L’irrisolta crisi politica francese, i cui effetti si combinano con gli eccezionali poteri conferiti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica, produce une situazione paradossale e di non semplice comprensione.
Per decifrarla, bisogna partire dalla sera del 9 giugno dello scorso anno, quando, subito dopo l’annuncio dei risultati delle elezioni europee, Macron decise, sorprendendo anche i suoi deputati, d’indire delle elezioni legislative anticipate. Per i suoi fu una sorpresa perché le europee si erano tradotte in un crollo verticale della lista di sostegno al Presidente (14,6%) e nel forte successo del partito di Marine Le Pen (31,4%). Cosa potesse avere in testa Macron, all’epoca si poteva solo ipotizzare: aprire le porte del governo all’estrema destra, probabilmente con il progetto di spendere gli ultimi due anni del suo mandato nel ruolo del Presidente super partes che limita gli eccessi del Rassemblement national e gioca il ruolo di difensore della democrazia. Questa ipotesi è oggi totalmente confermata dalle testimonianze di candidati macronisti, eliminati al primo turno delle legislative, che hanno ricevuto indicazioni dirette dal palazzo presidenziale per favorire, al secondo turno, il candidato di Le Pen contro quello della sinistra.
Tuttavia, le cose sono andate diversamente da quel che immaginava Macron. Il Nuovo fronte popolare, che riuniva l’insieme dei partiti di sinistra, pur non ottenendo la maggioranza assoluta, è arrivato in testa (178 deputati), ben avanti il Rassemblement national, che pure è passato da 89 a 125 deputati.
Di fronte al fallimento del suo piano, che ha fatto Macron? Semplice: ha deciso di ignorare il risultato elettorale, conferendo per tre volte l’incarico di Primo ministro a un esponente del suo campo: prima Barnier, poi Bayrou e infine Lecornu. La Costituzione della quinta Repubblica permette al Presidente questo ed altro, ma va detto che nessuno di questi governi avrebbe retto più di qualche giorno senza il sostegno più o meno esplicito del partito di Le Pen da un lato, del partito socialista dall’altro. Ed è questo doppio sostegno che si tratta oggi di spiegare.
Cominciamo dal Rassemblement national, la formazione di estrema destra, che da tempo ha scelto la strategia della “normalizzazione”. La quale implica da un lato di cancellare dal programma tutti gli elementi in qualche modo di rottura con la traiettoria neoliberista seguita dai governi degli ultimi anni: ad esempio, non è più in nessun modo questione di rottura con l’Unione europea o di uscita dall’euro, ma neppure di aumento del salario minimo. D’altro lato, Le Pen e il suo successore designato, Bardella, vogliono mostrare un viso rassicurante, che si preoccupa della “stabilità” del paese. Va detto che in contropartita dell’appoggio ai governi del Presidente, il Rassemblement national ha ottenuto concessioni per lui importanti: la più recente, la fine dell’accordo che legava la Francia all’Algeria dal 1968, una richiesta storica dell’estrema destra francese, approvata questa settimana grazie al voto dei deputati macronisti.
Per quel che riguarda il Partito socialista, va ricordato che è stato, nell’ultimo mezzo secolo, un grande partito di governo, protagonista attivo a partire dal 1983 delle riforme di struttura che puntavano ad avvicinare il capitalismo francese al modello neoliberista: privatizzazioni, apertura alla concorrenza dei servizi pubblici, precarizzazione dei rapporti di lavoro eccetera. Questa strategia ha condotto all’erosione progressiva della sua base elettorale, che ha finito con lo sparire del tutto. Nel 2017, il presidente Hollande è stato obbligato a non ripresentarsi da un livello record di impopolarità; il candidato comune di socialisti ed ecologisti, Benoit Hamon, ha ottenuto il 6%; e nel 2022, la candidata del partito socialista, Anne Hidalgo, si è praticamente schiantata al suolo con il suo 1,6%. Per far fronte al disastro, il partito ha accettato di partecipare a una coalizione, che alle legislative 2022 portava il nome di Nupes e a quelle del 2024 di Nuovo fronte popolare, con comunisti, ecologisti e con la France insoumise, il movimento di Mélenchon, coalizione costruita attorno a un programma di rottura netta con la logica delle riforme neoliberiste. Il dubbio era permesso: presa di coscienza dettata dalle catastrofi elettorali e vero cambio di linea, o manovra opportunista per salvare un partito sull’orlo della scomparsa? Il seguito degli avvenimenti ha fornito la risposta. Dopo aver permesso a Bayrou di governare, rifiutando per ben sei volte di votare delle mozioni di sfiducia, dopo aver quindi convalidato il rifiuto di Macron di riconoscere il risultato elettorale dello scorso anno, il Partito socialista ha messo fine al Nuovo fronte popolare, dichiarando chiusa ogni prospettiva di alleanza con la France insoumise, ha poi deciso di non sfiduciare il nuovo governo condotto dal macronista Lecornu ed ha anzi iniziato a negoziare con lui più o meno clandestinamente, a colpi di pranzi al ristorante sistematicamente rivelati dai giornalisti. Ma la debolezza intrinseca del partito si è tradotta in un rapporto di forza assai sfavorevole in questo negoziato, dal quale sin qui i socialisti hanno ottenuto poco o nulla. Unica misura concreta, un lieve spostamento nell’applicazione della contestatissima riforma delle pensioni, per la quale ci sarebbe in parlamento una maggioranza favorevole all’abrogazione, che permetterà alle generazioni nate tra il 1964 e il 1968 di guadagnare tre mesi, e lascerà per tutti gli altri la situazione invariata. Ma dopo aver rotto l’alleanza a sinistra, i socialisti sono obbligati a far buon viso a cattivo gioco: un ritorno alle urne in queste condizioni costerebbe probabilmente parecchio.
La Francia si ritrova dunque ancora con un governo fortemente minoritario, deciso a continuare sulla strada di riforme che incontrano un’opposizione sociale ed anche elettorale largamente maggioritaria. Una situazione al limite dell’assurdo, ma che continuerà finché terranno le due stampelle sulle quali regge ancora il macronismo: partito socialista a sinistra, Rassemblement national a destra (estrema). Due formazioni che, in modo diverso, sperano di approfittare del crollo del macronismo per recuperare una parte dei suoi elettori. Per qualificarsi come eredi legittimi del macronismo, entrambi sono portati ad un’opposizione solo di facciata.
La Francia arriverà in questo modo fino alla scadenza del mandato di Macron e l’elezione presidenziale del 2027? È possibile ma per nulla sicuro. Perché, oltre a recuperare un pezzo dell’elettorato macronista, socialisti e lepenisti devono persare a non perdere il loro. E anche tra i loro elettori, il malcontento per una strategia che porta a convalidare politiche del tutto impopolari sta crescendo con forza.