Dalle Tute bianche a Mediterranea, le due vite di Luca Casarini

di Loris Campetti /
14 Giugno 2025 /

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Quando ho provato a cercarlo al solito numero telefonico una voce metallica continuava a ripetere: “Il numero non è momentaneamente raggiungibile. Riprovare più tardi”. “Adesso quel numero lì ce l’hanno i servizi – dice ridendo quando riesco a raggiungerlo per altre vie -. Non mi ha sorpreso scoprire di essere attenzionato, lo sono da una vita. La cosa sorprendente è che stavolta li abbiamo scoperti. Il governo compra il servizio di intercettazione, cioè il controllo della vita delle persone da un’agenzia privata (israeliana, Paragon n.d.r.) che opera sul mercato ma sul mercato c’è anche Facebook, cosicché Zuckerberg si infastidisce per l’intromissione e me lo dice. Una conseguenza insopportabile è che le comunicazioni circolano ed essendo io ‘attenzionato’ vengo interdetto da tutte le banche e non posso aprire un conto. Per fortuna c’è Banca etica”. Luca Casarini racconta le sue due vite, quella da militante radicale di sinistra e quella segnata dalla spiritualità, successiva all’incontro con papa Francesco, nel salvataggio in mare dei migranti. Sempre in continuità con i suoi valori.

Lo sentiamo subito dopo che dal camino di San Pietro è uscita la fumata bianca. Luca non è pessimista, perché “quel che ha fatto Francesco continuerà a germinare”. Un’opinione su papa Leone? “Non sono un teologo né un vaticanista ma solo un povero cristiano, come diceva Ignazio Silone. L’ho conosciuto al Sinodo, ci ho scambiato qualche parola a commento di un mio intervento in Congregazione generale in cui raccontai un aneddoto: non riuscivamo a trovare una barca segnalata alla deriva; ci vorrebbe un miracolo, ripeteva il nostro cappellano don Mattia. A quel punto due delfini si mettono a giocare a prua della Mare Jonio, sembra quasi che ci sorridano, ci guidano e d’improvviso si materializza un puntino, è la barca che cerchiamo. Così abbiamo trovato i fratelli e le sorelle che chiedevano aiuto. Il comandante si è girato verso don Mattia e gli ha detto: ‘Vedi, non sempre lo Spirito Santo ha le sembianze di colomba’. Con quel ricordo volevo indicare la necessità che la Chiesa si apra a un’idea di missione come terreno dell’imprevisto, del miracolo. Che non accade se tu non gli vai incontro, in mare aperto. Alla fine della sessione un cardinale dai modi gentili e con il sorriso mi aveva avvicinato per dirmi: ‘Un bellissimo intervento’. Era il futuro Leone XIV. Di migranti da salvare ce n’erano con Francesco e ce ne sono con Leone. I miracoli dipendono da noi, da quel che facciamo”.

Parlaci del lavoro nel Mediterraneo che stai svolgendo con tanta passione.

E’ un lavoro graticante, sono contento di quel che faccio con una rete bellissima di soccorso in mare. Sono reduce da dieci missioni di fila, ora è importante lasciare spazio ai più giovani anche perché è un lavoro duro e va socializzato, soprattutto se non sei più un ragazzino. Ora lavoro soprattutto da terra, tasto il mare, raccolgo i messaggi dei migranti e dei nostri in missione. Siamo l’unica nave che opera nel Mediterraneo con a bordo un cappellano, durante la navigazione e i soccorsi si dice anche messa perché sai, quando cerchi di salvare vite umane non serve solo l’organizzazione, pur importantissima, ci vuole spiritualità, te la senti crescere dentro e ti aiuta in quei momenti in cui sei con chi lotta tra la vita e la morte. E’ una sciocchezza pensare che la spiritualità sia solo roba da credenti, come se gli atei se ne fossero esentati.

C’è una continuità o una rottura tra la tua vita da attivista radicale dei movimenti e quella segnata dalla spiritualità dopo l’incontro con papa Francesco e la conversione?

Cosa cambia se le persone con cui condividi l’impegno si chiamano compagni oppure fratelli? Per me la conversione è un ritorno a casa in una famiglia operaia di periferia, mi aveva cresciuto un prete operaio con cui ho imparato a ragionare sulla ricchezza di pochi e la povertà di tanti. Con la Chiesa cattolica ho rotto quando quel prete operaio è stato mandato via dalle gerarchie. Così incontro i movimenti, anche lì si parlava di ricchezza e povertà, di diritti, di giustizia sociale, e incrocio l’Autonomia. I miei maestri mi contestavano l’eccessiva frequentazione di preti. Anche per preparare il contro-G8 di Genova nel 2001 mi sono confrontato con don Gallo e la comunità di San Benedetto al porto e con le suore di clausura di Avellino. Mentre insieme ad altri compagni portavo sulle spalle la bara di don Gallo piangevo, e i compagni, stupiti: “Che fai, piangi per un prete?”. Mi interrogo, mi chiedo dove e come ho sbagliato, ma di una cosa sono certo: mi sono battuto sempre per le stesse cose. Mi ripeteva Francesco: “Una società senza conflitto è morta”, piuttosto oggi mi chiedo quale conflitto, e come agirlo. La mia chiamiamola conversione trova il suo humus nella fine del rapporto con le organizzazioni non solo politiche perché la mia continua ricerca, il mio interrogarmi camminando era bloccato dall’approccio identitario. L’obiettivo, e Francesco ce l’ha insegnato, non è custodire le ceneri ma alimentare il fuoco. Per continuare a cercare un altro mondo possibile dovevo ricominciare da capo, ho praticato una rottura, mi sono anche trasferito dal Nordest a Palermo. Senza pentimenti, la continuità tra le mie due vite sta nei contenuti e nelle battaglie che con altri, fratelli e compagni, cerco di portare avanti.

Anche al prezzo di denunce e condanne?

Sono orgoglioso di essere pregiudicato, di essere finito sotto accusa per aver salvato migranti, o per aver lottato per il diritto alla casa, o per aver bloccato un treno pieno di armi destinate alla guerra in Iraq, o per essere stato espulso da Israele per aver difeso un ospedale palestinese. Purtroppo, non sono potuto andare con Zuppi (il vescovo presidente della Cei, ndr) in una missione a Ramallah perché laggiù sono segnato. Cosa dicevamo al G8 di Genova, contro cosa e per che cosa ci si batteva? Mettevamo in campo la nostra solidarietà verso la parte povera del mondo a cui dovevamo restituire qualcosa del nostro benessere. Lo spirito delle mie battaglie l’ho ritrovato nel Vangelo. Andare in mare mi ha toccato il cuore, lì tra le onde, senti che stai battendoti contro i confini e contro leggi oscene. Senti che tirando su con le tue reti fratelli e sorelle che stanno affogando, stai sconfiggendo la morte. E’ lo stesso impegno che aveva profuso Gino Strada salvando la vita delle vittime della stramaledetta guerra, o che porta avanti Carlin Petrini in difesa della terra e di chi la lavora. E’ quel che ho detto ai giornalisti in un incontro al Sinodo, dove Francesco mi aveva scandalosamente invitato e mi era stato chiesto di gestire la conferenza stampa. I giornalisti mi chiedevano cosa ci facesse lì un attivista come me, con una storia così segnata da battaglie radicali, se mi fossi pentito. Ho risposto parlando del Vangelo, di Gesù con gli ultimi, con i peccatori. Ho risposto: ‘Questa è la Chiesa che ho incontrato io, che Chiesa avete in mente voi?’. In realtà mi sentivo inadeguato e avevo paura con quelle parole di aver fatto un casino, temevo il giudizio dei responsabili della comunicazione vaticana che invece, al termine, mi hanno fatto i complimenti”.

Di cosa parlavate con il papa nei vostri incontri? Per esempio, come reagì quando partirono le polemiche sui giornali per la notizia che il Vaticano sosteneva la vostra Mediterranea?

Mi disse testualmente: “Di che ti preoccupi? E’ naturale che quando facciamo il bene facciamo arrabbiare Satana”. Francesco è stato un papa scandaloso, per quel che diceva, per quel che faceva e per come viveva. Hanno fatto scandalo le sue parole sulla Nato che va ad abbaiare sotto casa dei russi, o quando ha parlato di alzare bandiera bianca, che non è una resa, non nega il diritto di resistenza. Bandiera bianca se l’alternativa è la continuazione del massacro di un popolo, chi ha responsabilità deve trovare la maniera di salvarlo. E io subito penso al Vietnam ma anche alla diserzione. Non è l’appello alla resa ma l’appello appassionato contro la guerra. Porgi l’altra guancia non vuol dire rinuncia a difenderti, penso voglia dire usare la forza del tuo nemico, le arti marziali si distinguono per la forza che ha il nemico: se chi ti combatte è dieci volte più forte e tu ti presenti intero, sei finito. Mostra la metà di te. Penso alla prima Intifada, penso agli zapatisti che si coprono il volto per non essere visti. E noi a Genova usavamo gli scudi per difenderci tanto che per sconfiggerci sono stati costretti a farci la guerra. Di tutto questo parlavo con Francesco, gli dicevo di Marcos e lui mi ripeteva ogni volta “occupiamoci della parte debole e facciamo arrabbiare Satana, te lo dico da pastore“. Con Francesco ci siamo incontrati nel fare. L’ultima volta che l’ho visto, a novembre prima del suo ricovero al Gemelli, mi ha chiesto notizie della Mare Jonio, mi ha detto di continuare quel lavoro di salvataggio e io gli ho risposto: e se mi mettono in galera? “Ti vengo a trovare”. Mi ha salutato con le sue parole di sempre: “Prega per me”.

Avete parlato anche di lavoro? 

Certo, mi aveva colpito la sua riflessione su “Fratelli tutti” e su molte encicliche. “Il lavoro precario uccide”, ripeteva e “se il lavoro ti sottrae tempo alla vita si chiama sfruttamento”. La sua attenzione al lavoro veniva da lontano, dai rapporti con gli sfruttati a Buenos Aires. Lo dimostra l’invito alla Sala Voltri di Landini con cinquemila delegati e dirigenti della Cgil. A un certo punto mi ha chiesto di essere il suo referente dentro i “Movimenti popolari delle tre T”, Tierra, Techo, Trabajo (terra, casa, lavoro) concentrati sulla difesa dei diritti dei contadini senza terra, dei senzatetto, dei lavoratori a giornata. Mi sono trovato in mezzo a una Porto Alegre moltiplicata per dieci. 

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