Perché votare cinque sì ai referendum dell’8 e 9 giugno

di Francesca Coin /
4 Giugno 2025 /

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Qualche giorno fa l’ultimo rapporto annuale dell’Istat ha offerto una fotografia accurata e inclemente della situazione economica italiana. Dopo anni di facili slogan e promesse grandiose, i dati parlano di un paese in declino, in cui la produzione manifatturiera è in calo da 26 mesi consecutivi, il settore dell’auto è in crisi, compreso l’indotto, e la crescita è trainata dal turismo, dove però l’occupazione è povera, precaria e dal basso valore aggiunto.

La lista delle aziende in difficoltà è interminabile, sotto pressione per l’aumento dei costi del denaro, dell’energia e dei trasporti. Anche se da due anni il governo parla trionfalmente di record occupazionale, l’Italia ha il tasso di partecipazione al mercato del lavoro più basso d’Europa, in particolare di giovani e donne. Circa un quarto della popolazione ha almeno 65 anni e i giovani più formati vanno all’estero: questo dato è aumentato del 21 per cento in un anno, tra il 2022 e il 2023.

In generale l’Italia sembra un paese in bilico tra crisi demografica e desertificazione produttiva, in cui i bassi tassi di crescita si affiancano alla scarsa produttività del lavoro e decine di migliaia di lavoratori – dal settore dell’auto a quello alimentare, dal commercio ai servizi, all’industria e agli appalti – si arrabattano da mesi tra il rischio di esuberi, i contratti di solidarietà e la cassa integrazione.

Per trent’anni la politica bipartisan ha ripetuto che il lavoro in Italia era troppo tutelato e che una maggiore flessibilità avrebbe creato una crescita dell’occupazione. In linea con queste premesse nel 1997 è entrato in vigore il cosiddetto pacchetto Treu, che ha introdotto contratti di lavoro temporanei e precari. La legge Biagi del 2003 ha poi aumentato la gamma dei contratti atipici: co.co.co, co.co.pro, lavoro a progetto, lavoro intermittente. La riforma Fornero nel 2012 e il jobs act del governo Renzi nel 2015, infine, hanno introdotto la flessibilità in entrata e in uscita, fatto a brandelli lo statuto dei lavoratori del 1970 e trasformato la precarietà in una condizione strutturale.

Secondo i dati dell’Inps, in Italia più del 70 per cento dei contratti attivati nel 2023 è stato a tempo determinato. La capacità dei lavoratori di contrattare condizioni e salari dignitosi è ai minimi storici e le tutele hanno lasciato spazio a una precarietà strutturale. Il problema è che le premesse teoriche da cui sono nate queste riforme erano sbagliate. La crescita della flessibilità non ha creato occupazione: l’Italia ha il tasso di occupazione più basso d’Europa, come si è visto. Ha solo indebolito il potere negoziale del lavoro, insieme alle tutele e ai salari, che sono tra i più bassi d’Europa. Allo stesso tempo, la struttura produttiva del paese si è spostata dalla manifattura ai servizi, aumentando la povertà anche tra chi lavora.

È per questo che si terranno i referendum dell’8 e 9 giugno. Per chi li ha voluti e invita a votare sì sono un modo per disincentivare i licenziamenti illegittimi; eliminare il tetto massimo di sei mensilità d’indennizzo per i lavoratori licenziati illegittimamente; costringere i datori di lavoro a motivare l’uso di contratti a tempo determinato fin dal primo giorno; estendere al committente la responsabilità dei danni derivanti da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore.

Sono tutti modi per contrastare la precarietà, arginare lo strapotere dei capi d’azienda, e allo stesso tempo per aumentare le tutele dei lavoratori, smettendo di scaricare solo su di loro il rischio di incidenti e infortuni. Anche ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale per ottenere la cittadinanza italiana ha a che fare con il lavoro, non è solo una questione di civiltà. È un intervento necessario per ridurre la ricattabilità dei lavoratori stranieri e contrastare una spinta al ribasso nei salari che riguarda tutti.

Cinque sì non cambieranno tutto. Ma sono necessari per invertire la rotta. Per più di trent’anni l’economia italiana è stata l’esito di scelte miopi e controproducenti per sopravvivere nel mercato internazionale tagliando il costo del lavoro. “Venite a investire in italia che abbiamo i salari più bassi d’Europa”: l’orgogliosa preghiera dell’allora presidente del consiglio Renzi non era solo una gaffe, ma il simbolo di una cultura politica in base alla quale la competitività internazionale si fonda solo sull’assalto ai diritti.

Questo tipo di riforme ha fallito. Lo dicono i dati e lo dicono i paesi intorno all’Italia, che dimostrano come le scelte veramente lungimiranti sono andate nella direzione opposta. Negli ultimi due anni la Spagna ha introdotto una riforma complessiva del mercato del lavoro che ha contrastato la precarietà e incentivato contratti stabili, portandoli dal 10 al 48 per cento del totale; ha ridotto l’orario di lavoro da 40 a 37,5 ore settimanali a parità di stipendio; ha aumentato il salario minimo.

Questa politica aggressiva a favore del lavoro ha aumentato il benessere dei lavoratori, la produttività e i salari senza effetti negativi sull’occupazione, ha contribuito alla crescita del pil e all’aumento dei profitti delle aziende. C’è una chiara lezione da imparare in tutto questo: non si crea un’economia sana lucrando sulla pelle dei lavoratori. Un’economia sana non nasce dallo sfruttamento, ma dal rafforzamento degli spazi di democrazia nei luoghi di lavoro, da contratti tutelati e da salari dignitosi.

I più grandi partiti politici del paese da trent’anni si muovono nella direzione opposta. Con coerenza, negli ultimi mesi, il governo Meloni ha spesso evitato di parlare del referendum. L’astensionismo è stato, per molto tempo, il complice principale delle politiche contro il lavoro e la società. È importante andare a votare proprio per questo. E per imporre un cambio di rotta servono cinque sì.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 3 giugno 2025

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