (il Centro-Nord) anche se l’altro terzo (il Sud) stenta e a volte regredisce. Insomma, ci si può disinteressare di un terzo se gli altri due reggono. E non è forse proprio questo falso convincimento il punto più debole della nostra storia unitaria? Può competere a lungo un’Italia dei due terzi? Può resistere a lungo un’economia che ha un solo motore acceso con cui trascinare tutta la nazione?
Tutti questi interrogativi sembrano attraversare l’intero rapporto Svimez (sull’economia e la società del Mezzogiorno) presentato l’altro ieri a Roma. È vero che rispetto agli altri periodi successivi a crisi strutturali questa volta il Sud ha reagito meglio: per il 2021 la previsione di crescita del Pil è del 5% rispetto al 6,8 del Centro-Nord. Sicuramente un buon risultato confermato dalle previsioni del 2022 (4% rispetto al 4,2 delle aree centro-settentrionali) che fanno dire all’Ocse che l’Italia è in questo momento la locomotiva dell’Europa; ma se la previsione viene spostata al 2024 (dunque in un quadriennio) si nota già un margine di differenziazione più ampio (12,4% al Sud e 15,6% nel Centro-Nord). Dunque, nei primi due anni post-pandemia l’economia del Sud cresce quasi al livello del Centro-Nord mentre nei periodi successivi sembra confermarsi la tendenza a una notevole divaricazione, foriera di ulteriori squilibri territoriali. Non dimentichiamo che il Pil pro capite al Sud è in media oggi di 19.000 euro mentre nelle regioni più ricche arriva a 35.000 euro.
Come spiegarsi questi dati, cioè un buon “rimbalzo” oggi dell’economia meridionale e una previsione meno positiva nell’immediato futuro? Indubbiamente hanno funzionato i ristori che lo Stato ha messo a disposizione per tutti, consentendo una maggiore sopravvivenza di imprese e un minor acuirsi delle differenze: il mercato lasciato a sé stesso accentua le disparità territoriali e sociali e non le mitiga affatto. In secondo luogo la Svimez con le sue previsioni dimostra che il Pnrr, anche nella sua importante decisione di destinare il 40% ad interventi nel Sud, non basterà a ridurre le distanze tra le due Italie; potrà sicuramente non ampliarle, ma non è detto affatto che le diminuirà. Con ciò non si intende affatto sottovalutare gli obiettivi previsti dal Pnrr, il primo programma di massicci investimenti nei territori meridionali dopo anni e anni di disinteresse. Perché quella stessa (insufficiente) previsione di crescita del 12% nel quadriennio è legata alla realizzazione effettiva dei progetti previsti: se non si realizzeranno pienamente ne riceverà un danno anche l’economia del Centro-Nord che in genere è quella che beneficia di più quando si attiva una domanda maggiore di beni di consumo e di materiali per la costruzione di grandi infrastrutture. Ma per realizzare quegli obiettivi bisognerà dotare le amministrazioni locali di mezzi e uomini oggi assolutamente insufficienti. I comuni meridionali dovranno spendere una cifra enorme nei prossimi 5 anni, in media il doppio di quello che hanno speso negli anni precedenti. Come faranno? Non dimentichiamo che in un ventennio si sono paurosamente depauperati gli uffici pubblici e al tempo stesso sono emigrati un milione di meridionali, di cui il 30% laureati. Mettere in condizione il Sud di far tornare una parte di quelli che sono andati via, sarebbe già un primo grande risultato. Lo si può fare solo se la classe dirigente del Paese tornerà a pensare in grande, come nel secondo Dopoguerra, ponendosi la domanda: cosa potrebbe diventare l’Italia se al posto di una sola locomotiva ne avesse due a sospingere il suo sviluppo?
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 23 dicembre 2021