I giovani, la generazione Zeta e una fetta del Millennials, si sono mobilitati in massa contro l’orrore del genocidio di Gaza e non basta certo il cessate il fuoco ordinato dall’imperatore Trump dopo settantamila palestinesi ammazzati da bombe droni fame e sete perché smettano di mobilitarsi, nelle scuole, nelle città. Non li organizza nessuno, non i partiti, non i sindacati. Ovunque la comunicazione può connetterli e i messaggi e le chiamate online si trasformano, di giorno e di notte, come d’incanto, in massa critica reale, fatta di ragazze e ragazzi pronti a scendere in strada, a occupare università, porti, autostrade, stazioni.
Combattono l’ingiustizia ovunque si manifesti, fanno propri i tabù fissati dalla Costituzione come quello della guerra che in troppi, nelle istituzioni (e non solo) del Belpaese, hanno infranto. Eppure, nel pieno del loro agire politico, restano lontani dalla politica istituzionale, dai partiti incapaci di prefigurare un’alternativa credibile allo stato di cose presente, al dominio del mercato, del turbocapitalismo che sacrifica sogni e diritti. Sono lontani dai rituali della democrazia svuotati di significato, appeal e dunque partecipazione. Si mobilitano da soli contro mille ingiustizie ma devono imparare a mettere in rete le mille battaglie (per i diritti, la democrazia, l’ambiente, il lavoro dignitoso, la casa, per l’umanità) per dar loro uno sbocco unitario, contro il rischio di un rifluire verso un andamento carsico. Amano il mondo più che l’Italia che vivono come matrigna da cui in tanti fuggono appena raggiunta l’autonomia.
Dunque, piazze piene e urne vuote. Si può capire, se solo si tenta di farlo, se si prova a mettere da parte presunzione e arroganza, orecchio a terra ad ascoltare le voci, guardare le forme dell’agire collettivo, intercettare le domande, le richieste, le contraddizioni che partono dalle piazze piene. Se poi succede che nel pieno delle lotte le urne restano vuote, partiti e media, e persino chi tenta di capitalizzare quelle lotte autonome, restano senza parole. Allora cosa fanno? Logica vorrebbe che cominciassero a interrogarsi per cercare le ragioni di quel mancato feeling ammettendo: non li abbiamo visti arrivare e ora li vediamo andar via (dalle urne). E invece no, hanno talmente perso l’abitudine a costruire una democrazia partecipata che semplicemente prendono atto che quella roba lì è finita con il Novecento e se ne fanno una ragione. Fino alle regionali toscane, dopo ogni elezione si passava qualche giorno a interrogarsi sulle ragioni dell’astensionismo. Questa volta la fatica di interrogarsi è durata appena qualche ora, l’unico dato importante era la vittoria del candidato di centrosinistra su quello di centrodestra (capirai che notizia, in Toscana). Applausi e baci di Elly Schlein al vincitore Eugenio Giani, mugugni di Antonio Conte che continua a perdere pezzi elezione dopo elezione, orgasmo di Matteo Renzi che a Firenze gioca in casa e ha fatto il pieno (si fa per dire) di voti mentre i perdenti – fasci, generali paracadutisti, postberlusconiani – si consolano dicendo quel che avevano negato fino al giorno prima: la Toscana non è mai stata alla nostra portata.
Per essere concreti facciamo un esempio che spiega a che punto siamo: in quella che fu la patria della partecipazione ha votato il 47% dei toscani, il 53% ha disertato le urne. Giani, presidente uscente in quota Pd ha preso 752 mila voti raggiungendo il 54%, addirittura il 5% in più che nel 2020 ma, ciononostante, 12 mila voti in meno di quando è stato eletto la prima volta. Oltre a Renzi festeggia anche l’Alleanza Verdi Sinistra per il suo ragguardevole 7%. Mastica amaro la Lega a trazione Vannacci sprofondata dal 21% al 4,4%, tosata dal partito della Meloni nella sfida su chi è più fascista. Ma nessuno, vincenti e perdenti, sembra più di tanto turbato dal fatto che l’astensione in cinque anni è cresciuta di 15 (quindici) punti.
Nell’agire politico partitico e mediatico, dicevamo, la partecipazione al massimo è un optional. Quel che conta è la governabilità e per renderla possibile si riscrivono regole e leggi elettorali per far sì che il vincente possa prendere quasi tutto, riducendo il confronto a due schieramenti e diserbando il resto. Le alleanze in due blocchi contrapposti diventano praticamente obbligatorie e i partiti che ne fanno parte devono superare la soglia del 3% per elegge propri rappresentanti in consiglio regionale. Chi si presenta da solo, fuori dalla guerra santa tra due blocchi viene punito: prima deve raccogliere migliaia di firme per depositare la lista, poi deve raggiungere non il 3% ma il 5% per eleggere rappresentanti. È la governabilità toscana, voluta da chi da sempre governa la regione, cioè dal Pd, per fare terra bruciata alla sua sinistra e poter chiedere a ogni elezione il “voto utile”, anche turandosi il naso. Non basta. Alle regionali toscane non c’erano due ma tre candidati. Il terzo oltre a essere una terza ha anche la pelle scura, cosa che infastidisce Vannacci, perché uno dei suoi genitori viene dalla Sierra Leone. Antonella Bundu è stata candidata da una lista unica, Toscana rossa, sostenuta da Rifondazione comunista, Potere al popolo e Possibile. Ha raggiunto un rispettabile 5,2% dei consensi ma non è bastato perché la sua lista si è fermata al 4,5%. Cioè chi l’ha votata ha messo il simbolo sul suo nome e non anche sulla lista. Ridicolo, essendo la sola lista. Morale: Lega e M5S che hanno preso meno voti di Toscana rossa avranno i loro rappresentanti in consiglio, Antonella Bundu no. Si attende l’esito del sacrosanto ricorso.
Se la governabilità conta più della partecipazione, è normale che l’interesse per la politica attiva e anche passiva venga meno. Se in Toscana non verrà sanata un’ingiustizia riconoscendo come utile il risultato di Antonella Bundu, alle prossime elezioni i votanti saranno ancora meno e molti di quelli che hanno votato Toscana rossa si aggiungeranno ai ragazzi ProPal che si rifiutano di turarsi il naso. Tanto, pensano, non serve a niente.