di Loris Campetti
È strano come luoghi e simboli che riportano la memoria a momenti difficili e sofferenze dell’anima possano improvvisamente diventare i tuoi luoghi, i tuoi simboli. Da Camerino a Matelica, da Visso a Castelraimondo, da Muccia alla Sfercia, da Ussita a Pievebovigliana, alla Valnerina, a Castelluccio, a Serravalle il terremoto ha scosso, con le case, le chiese e i borghi, anche un pezzo fondamentale della mia vita, quello che mi ha trasportato, a fatica, da un’adolescenza troppo lunga alla maturità. Il santuario di Macereto l’avevo incontrato per la prima volta a 11, 12 anni.
Mi ci aveva mandato mia madre in colonia: mio padre era appena morto, un po’ di vacanza mi avrebbe fatto bene all’anima, pensava. Mi fece malissimo, invece: la colonia era organizzata dalla Poa – Pontificia opera assistenza – e gestita dal clero, soggetto da me mai frequentato; e precedentemente, anche in colonia mai visto un prete, finché il mio babbo era vivo ero uso andare al mare a Civitanova con i pullman e le assistenti della Cooperativa proletaria, si chiamava così, se l’era inventata proprio babbo.
A Macereto ero l’unico figlio di comunisti, ero solo tra tonache e piccoli innocenti baciapile; si era sparsa la voce del corpo estraneo catapultato lassù e come tale venivo trattato. Faceva freddo sui Sibillini, tra quei muri freddi sognavo il mare e la fuga. Un giorno ero così disperato che diedi un calcione contro quei muri, così forte che, nonostante gli scarponi sembrassero carrarmati, mi causò la rottura dell’alluce destro.
Forse che il terremoto ha raccolto e tenuto in serbo profane maledizioni, decidendo una mattina di oltre mezzo secolo più tardi di spianare il complesso di Macereto, o quantomeno di lesionarlo gravemente? Ed ecco che quei muri mi sono tornati di fronte agli occhi e miei occhi si sono bagnati. Anche i momenti difficili fanno parte della nostra storia ed è possibile amarli come quelli felici, persino contro la nostra volontà.
C’ero tornato molti anni dopo a Macereto e l’avevo guardato con occhi diversi, ma quei muri continuavano a inquietarmi, nonostante la neve che candida ricopriva l’erba e i tetti. Avevo scoperto che il pecorino dal gusto antico era ancora in vendita nei casali lì accanto ma pascolo, transumanza, mungitura e trasformazione erano ormai possibili solo grazie all’arrivo dalla Romania di altri pastori. A Camerino ho studiato per cinque anni, Camerino mi ha fatto diventare adulto e comunista perché a Macereto erano stati gli altri a decidere cosa io fossi.
Camerino è il ’68, l’università occupata, i volantinaggi davanti alla Lebole a Matelica e l’incontro con i primi delegati operai. Camerino è la sezione del Pci piena di uomini anziani e di fumo a cui noi ragazzi spiegavamo la rivolta studentesca e antiautoritaria: un po’ ci facevamo capire, un po’ no. Sulle frazioni della montagna ci arrampicavamo con macchine arrancanti, a fine vita, per fare la campagna elettorale, con un megafono montato sopra il tetto che latrava “Giornale parlato del Partito comunista italiano”. Arrivavamo nelle piazze di borghi antichi e aprivamo il comizio nel vuoto.
Non c’era nessuno ad ascoltarci, anzi no, c’era tutto il borgo che origliava da dietro le persiane, invisibile ma non del tutto. La sera però era festa: noi studenti che frequentavamo la sezione senza fare troppo gli snob venivamo accolti nel commando d’acqua dolce che da Svolte di Fiungo risaliva il fiume Chienti per pescare i gamberi; i vecchi comunisti mettevano le dita sotto le rocce e le ritiravano con un granchio attaccato a ogni dito e noi studenti dietro con la retina da farfalle per catturare i crostacei in fuga. Era vietatissimo, ma un servizio d’ordine militante sulle due sponde del fiume controllava che nessun occhio vigile potesse pizzicarci. Camerino è anche la fine del Pci che aveva sentenziato: ti sei messo “oggettivamente fuori dal partito”.
A Fiuminata scendevamo a mangiare tagliatelle con funghi e scorzone, a Matelica oltre a volantinare al cambio turno compravamo il Verdicchio, dato che noi di estrazione maceratese abbiamo sempre giurato (e continuiamo a giurare) che è migliore di quello di Jesi, caro agli anconetani. Il ciauscolo andavamo a prenderlo a Visso, qui lo chiamano villanello, mentre per le patate, le lenticchie, la cicerchia salivamo a Colfiorito, talvolta a Castelluccio. La Sfercia era il luogo dell’amore, dietro la torre semidiroccata. La Muccia era il mistrà Varnelli e per i meno robusti l’amaro Sibilla. La Vernaccia era a Serrapetrona sopra il lago di Caccamo, dove già da bambino andavo per indimenticabili scampagnate con mio padre e i partigiani maceratesi, il 1° Maggio.
L’incantesimo con quest’isola d’Italia che non c’è più si ruppe un giorno di novembre del ’72, una settimana dopo la laurea in chimica: in un casolare a Svolte di Fiungo, sotto la torre della Sfercia, venne “scoperto” un deposito d’armi dagli stessi uomini del Sid che ce l’avevano fatto mettere – insieme a carte d’identità rubate, esplosivi, proclami “rivoluzionari”, minacce di morte e l’organigramma della presunta cellula delle Brigate Rosse in cui avrei dovuto svolgere un ruolo centrale – a certi fascisti di Ordine nuovo.
Era una montatura, una coda marchigiana di Piazza Fontana, la Strage di Stato; ci vollero anni prima che quel che noi “estremisti” della Nuova sinistra avevamo denunciato fin dal primo giorno venisse appurato da tutti, magistratura compresa. Per questo fuggii da Camerino, Sfercia, Visso, Ussita, Serravalle, Colfiorito, Matelica, prima da latitante, poi da uomo libero e in uno dei tanti giuramenti falsi che si fanno nella vita mi dissi che non ci sarei più tornato. Tornai, diffidente, in punta di piedi, con la puzza sotto il naso e poi sempre più spesso. Forse ho elaborato il lutto, forse solo una parte. E pensare che ora devo elaborarne un altro, non meno doloroso del primo.
Il terremoto ha provato a cancellare tutto ma forse c’è riuscito solo in parte. Odio il terremoto e la stupida avidità dell’uomo che gli dà una mano a distruggere. Eppure alla natura matrigna che a Recanati è arrivata a violare l’Ermo colle e al museo di Visso le sudate carte, e ai tanti, troppi terremoti che l’hanno preceduto in queste terre ruvide e orgogliose, devo anche un ringraziamento. Grazie per avermi fatto capire quanto facciano parte di me quegli uomini antichi, determinati, con le unghie sporche di terra e un accento né musicale né snob, e quelle donne più concrete che raffinate, donne indipendenti, e i monti aspri, e i borghi selvaggi. Tornerò a percorrere il solco squarciato dal sisma, forse, per guardare cosa resta di quegli uomini, quelle donne, quei borghi. Per specchiarmi in una pozzanghera e cercare cosa resta di me.