Come scrivere di Gaza? Il genocidio palestinese nella voce della poesia

di Carolina Toso, Fady Joudah, Mosab Abu Toha /
31 Maggio 2025 /

Condividi su

In un articolo del 1996, dopo essere stato a Gaza, Edward Said raccontava dell’espressione che ancora lo tormentava dopo averla sentita da tanti gazawi: mawt bati’, morte lenta. L’assedio che si consuma a Gaza da oltre un anno conserva l’amarezza di una vita che si disumanizza giorno dopo giorno, ma ora lo sterminio è stato accelerato, tanto che l’espressione “nuova Nakba” è sempre più frequente (il termine arabo “Nakba” significa “catastrofe” e si riferisce al 1948, ma include anche i suoi prodromi e la sua continuità fino ai giorni nostri. Indica l’espulsione di massa di oltre 780,000 palestinesi dalla loro terra e la distruzione di più di 450 tra villaggi e città. Il 1948 segna anche la proclamazione dello Stato di Israele). Da decenni la Striscia è descritta come una prigione a cielo aperto: gli attacchi via cielo e via terra sono quotidiani, le distruzioni ricadono indistintamente su case e terreni e la libertà di movimento è sistematicamente negata, anche per quanto riguarda l’entrata di forniture mediche. Quello che cambia, ora, è che la comunità internazionale è ormai “[assuefatta] alla colonizzazione”, come afferma Enzo Traverso nel suo ultimo saggio, Gaza davanti alla storia.
Il massacro non ha però fermato la letteratura. La poesia, in particolar modo, documenta le violenze in corso e si schiera contro la loro normalizzazione ed invisibilizzazione.
Questo contributo si concentra su due potenti voci palestinesi, Fady Joudah e Mosab Abu Toha. Entrambi poeti, aventi stili, storie e conseguenti posizioni epistemiche differenti, con le loro raccolte raccontano il genocidio in corso e partecipano della sofferenza del popolo palestinese. L’articolo proporrà la traduzione di alcune poesie tratte da […] di Fady Joudah, edito da Milkweed Editions nel 2024, e Forest of Noise di Mosab Abu Toha, uscito per Knopf sempre nel 2024, raccolte entrambe scritte in inglese e inedite in Italia. I temi in comune ai due autori e le strategie stilistiche proprie di ciascuno suggeriranno risposte diverse alla stessa domanda: come scrivere di Gaza? 

Come già anticipato, Fady Joudah e Mosab Abu Toha hanno profili differenti. Prima di far spazio alle loro poesie, una breve premessa è d’obbligo per contestualizzare i loro vissuti e rimarcare quanto la Palestina, sempre di più dopo la frammentazione geografica causata dalla Nakba del 1948, sia ontologicamente una e multiforme. Infatti, se nessuna cultura è pienamente omogenea, quella palestinese è polifonica e sfida l’abituale concezione di stato-nazione. Questo perché ospita al suo interno più tipi di affiliazione: naturalmente i palestinesi nei territori occupati, ma anche quelli con cittadinanza israeliana e quelli nella diaspora, che si trovino nei paesi arabi vicini o negli Stati Uniti, in America Latina o altre comunità deterritorializzate. Questa frammentazione si riflette anche nella letteratura, a partire dalla lingua, perché nella produzione letteraria oltre l’arabo troviamo sempre di più l’inglese e lo spagnolo. Le traiettorie di Joudah e Abu Toha si iscrivono in questa Palestina polifonica la cui storia, come scrisse Said (After the Last Sky. Palestinian Lives, Columbia University Press, New York, 1999), si oppone ad una narrazione uniforme. A tenere unite queste voci è la Nakba, che convoglia ricordi del trauma fondativo e ispira una coscienza collettiva nazionale in fieri, spesso espressa nella rivendicazione del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi.

Fady Joudah è nato in Texas nel 1971 e sempre negli Stati Uniti ha studiato medicina. Dopo alcune esperienze come medico umanitario in Zambia e Sudan, è tornato negli Stati Uniti dove all’attività di medico ha affiancato quella di traduttore dall’arabo all’inglese. Le sue traduzioni delle opere di Ghassan Zaqtan, Mahmoud Darwish e Amjad Nasser gli sono valse diversi premi, come il Banipal Prize ed il PEN USA Award. Dal 2008 scrive poesia e […], scritta tra l’ottobre e il dicembre 2023, è la sua quinta raccolta. Il titolo volutamente elusivo evoca i limiti della lingua nel descrivere il genocidio a Gaza, ma anche l’esitazione della comunità internazionale nell’usare il termine genocidio.

Mosab Abu Toha, invece, a Gaza ci è nato, nel 1992, e ci è rimasto fino a ottobre 2023, quando con moglie e figli è riuscito a scappare attraverso il valico di Rafah. Prima di farcela, è stato arrestato ed è transitato per un campo profughi a Jabalia e per una scuola rifugio dell’UNRWA. Già bibliotecario e fondatore dell’Edward Said Library a Beit Lahia, la sua attività letteraria è cominciata con Things You May Find Hidden in My Ear, che ha vinto il Palestine Book Award e l’American Book Award nel 2022. Grazie a delle borse di studio ha potuto trascorrere periodi a Harvard, Syracuse e più recentemente al Cairo. Forest of Noise è il suo secondo volume.

Per il fatto che sono scritte in inglese, le raccolte di Joudah e Abu Toha contribuiscono a combattere il gatekeeping linguistico su quanto accade in Palestina. Nei loro versi troviamo l’urgenza di raccontare l’indicibile, anche se la lingua viene meno davanti al dolore di vedere il proprio popolo dilaniato. Le loro poesie, però, non sono un mero resoconto di distruzioni di massa e perdite di cari. Al contrario, invitano ad allargare lo sguardo oltre alla rappresentazione dei palestinesi come vittime, perché i versi suscitino solidarietà, non pietà. Un primo esempio del tentativo di umanizzare e universalizzare la sofferenza palestinese è l’enfasi sull’intimità famigliare. Gli autori ricostruiscono il tepore della casa e l’irruzione dell’assedio nella quotidianità delle relazioni sociali: le figure rimangono le stesse, ma risultano alterate dalla dissonanza della guerra. È quello che scrive Mosab Abu Toha in  in Ramadan 2024 (p.64):

Seduti attorno a quel tavolo, mancano le sedie
dove il venerdì si accomodavano mia madre, mio padre,
e la mia sorellina,
dove i miei fratelli e i loro figli
bevevano tè al tramonto quando venivano a farci visita.
Non è rimasto più nessuno. Nemmeno il tramonto.
Nella cucina, manca il tavolo.
Nella casa, manca la cucina.
Nella casa, manca la casa.
Rimangono solo macerie, in attesa di un’aurora.

Around that dinner table, missing are the chairs
where my mother, my father,
and my little sister used to sit with us on Fridays,
and where my siblings and their kids
used to drink tea at sunset when they visited.
No one is here anymore. Not even the sunset.
In the kitchen, the table is missing.
In the house, the kitchen is missing.
In the house, the house is missing.
Only rubble stays, waiting for a sunrise

I versi ci restituiscono come i riti, i tempi e gli oggetti legati all’intimità della casa siano stati, per così dire, amputati. Ora la sensazione di casa va riassemblata a partire dai ricordi, ma la scena pare incolore, quasi svuotata della convivialità che la animava. Anche il futuro subisce lo stesso trattamento, e i poeti si interrogano su chi sopravviverà all’eccidio a Gaza, e come. Le conseguenze sono particolarmente nefaste per i bambini, che come tanti civili sono ormai visti come danni collaterali giustificati dalla pulizia etnica in corso. La poesia […] di Fady Joudah (p.12) è un monito in questo senso:

Non intendevano uccidere i bambini.
In realtà sì.
Troppi bambini si sono messi in mezzo
a bombe da una tonnellata
precisamente imprecise
lanciate mille e una volta
sulle loro notti.
Non perdoneranno ai bambini questo peccato.
Volevano salvarli da peccati futuri.
Oppure volevano mandare loro delle vite impacchettate
fatte di ore pro bono
di chirurgia ricostruttiva,
angoscia mentale da trasmettere
ai loro figli.
Ma i bambini avranno figli?
Ecco cosa non sapeva di volere
chi ha lanciato le bombe:
vedere se assomigliavano a loro
dopo sofferenze inquantificabili.
Volevano condurre
la loro ricerca, ma hanno dimenticato
che non tutta la sofferenza è devota al potere
più che alla sopravvivenza. Un’infanzia distrutta
che infanzia potrà generare?
Me l’hanno mostrato i miei genitori.

They did not mean to kill the children.
They meant to.
Too many kids got in the way
of precisely imprecise
one-ton bombs
dropped a thousand and one times
over the children’s nights.
They will not forgive the children this sin.
They wanted to save them from future sins.
Or send them wrapped lifetimes
of reconstructive
surgical hours pro bono,
mental anguish to pass down
to their offspring.
Will the children have offspring?
This is what the bomb-droppers
did not know they wanted:
to see if others will be like them
after unquantifiable suffering.
They wanted to lead
their own study, but forgot
that not all suffering worships power
after survival. What childhood does
a destroyed childhood beget?
My parents showed me the way.

Gli attacchi irrompono anche nel linguaggio poetico, in cui termini stridenti e crudi creano fratture inaspettate sulla pagina. Attraverso e nonostante questo ritmo azzoppato, Joudah e Abu Toha tentano di far emergere dei brandelli di umanità dalle macerie, letteralmente e simbolicamente. Sono brandelli perché corpi miracolati, per cui il tempo poetico, e con lui chi legge, si sofferma sul fatto che siano vivi. Dall’essere un fatto dato per scontato, la sopravvivenza diventa motivo di stupore. Troviamo così fermi immagine in cui si celebra la vita, epifanie in forte contrasto con il contesto circostante. Ne leggiamo in […] di Fady Joudah (p.19):

Tutt’a un tratto la ragazzina sentì l’ovazione
dei suoi soccorritori,
tutti uomini,
in ginocchio e supini
intenti a spostare le macerie provocate dall’uomo
a mani nude,
sfigurati dalla polvere
simili a fantasmi.
Tutti i disastri sono naturali
incluso questo
perché gli umani sono parte della natura.
I soccorritori le dicono
che è pazzesca, che è forte,
e per una frazione di secondo, prima che il peso
della scomparsa della sua famiglia
la schiacci, lei sorride,
come un bimbo
che ha vissuto per sette anni sulla terra
circondato da lodi.

And out of nowhere a girl receives an ovation
from her rescuers,
all men
on their knees and bellies
clearing the man-made rubble
with their bare hands,
disfigured by dust
into ghosts.
All disasters are natural
including this one
because humans are natural.
The rescuers tell her
she’s incredible, powerful,
and for a split second, before the weight
of her family’s disappearance
sinks her, she smiles,
like a child
who lived for seven years above ground
receiving praise.

I versi sembrano trattenere, finché possono, il peso della realtà che poi si schianterà sulla bimba. Nello stesso modo in cui viene estratto il suo corpicino, così il poeta estrae l’immagine del sorriso da una scena dove uomini e macerie sono impilati, i visi dei primi mischiati al grigiore delle seconde. Dopo lo sprazzo del sorriso, la consapevolezza del sapersi sola è riprodotta sulla pagina a mo’ di ghigliottina che prima è sospesa e poi tronca il verso successivo. In una maniera simile, Abu Toha descrive la tenerezza del legame tra madre e figli, chissà per quanto ancora presente nella minaccia di un raid. In Cosa fa una mamma gazawi durante un raid israeliano notturno (p.52) ci regala così un quadretto descrittivo in cui l’affetto materno resiste nell’ostinazione di scacciare la guerra che si insinua tra i rapporti:

Raccoglie tutti i figli attorno a sé
nel letto, come uno raduna libri e vestiti e li mette in valigia
prima di lasciare l’hotel.
Conta le orecchie, le bocche, i nasi, poi
li guarda negli occhi. E, ve lo giuro, sorride.
Canta una ninna nanna per coprire il suono
delle bombe,
per far scomparire il ronzio dei droni e rispedirlo su nelle nuvole
Abbraccia ogni figlio, di quelli rimasti
dopo ogni bomba,
e se sa che una bomba sta per far esplodere il cielo e la
stanza,
copre loro gli occhi
e chiede ad alta voce
“Cosa vedi quando hai gli occhi chiusi?”
sperando che la sua voce tremula riesca a nascondere
il suono distruttore della bomba.

She gathers all her kids around
in her bed, as one collects and packs
books and clothes before leaving a hotel.
She counts her kids’ ears, mouths, noses, then
looks into their eyes. And, I swear, she smiles.
She sings a night song to bury in the ground the sound of
bombs,
to disappear the whirring of drones back into the clouds.
She hugs each child, still here,
after every bomb and,
if she knows a bomb is about to light up the sky and the
room,
she covers her kids’ eyes and
loudly asks,
What can you see when your eyes are closed?
hoping her trembling voice may hide
the bomb’s eradicating sound.

Centrale in entrambe le raccolte è anche lo strazio nell’assistere all’assedio da lontano, che si confonde con senso di colpa e impotenza. Questa distanza ha da sempre contraddistinto l’esistenza di Joudah, palestinese della diaspora, per cui come altri poeti e poetesse nella stessa condizione (George Abraham, Hala Alyan, Zeina Azzam, Summer Awad, Lisa Suhair Majaj, Aiya Sakr, solo per citarne alcuni negli Stati Uniti) l’appartenenza alla Palestina si gioca a cavallo tra due lingue e paesi. Diverso è il caso di Abu Toha, che si trova spettatore della distruzione della sua città natale e nei suoi versi racconta questa scissione. In Due orologi (p.49) è ben visibile la spaccatura tra lo sguardo verso Gaza e la normalità di New York, che gli provoca simultaneamente turbamento e gratitudine:

Indossa due orologi,
uno col fuso orario di New York,
l’altro con quello di Gaza.
Quando è al bar con gli amici,
e aspetta il tè seduto ad un tavolino tondo e verde,
ogni volta che il suo sguardo ricade
sull’ora di Gaza, si ricorda i bimbi
del suo quartiere che corrono per le viuzze,
le ragazze che giocano a campana e i ragazzi a calcio.
Di notte, quando il led dell’orologio col fuso di Gaza non
funziona,
sa che il suo quartiere è senza energia elettrica.
Se il metallo dell’orologio si intiepidisce,
sa che stanno cadendo delle bombe.
Se l’orologio è bloccato, sa che
un parente, un vicino, o un amico, è morto.
Quando succede, l’orologio riprende a funzionare
solo quando il corpo è stato seppellito.
E se non ci sono più corpi?
È contento di avere tempo a disposizione, e un orologio che
funziona.
È contento di avere tempo.

He’s wearing two watches,
one set to the local time in New York,
the other to Gaza’s.
In a café with friends,
waiting for his tea at the round green table,
whenever his eyes fall
on the Gaaz dial, he remembers the kids
of his neighborhood running in the alleys,
girls playing hopscotch, boys playing soccer.
At night, when the light in the Gaza watch doesn’t
work
he knows electricity is off in his neighborhood.
If the metal case grows warm,
he knows bombs have started to fall.
If the watch doesn’t move, he knows
a relative, a neighbor, a friend, has died.
When that happens, the watch won’t work again
until their body is buried.
But what if there is no body anymore?
He is happy to have time, a watch that works.
He is happy to have time.

Essere a distanza significa anche assistere ad un massacro mediatizzato, le cui immagini ossessionano chi guarda e fanno montare rabbia e senso di giustizia. Non sarà mai ripetuto abbastanza: il 7 ottobre e gli eventi che l’hanno seguito hanno una genealogia in cui oppressione ed espropriazione si protraggono da decenni. Quanto accade a Gaza riattiva memorie di sradicamenti trasmesse di generazione in generazione e addita i pericoli del sacralizzare la sofferenza fino a farla diventare vittimismo. Nella poesia […] (p. 69), intitolata ancora una volta con un’ellissi come a contenere tutte le emozioni contrastanti che prova, Fady Joudah indaga questi temi inscenando un dialogo con la controparte israeliana. I ruoli sono ribaltati: la voce palestinese non è subalterna ma incalzante, come se stesse conducendo un interrogatorio.

Tu che mi scacci dalla mia casa
sei cieco davanti al tuo passato
che non ti abbandona mai,
sei cieco davanti a ciò che ora
mi stai facendo.
Adesso la tiri per le lunghe con questo logorio,
così questo crimine
diventa il cambiamento climatico e non un massacro,
così il presente non finirà mai.
Ma io sono più vicino a te
di quanto tu lo sia a te stesso,
e questa, mio nemico amico,
è la definizione della distanza.
Su, non indignarti!
Guarda il video. Ti manderò il link
in cui fai pulizia di me in mille pezzi e arti
e poi li lanci per strada a marciare
dove la mia attuale catastrofe
non è ancora grande quanto il tuo passato:
è forse questo il muro
contro il quale scagli i dadi?
Sto parlando da un punto di vista etimologico. Mi sta bene
che la bilancia penda dalla tua parte,
non è quello che mi interessa. Ho un cuore che marcisce,
resiste, e spera. Ho geni,
proprio come i tuoi, che non aderiscono
alla piramide della violenza.
Tu che mi scacci dalla mia casa
hai sfrattato anche i miei genitori
e anche i loro genitori.
Com’è la vista dalla mia finestra?
Di cosa sa il mio sale?
È necessario che io mi condanni
perché tu perdoni te stesso nel mio corpo? Ah, quanto ti
piacciono
il mio corpo e la mia casa.

You who remove me from my house
are blind to your past
which never leaves you,
blind to what’s being done
to me now by you.
Now, dilatory, attritional,
so that the crime
is climate change and not a massacre,
so that the present never ends.
But I’m closer to you
than you are to yourself,
and this, my enemy friend,
is the definition of distance.
Oh don’t be indignant.
Watch the video. I’ll send you the link
in which you cleanse me item after limb
thrown into the street to march where
my catastrophe in the present
is still not the size of your past:
Is this the wall
you throw your dice against?
I’m speaking etymologically. I’m okay
with the scales tipping your way,
I’m not into that. I have a heart that rots,
resists, and hopes. I have genes,
like yours, that don’t subscribe
to the damage pyramid.
You who remove me from my house
have also evicted my parents
and their parents from theirs:How is the view from my
window?
How does my salt taste?
Shall I condemn myself a little
for you to forgive yourself
in my body? Oh how you love
my body, my house.

Per concludere questa disamina, non può mancare il riferimento all’ironia, sebbene velata. L’ironia strappa un sorriso amaro nell’ambivalenza di fare sarcasmo durante un genocidio. Risulta allora un segno di vitalità pungente, come in Richiesta (p.56), che Mosab Abu Toha scrive in rimando a If I Must Die di Refaat Alareer, poeta palestinese e suo caro amico ucciso da un raid israeliano il 7 dicembre 2023. In questi versi, a metà tra una dedica e un testamento, l’ironia non è sacrilegio ma guizzo:

Se morirò,
fate in modo che sia una morte pulita.
Senza macerie sul corpo,
né piatti o vetri rotti,
senza troppi tagli sulla testa o sul torace.
Non toccate le mie giacche stirate
e i pantaloni nell’armadio,
così potrò rimetterne alcuni
al mio funerale.

If I am going to die,
let it be a clean death.
No rubble over my corpse,
no broken dishes or glasses,
and not many cuts in my head or chest.
Leave my ironed untouched jackets
and pants in the closet,
so I may wear some of them again
at the funeral.

Fady Joudah e Mosab Abu Toha sono due tra le tante voci poetiche palestinesi che si affidano alla letteratura per scrivere di Gaza, non senza esitazioni o dolore nel fare questo tentativo. Se i loro versi evocano le vite rimaste sotto le macerie, allo stesso tempo scorgono la vita che rimane oltre la distruzione. Le loro raccolte generano un’eco ricca di sumud, la pertinacia palestinese spesso simbolizzata dall’albero di ulivo: nelle avversità, ferma, resistente e generativa.

Questo articolo è stato pubblicato su Gli Asini il 5 maggio 2025

Articoli correlati