…L’unanimismo dei miei amici, tutti di sinistra, sul fatto che non verrà raggiunto il quorum mi inquieta: potrei considerarlo un pessimismo scaramantico ma temo sia piuttosto una resa incondizionata all’esistente o forse un tentativo di prevenire gli effetti avvilenti dell’ennesima batosta.
Certo, i quesiti referendari hanno una portata limitata; il referendum sulla cittadinanza, per esempio, propone un dimezzamento dei tempi geologici richiesti per ottenere la cittadinanza italiana da parte di persone straniere. Alla fine, è un’attenuazione dettata dal buon senso di una norma esageratamente restrittiva. I quattro referendum sul lavoro avranno anch’essi un effetto modesto (sempre sperando che si raggiunga il quorum e vinca il “sì”), su quel castello di provvedimenti legislativi che, almeno dal 1992, hanno spinto verso la moderazione salariale, l’abolizione della scala mobile e la precarietà lavorativa. Il mostruoso “castello” normativo, inquietante come quello che l’agrimensore K. vorrebbe raggiungere, spettrale come quello transilvano del conte Dracula, ha consentito, negli ultimi decenni, la trasformazione del lavoro dipendente in lavoro servile. Il lavoro ha perso valore e si è trasformato in pura merce, in una sorta di malefico “altro da sé”, che non garantisce alle persone che lo fanno nemmeno la sicurezza e la continuità di un salario misero. In ogni caso, se, tra pochi giorni, scaglieremo una pietra che romperà il vetro di una finestra del sinistro edificio dello sfruttamento e della precarietà faremo un’opera necessaria, anche se non sufficiente.
Ma il motivo più importante per andare a votare per i referendum credo sia un altro: bisogna dimostrare a coloro che in questo momento comandano (comandano, non “governano”) che essi sono espressione non del popolo ma di una minoranza della popolazione: sono lì perché, come dice un mio amico, hanno trovato un posto al botteghino, perché il disgusto verso una sinistra confusa e troppo simile al centro-destra ha tenuto lontano dalle urne molti che non si vedono più rappresentati da politici incoerenti, incompetenti e privi di qualsiasi ideale. Non dimentichiamo che per Meloni e il suo partito ha votato il 26% del 63,7% degli aventi diritto. Complice una legge elettorale da dementi, un’oggettiva minoranza spadroneggia dal 22 ottobre 2022.
Sarebbe lungo l’elenco delle enormi ferite inflitte alla vita democratica da un centro-destra impresentabile, arrogante, ignorante, che sopravvive soltanto perché l’opposizione è inconsistente. Bene, i referendum danno al popolo una possibilità di far sentire la propria voce: non sprechiamola. Ci deve guidare la consapevolezza che questo può essere il primo passo di una possibile risalita. Tanti anni fa, nel 1984, aveva simbolicamente inizio il piano inclinato di cui ancora non vediamo la fine: con il “decreto di San Valentino”, il Governo guidato da Bettino Craxi concludeva un accordo separato con Cisl e Uil per giungere al taglio di quattro scatti di adeguamento salariale (i cosiddetti “punti di contingenza”). Nel 1985, il 9 e 10 giugno, si andava al voto per abrogare il taglio dei quattro punti di contingenza voluto dal decreto di San Valentino. Il quorum si raggiunse ma vinse il “no”: fu una durissima sconfitta per la sinistra CGIL e per il PCI, che avevano sostenuto il referendum, e fu l’inizio di quella politica salariale che toglie ai poveri per dare ai ricchi, il primo passo di quella che sarà la “concertazione” tra Governo, sindacati e Confindustria, vero coronamento della redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto.
Oggi tutti parlano di lavoro povero, persino coloro che hanno attivamente contribuito a far sì che, nel nostro Paese, i redditi da lavoro dipendente siano assai bassi. L’ultima persona che ho avuto la ventura di sentir blaterare sulle basse retribuzioni è Tito Boeri, ospite di una trasmissione televisiva. Riporto alcuni passaggi del suo discorso: in primo luogo i quesiti referendari sono mal posti poiché non affrontano il problema reale, che è quello delle basse retribuzioni. Non commento, visto che il ragionamento è palesemente incongruente. Inoltre, secondo Boeri, in Italia, dato il calo demografico, non c’è più un problema di disoccupazione. Qui ci chiediamo quali siano le fonti del professor Boeri; l’Istat ci dice che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia nel 2024 e nella prima parte del 2025 è all’incirca del 20%. Boeri, che forse considera fisiologico quel 20%, informa i telespettatori che il problema reale sono i salari bassi (di nuovo!), che dal 2020-21 hanno perso il 10% del potere d’acquisto (tralascia, il noto economista di informarci quanto i salari abbiano perso negli ultimi trent’anni, complici le scelte di politica economica che egli predilige). Infine ecco la diagnosi e la cura secondo Boeri (trascrivo quasi alla lettera): i giovani non possono cambiare datore di lavoro e muoversi tra imprese con facilità a causa dei bassi salari e devono quindi accettare la misera mercede che viene loro concessa. Come dire che un moto molecolare di giovani lavoratori porterebbe tali giovani a conseguire ipso facto posizioni lavorative più vantaggiose; avendo però basse retribuzioni non hanno la possibilità di spendere (in mezzi di trasporto?) per trovare un datore di lavoro più generoso (cosa che, oggi come oggi, si porrebbe come ricerca assai lunga ed effettivamente dispendiosa). Qual è la cura di questa imbarazzante situazione che porta i nostri giovani ad andare all’estero pur di trovare un lavoro ben retribuito? Il rimedio sovrano è “non irrigidire il mercato del lavoro” con un “sì” ai quattro referendum! Ci vuole faccia tosta per riproporre la flessibilità come rimedio! Bene, questi sono gli economisti, quando parlano al popolo bue (sono certa che Boeri, nella sua veste di direttore scientifico del Festival dell’economia di Torino sia meno grezzo).
I politici poi, quando parlano al popolo bue, fanno come il nostro primo ministro che, andando oltre il ridicolo, si recherà al seggio ma non ritirerà la scheda. Mi spiace non essere a Roma, dove immagino che Meloni farà la sua marcia sul seggio; suggerisco di non lasciarla sola e di formare per l’occasione un comitato di accoglienza che la preceda e la accompagni quando il Primo Ministro farà il gran rifiuto e respingerà le schede. Non è necessario accoglierla a parolacce; la cosa migliore sarebbe accompagnare l’ingresso al seggio con una musichetta da circo. Niente canti politici, tanto meno l’inflazionata Bella ciao; andrebbe bene, che so, I clowns di Nino Rota, giusto per stare in tema. Lancio l’idea, che potrebbe essere realizzata da un manipolo di persone coraggiose. Non si rischia molto, per ora: abusare di strumenti sonori o di segnalazioni disturbando così le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro. Una bazzecola – a meno che il ritrovo non venga definito “manifestazione non autorizzata” e allora potrebbe andare ben peggio.
Sono passati quarant’anni esatti dal 9 e 10 giugno del 1985, quando un referendum decretò l’inizio delle politiche di austerità che nel nostro Stato hanno eroso reddito dei lavoratori e democrazia. L’ 8 e il 9 giugno ricordiamoci come esempi negativi e ipocriti dei Boeri, dei Renzi, dei La Russa, delle Meloni (quanti altri ce ne sarebbero!) e andiamo a votare. Ricordiamoci in questo 7 giugno, come esempio positivo, di Enrico Berlinguer che, appena prima di morire, nel suo ultimo comizio, invitò i tanti che lo ascoltavano a far opera di convincimento con chi è perplesso, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada. E affermò che la nostra causa è la causa della pace, della libertà, del lavoro e del progresso della nostra società. È una sintesi semplice e giusta: a tanti decenni di distanza, è ancora la nostra causa.
Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 6 giugno 2025