Spionaggio, infiltrazioni, criminalizzazione del dissenso: la destra ha un problema con la società civile e i suoi movimenti. Ne parliamo con Giuliano Granato di Potere al popolo
Cinque agenti di polizia infiltrati nell’organizzazione giovanile che fa riferimento a Potere al popolo, spiegazioni pasticciate da parte del governo in risposta a interrogazioni parlamentari, una vicenda che getta un’ombra sul rapporto tra governo e società civile e che evoca un clima di repressione generalizzata che pesa sui movimenti sociali. Parliamo di quel che è accaduto con Giuliano Granato, che di Potere al Popolo (PaP) è il portavoce.
Cosa è successo esattamente? Rispondendo in aula il sottosegretario all’interno Emanuele Prisco ha detto che non c’è stata «nessuna operazione sotto copertura, nessuna infiltrazione in partiti e movimenti politici, ma soltanto l’adempimento dei propri compiti istituzionali nel pieno rispetto della legge».
Partiamo dalla fine di questa vicenda e vedremo che le cose appariranno, per quanto possibile, molto più chiare. A fine giugno, quando viene pubblicata l’inchiesta definitiva di Fanpage scopriamo che cinque poliziotti sono infiltrati in un partito politico. Il fatto è gravissimo e smentisce le prime ricostruzioni molto qualificate che avevano cercato di sminuire la vicenda derubricandola in modo semplicistico. Prima si era parlato di una «libera iniziativa» e poi, addirittura, di una conseguenza di un episodio di «innamoramento» che aveva portato un agente a frequentare le nostre sedi.
Invece i documenti dimostrano che l’operazione di infiltrazione è stata pianificata dall’alto, direttamente dagli uffici centrali. Ma soprattutto che i cinque agenti non sono stati infiltrati semplicemente in alcuni movimenti giovanili e studenteschi ma in quei collettivi legati organicamente a un partito politico, Potere al popolo. Il sottosegretario Prisco ha affermato che gli agenti partecipavano solo a iniziative studentesche o pubbliche ma si tratta di un falso: abbiamo visto quei poliziotti sia all’assemblea nazionale di PaP e poi presenti in chat e in mailing list private. La ricostruzione di Prisco fa acqua da tutte le parti, l’unica cosa esatta che ha raccontato è l’ammissione dell’infiltrazione. Voglio anche aggiungere che a diverse settimane dalle denunce noi stiamo aspettando ancora una presa di posizione dei Rettori delle università coinvolte: possibile che accettino una cosa simile nei loro atenei?
Come ve ne siete accorti?
Tutto è scaturito dal primo infiltrato, quello di Napoli, a Roma infatti il progetto è fallito perché la persona era sembrata un po’ «eccessiva», troppo attiva e troppo visibile. A Napoli invece l’agente infiltrato è stato individuato perché non faceva la minima vita sociale. Era presente a tutte le iniziative, un militante super assiduo, come è raro trovare in questi tempi, presente a tutte le iniziative in tutti i giorni della settimana, dal lunedì al venerdì. Ma nei momenti di vita sociale del fine settimana non c’era mai. In occasione del Primo maggio, poi, è stato individuato insieme a persone in giacca e cravatta dopo la manifestazione mattutina. A quel punto lo abbiamo incontrato per chiedergli di allontanarsi. Ha fatto finta di niente, chiedendoci il perché di quella richiesta. Ha poi telefonato a un attivista per chiedere spiegazioni: a quel punto siamo stati noi a chiedergli spiegazioni su una sua foto in divisa mentre prestava giuramento… Insomma, ci sono stati dei segnali che ci hanno allertato, abbiamo svolto un lavoro di verifica, confermando che in effetti si trattava di agenti sotto copertura, a differenza di certe ricostruzioni apparse su molta stampa. È vero, si sono presentati pubblicamente con nome e cognome, ma su tutti i social non è stata mai dichiarata la loro reale professione. Forse hanno imparato dall’esperienza spagnola, dove nelle diverse infiltrazioni la prassi è stata quella di presentare i poliziotti con i loro veri nomi modificando alcune lettere dei cognomi e creando ex novo i profili social.
Al di là del clima di repressione generale, esplicitato da misure come il Decreto Sicurezza, vi siete dati una spiegazione più puntuale di questa iniziativa della polizia?
La verità la può sapere solo chi ha ordinato queste infiltrazioni. La nostra ipotesi è che l’obiettivo vero dell’iniziativa è l’organizzazione. Siamo in un paese in cui è formalmente permesso tutto, anche l’indignazione spontanea che tra tante difficoltà viene comunque tollerata. Ma il problema è dato dalla costruzione organizzativa. PaP, pur con i suoi limiti, ha organizzazioni giovanili con una loro forza, che sono cresciute e che tiene dentro sia il terreno politico-elettorale che quello sociale. Dal mutualismo conflittuale alla presenza nelle piazze cerchiamo di tenere insieme questi due aspetti. Non si tratta di una grande organizzazione, lo sappiamo. Ma quell’infiltrazione, più che il prodotto di un’operazione da «agenti provocatori», aveva un’ambizione da medio lungo periodo. E si lega a cambiamenti normativi prodotti dal governo.
L’operazione va dunque inquadrata nel clima più generale di repressione?
Va detto innanzitutto che assistiamo a trasformazioni che vengono da decenni e penso che dovremmo chiederci meglio cosa sia lo Stato autoritario moderno. Pensiamo anche alle altre operazioni come lo spyware israeliano contro attivisti e giornalisti. E riflettiamo sul fatto che lo spionaggio contro Mediterranea è cominciato con il governo Conte. Quindi non è solo l’ultradestra che porta al governo una torsione autoritaria. C’è una dinamica di fondo che va in quella direzione come dimostrano le riforme istituzionali che tutti gli schieramenti provano costantemente a realizzare. Poi, certo, c’è il salto quantitativo e qualitativo di questo governo come dimostra lo spionaggio contro Fanpage, l’infiltrazione in un partito politico, la criminalizzazione mediatica del dissenso e soluzioni normative come il Dl Sicurezza. Se aggiungiamo anche l’attacco sistematico al diritto di sciopero abbiamo l’idea di quanto questo governo abbia una concezione autoritaria, al limite del ripristino dell’assolutismo che vuole il sovrano sciolto dal controllo dei cittadini.
Eppure non c’è una situazione di conflittualità particolarmente dirompente: perché tanta paura in un momento di lotte molto parcellizzate e senza reali movimenti di massa?
Il problema è che il conflitto è insopprimibile e non è detto che dalle varie forme spurie non emergano modalità che mettano in discussione gli assetti esistenti. C’è un diffuso timore del domani, di quello che potrebbe avvenire e quindi si reprimono anche le battaglie che possono sembrare piccole. Pensiamo al tentativo della Commissione di garanzia sugli scioperi di bloccare la protesta contro l’invio di armi avvenuta a Brescia, il fastidio con cui vengono affrontate le mobilitazioni dei portuali: segnali preoccupanti che dimostrano un regime di guerra anche se non ci troviamo dentro una guerra «guerreggiata». E chi si oppone va neutralizzato.
Questa situazione comporta un giudizio molto negativo sul governo e sulla natura delle destre. Non si pone per voi un problema di unità d’azione, ampia, ramificata?
Il nostro obiettivo strategico è costruire un campo popolare autonomo dal bipolarismo perché traiamo l’esperienza concreta dai governi anche di Centrosinistra, pensiamo al Jobs Act… E pensiamo anche ai problemi di fondo che ha il Centrosinistra sul riarmo. Se guardiamo le dichiarazioni dei vari esponenti politici che pure scendono in piazza in varie manifestazioni, vediamo la strategia di rifiutare il riarmo di von der Leyen perché si svolgerebbe solo su base nazionale con la proposta di spingere sul riarmo in chiave europea.
A proposito di manifestazioni, il 21 giugno c’è stato un corteo promosso da tante forze sociali e associative che è stato abbastanza netto sul riarmo, eppure avete promosso una vostra piazza alternativa: anche lì la divergenza era insanabile?
Noi ci saremmo stati a fare un’unica manifestazione purché ci fossero parole d’ordine che nominassero i nemici della pace. Non nominare l’Alleanza atlantica significa spingere sul riarmo. Noi facciamo parte della rete Disarmiamoli e quella deve essere la prospettiva.
Il vostro progetto quindi è oggi quello di una costruzione autonoma e autocentrata?
Noi lavoriamo per un’alternativa al bipolarismo e sia sulle elezioni del 2027 che alle Regionali ci presenteremo alternativi sia alle destre che al Centrosinistra. Disposti a farlo anche con altri partiti che accettino di rompere con il Centrosinistra.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin l’11 luglio 2025