Come sapete, miei pochi o tanti lettori, si sono chiuse le programmazioni del festival Polis in quel di Ravenna, quest’anno arricchito, vitaminizzato ed energizzato dalla sezione Neon, che ha registrato un prevedibile successo di pubblico appunto giovane e probabilmente più trasversale di quello che segue i dotti dibattiti sulla natura e le sorti delle pratiche teatrali planetarie.
Grandi soddisfazioni ha comunque riservato il core vero e proprio di questa edizione che era poi costituito dal focus iberico. Ovvero un affondo sulle forme drammaturgiche del contemporaneo inerenti la Spagna, comprendendo le Isole Baleari, gloriosamente rappresentate dalla Mecanica, il gruppo energico ed energizzante che raccoglie per alcuni aspetti l’eredità della Fura dels Baus, e del Portogallo, paese che già da qualche anno ci sorprende dal punto di vista culturale, con una elaborazione teatrale che riflette sul passato colonialista e sulle forme implicite assunte da ogni tipologia di intolleranza fascistoide.
Dicevamo della Mecanica, che ha comunque performato all’Almagià, coinvolgendo il pubblico in trasversalità generazionale andando a confrontare e mescolando diverse ondate musicali di moda e di successo: non per caso lo spettacolo titolava Un’Odissea teen. Non sono mancati i momenti di approfondimento sia nella fase Neon, che nelle seguenti a partire da subito, con l’incontro tavola rotonda E dopo la generazioneT?, poi con L’ultima rivoluzione della vecchia Europa, dedicato naturalmente al Portogallo e al lavoro di Hotel Europa dal titolo Il Portogallo non è un paese piccolo.
Molto partecipata naturalmente la tavola rotonda di sabato 10 maggio, sul teatro della penisola iberica, che ha messo al tavolo i principali esponenti di questa nuova scena sia spagnola che portoghese fortemente impegnata sul fronte di una rilettura politico-antropologica della cultura e del costume dei rispettivi paesi
Intanto al Mar, sabato e domenica con varie repliche per piccoli nuclei di spettatori in diverse fasce orarie, grazie alla collaborazione dei giovanissimi di spazio A, abbiamo potuto ascoltare, in sale e corridoi e passaggi di assoluta suggestione e bellezza evocativa quali interni ai Mosaici artistici di Ravenna questi testi di Isabel Costa/ Os Possessos, Manifesti per dopo la fine del mondo: dei veri e propri statements, in forma lirica, quasi testamenti spirituali poetici per le future generazioni. Una riflessione anche su tutte le nostre intersezioni, convergenze, illusioni e delusioni da attivisti che lascia il segno, come per esempio nella serrata apologia della Donna cattiva, ovvero la donna non compiacente, non assoggettabile, non prevedibile pertanto fuori da uno schema comportamentale patriarcale. Ecologia dei viventi, fluidità di pensiero, posture intrise di queerness, decolonizzazione, ribaltamento delle categorie logiche e semantiche, sono gli ingredienti cardine di moltissimi dei lavori presentati. Sorprende per garbo, veemenza, straordinario eclettismo, pastiche linguistico e pirotecnia dei riferimenti, la extra-ordinaria conferenza spettacolo, un genere forse solitamente più praticato a latitudini diverse e mi sto certo riferendo all’algido-ossessivo incedere di certe declamazioni di Thomas Bernard, dal titolo Icaria, Icaria, icaria, agito tra italiano francese, portoghese da un interprete drammaturgo peculiare quale Rui Pina Coelho. Un viaggio vertiginoso attraverso la filosofia, l’antropologia, il mito, la semiotica, il pensiero intellettuale europeo, alla ricerca dei fondamentali dell’Utopia, non forse luogo vero e proprio di perfezione, ma attitudine immaginifica e generativa dello spirito, da recuperare dentro ciascuno di noi per trasformare collettivamente il mondo. La dimensione di intimità con gli astanti è assicurata in questo caso dal ridotto del Rasi, mentre, a seguire, siamo su tutto un altro registro e un palco percorso con furia in lungo e in largo dalla coppia costituita dai fratelli Picohueso con il loro Signora Dittatura. Lo spettacolo è in pratica un crescendo di obbrobri franchisti, che inizia quasi in sordina, quasi con la cadenza di un bolero via via più frenetico, a partire dalle iconiche immagini di una presunta signora portuguesa con vezzo di perle che poi diventa la ineffabile moglie del caudillo e una complice di fatto di inaudite violenze dentro la Spagna e oltremare nascoste da un sapiente velo di ipocrisie buonsensaiole. Fratello e sorella agitano il palco nella programmatica recita di poliziotto buono, poliziotto cattivo, quasi scambiandosi di genere e martellando lo spettatore tra video, riproduzioni fotografiche, fulminanti siparietti ironicocabarettistici, che perimetrano un reality anacronistico ma esemplare nel dimostrare l’inesistenza di fascismi buoni.
Quando in una fragrante solatia domenica mattina, ci si sposta al mitico teatro sociale di Piangipane, si è già tutti bendisposti e verso i cappelletti che non mancano mai a sugellare una visita da queste parti e verso questa sorpresa che si rivelerà essere una esperienza condivisa, costituita da Copla: un cabaret spagnolo di e con Alejandro Postigo. Raccontare di questo lavoro in due parole, non è per niente semplice. Potremmo anzitutto iniziare con il dire che si tratta di una esperienza da vivere insieme al suo pirotecnico eppur misurato autore, anche se tutto questo può sembrarci un ossimoro, Per chi non conoscesse il salone del teatro Sociale di Piangipane ad un palmo da Ravenna immerso nel rigoglio rurale di quelle zone, dobbiamo precisare che il suo restauro liberty, i suoi tavolini da caffe, la sua illuminazione soffusa lo rendono uno scenario perfetto per evocare e rappresentare la Copla, che esattamente come il tango ò la bossa nova è molto di più che uno stile musicale, una iconografia divistica a meta tra Almodovar e Fassbinder, una postura teatrale, un eccesso di rossetto, di corsetti e di languori, ma un vero e proprio state of mind, che attraverso le migrazioni riguarda tutto il globo e compie quindi un eterno ritorno per approdare fino a noi. Naturalmente la Copla è un dispositivo liberatorio, pur narrando le mille schiavitù d’amore cui ci assoggettiamo più o meno consapevolmente e pur grondando nostalgia e rimpianto in ogni sua fibra, finendo così per divenire un potentissimo discorso sull’identità: femminile, plurale, decolonizzata, queer. Una lezione spettacolo impeccabile in cui costumi favolosi, musiche suadenti, video interviste accattivanti se la giocano alla grandissima nel catturare più che l’attenzione, il sentimento dello spettatore, spettatore che viene sapientemente coinvolto da Postigo in un giochino stuzzicante a improvvisarsi censori fascisti per esempio e che è costretto ad interrogarsi su quanto la postura e cultura queer siano a tutt’oggi realmente accettate, il fine festival, affidato a due mise en espace che collegano come per i collettivi spagnoli e italiani di Os Possessos, il mondo iberico a quello romagnolo, prosegue sulla linea di drammaturgie in qualche modo a tema, se non a tesi. Didascaliche nel senso più alto del termine, più che narrative, svelando una straordinaria coerenza strutturale del festival, che da un lato, rinnova una sorta di legacy brechtiana del suo nucleo organizzativo ordita qui in chiave mediterranea, dall’altro centrata su una interrogazione profonda riguardo la presa culturale di vecchi e nuovi autoritarismi di stampo fascista. Si chiude dunque con le intelligenze paradossali e dissacranti di Brevi interviste con donne eccezionali per la resa di Nerval Teatro e con Corpo arena per Teatro Onnivoro. Ma si chiude davvero? Per fortuna no, nel senso che Eros Anteros ha da festeggiare un genetliaco importante di 15 anni di attività, che verranno naturalmente celebrati con una intensa estate di lavoro di scouting preparatorio e propedeutico alla realizzazione di un prossimo focus sulle nuove drammaturgie dal Nord Europa e in settembre con la presentazione di due nuovi lavori della compagnia, Si tratta dunque di fare un save the date per il 26 e 27 settembre prossimi, quando corredati da due talks di approfondimento verranno presentati rispettivamente da parte di Agata Tomsic, materiali per Medea da Heiner Muller, e per la regia, drammaturgia e compagine sonora di Davide Sacco, un adattamento da un racconto di Ursula LeGuin, la madrina della science fiction distopica e femminista, dal titolo Quelli che si allontanano da Omelas, nella interpretazione di Eva Robin’s. A questo punto però, bisogna dire che questo finire di stagione ci riserva molte sorprese linkandosi idealmente ad una estate pronta ad introdurci all’autunno senza soluzione di continuità, Come se si ricomponessero frammenti di un discorso amoroso che, per noi addicted del Teatro e dei teatri, non può mai spezzarsi neppure nei momenti di delusione o stallo. Cosi, siamo tutti in trepida attesa di questa edizione di Biennale Teatro Venezia che segna il cambio della guardia alla sua direzione, affidata ad un mito della scuola attoriale americana quale Willem Dafoe, intenzionato a quanto sembra a fare un discorso di matrici di sperimentazione e fil rouges che tengono insieme la ricerca nei decenni, tanto che infatti vedremo li questo Le Nuvole d’Amleto, di Eugenio Barba, ritornato in Italia con il suo Odin, appena presentato in Arena del Sole con grande successo di pubblico, naturalmente strabiliato anche per la invidiabile forma fisica e non solo del decano della sperimentazione a dimostrazione di come talvolta l’anagrafica sia una questione di punti di vista. Un nome che ci lega alle Biennali è anche quello di Milo Rau, che stavolta abbiamo visto al Metastasio di Prato con Antigone in Amazzonia e che sta lavorando ad un nuovo progetto insieme alla scrittrice drammaturga Elfriede Jelinek premio Nobel che abbiamo imparato a conoscere e amare in tutte le sue asprezze grazie alla cura lungimirante di Elena Digioia.
Questo Antigone in Amazzonia si pone sul l versante di un teatro in presa diretta sui fatti del mondo, non limitandosi tuttavia a fare cronaca e testimonianza, ma istituendo (qui torniamo al discorso delle matrici di cui sopra), una relazione di sacralità antropologica sia dell’oggetto narrativo in se inerente il rapporto violato e violento tra Uomo e Natura, sia con la pratica teatrale in quanto ritualità e rilettura di archetipi e miti che sono dentro una genealogia predatoria che arriva fino a noi. Per far questo, il dispositivo scenico si avvale del doppio, tema del resto presente nella tragedia stessa, rappresentato dalle scene agite su schermo nella coralità del villaggio amazzonico con la compagnia e la loro ripresa live sul palco. Emozione e indignazione continuano a sintonizzarci dunque su questa storia millenaria cosi come di genealogia di violenza e di rapporto controverso con i territori, i conflitti e la Storia parla in modo sorprendentemente potente con una ardita operazione autobiografica e di pattern di microstorie, questo Immer noch Sturm, Ancora Tempesta, ultimo grande affresco drammaturgico per Peter Handke, altro discusso maestro della parola in lingua tedesca pubblicato nel 2012 ed oggi ripreso e rivitalizzato dal Teatro Stabile del Veneto per la salda e puntuale regia di Fabrizio Arcuri. Lo spettacolo, della durata di due densissime ore che volano via in un attimo, vede in scena una compagnia di giovanissimi e affiatatissimi attori cimentarsi in un lungo sogno generazionale che attraversa gli errori ed orrori del secolo breve, Protagonista un neghittoso recalcitrante disilluso eppur sentimentale io narrante che si pone dentro e fuori l’azione scenica di continuo e sistematicamente-ossessivamente: alter ego di Handke, certamente, ma nello stesso tempo altalenante rappresentazione di un noi osservatori, partecipi, vittime e forse vili indiretti carnefici di uno spettacolo tanto più grande, reso impeccabilmente da Filippo Dini. Un lavoro concepito come trittico dedicato ad Handke e che si dovrebbe chiudere in luglio, Uno spettacolo notevolissimo visto per ora solo a Venezia e Padova, nella splendida cornice del Teatro Verdi, teatro Nazionale che ci dà la misura di quanto davvero la cura, l’investimento, l’amore per il dettaglio, la coralità, la passione del linguaggio siano leve poetiche e politiche, proprio perché tali, aggiungo io di potenza incredibile. Se pensate impossibile piangere e sorridere alternativamente durante uno spettacolo teatrale che tutto sommato potremmo definire quasi di ambientazione esotica, avendo il suo fulcro sulle vicende di una minoranza etnica della Carinzia, vi sbagliate di grosso. Questo spettacolo ci chiama in causa come comunità di umani, dà le vertigini contemplando un fallimento europeo, ci scuote in una condanna senza appello della guerra e della violenza più in generale, non risparmiando nemmeno la parte giusta della Storia, ci porta di rincorsa fino al martirio palestinese, ci inchioda alle nostre responsabilità con quell’insistito,” ci si chiede, chiedetelo, chiedetevelo “che dà la pelle d’oca. Ma molti sono i momenti topici di un lavoro che sa alternare con sapienza momenti intimistici a momenti in cui si gioca con le luci, il rumore, il fumo avvolgente fino alla platea, una sorta di evocazione con il ronzio degli aerei sulla testa di Apocalypse now e quel grido paradossale: Bombardateci! Rigenerare e non attualizzare, questa l’operazione di senso che Arcuri e la sua squadra fanno rispetto ad un autore- intellettuale noto esponente di una avanguardia oggi sbiadita nei suoi lasciti e che per i più rimane legato alla sceneggiatura del Cielo sopra Berlino e alle polemiche sulla difesa della parte serba durante la dolorosa guerra di Jugoslavia, non già per le sue esplorazioni linguistiche o le sue provocazioni drammaturgiche. Ma se abbiamo già messo cronologicamente in campo giugno e luglio, tra Biennale e progetto Handke, tornando in Romagna, dobbiamo ricordare che sempre nell’ambito di Polis, durante l’erudito e piacevole talk pomeridiano della domenica tra Marco Martinelli di Albe Teatro e il professor Marco De Marinis, sulla contemporaneista della figura di Don Chisciotte, è stata poi annunciata per fine giugno e inizi luglio la messa in scena con coinvolgimento popolare del trittico dedicato da Albe alle vicende del Cavaliere dalla trista figura, presumibilmente in concomitanza con il Ravenna Festival.
Direi che tutto ci conduce a questo punto verso il clou dell’estate teatrale di Romagna, ovvero Il festival di Santarcangelo, che ha recentemente tenuto in quel di Mambo a Bologna, la sua usuale conferenza stampa fiume di presentazione annuale.
Come sapete questo dovrebbe essere il penultimo anno della conduzione di Tomek, instancabile talent scout in giro per il variegato mondo delle rassegne teatrali ai 4 angoli del pianeta, al fine in questo specifico caso di prendere in prestito una cittadina, una comunità, in qualche modo occuparla e riviverla, rileggerla secondo codici espressivi e culturali completamente altri, pur nel rispetto della specificità e magia dei singoli luoghi. Questa il complesso mandato di base, a cui ne seguono altri che ora andremo ad illustrare a partire dall’evocativo claim. Ovvero, not yet. Un non ancora, che ci parla di momenti di transizione, di posture sospese tra retaggi inquietanti e obsolescenze del passato e squarci, feritoie, affondi nel Futuro che in fono sta a noi definire come minaccioso o viceversa foriero di speranza. Tutti i nostri non ancora sono le issues, le questioni ancora frammentate e sospese che ci portiamo appresso ma che l’Arte, la poesia della condivisione possono quasi alchemicamente trasformare. Ritualità, sacralità, recupero dello stupore del magico, dell’abitazione degli spazi per renderli luoghi d’anima sono concetti ricorrenti insieme a quelli di Corpo, fisicità, materialità delle persone e delle cose che ci rappresenta nel senso più chiaro e più netto, più plastico, che cosa si intenda per Politica, oggi.
Tutto lo staff coinvolto, i rappresentanti della ricerca universitaria, delle amministrazioni locali oltre al direttore stesso che nel tempo ha saputo farsi non solo conoscere ma anche molto amare dagli addetti ai lavori e dai santarcangiolesi per le sue evidenti doti umane e relazionali, sono compatti nel ribadire che questo festival sia per l’appunto uno statement politico preciso e che tutta la compagine si consideri schierata. Naturalmente dalla parte dei diritti universali umanitari, dalla parte di chi immagina alternative ed exit strategies da questo soffocante e frammentante realismo ipercapitalista, incapace ormai di costruire alcunché e impegnato in una sorta di costante cannibalizzazione del mondo vivente
Si sente che questo teatro che si ha in mente in Santarcangelo, collettaneo di tantissime e vaste esperienze internazionali è concepito come una sorta di organismo in cui le parti, le articolazioni possono ritrovare efficacia e funzione in maniera sinergica. Il discorso ecosistemico è fondativo di questa visione come pure il discorso di reti operative. Ed in effetti questi ultimi anni di direzione hanno segnato un rinsaldarsi delle abituali partnerships pubbliche e private ma anche un aderire a progettualità e bandi in connessione internazionale in maniera esponenziale, tali da consentire pur nella miseria nostrana un trasformarsi progressivo delle cose ed un restyling anche delle formule più collaudate come vedremo sarà quest’anno per Imbosco. Cercando di andare in ordine e in virtù di sintesi, anzitutto delimitiamo il perimetro temporale tra il 4 e il 13 di luglio diciamo che geograficamente il festival si articola tra Santarcangelo, Rimini e Longiano. 38 compagnie tra straniere e italiane di cui ben 20 in prima nazionale, 140 spettacoli, 9 djset diversi a Imbosco con 8 incontri pubblici: questo giusto per dare i numeri. Ma in questa vertigine numerica e babele linguistica, fitta di una nomenclatura impossibile da pronunciare, c’è appunto una ratio precisa di intersezioni, convergenze, saperi decolonizzati che dà vita ad un pattern esperienziale e interattivo con il pubblico che ha ormai una sua cifra ben riconoscibile e che potrebbe probabilmente avere cittadinanza solo qui per una sorta di interpretazione innovativa delle tradizioni che da sempre contraddistingue queste terre. Le prime forse in Italia a sperimentare una ibridazione di costume e messaggi e codici sul corpo molto più liberati se non altro per vocazione cosmopolita e turistica.
Se vogliamo partire come per un viaggio virtuale a disamina di location, naturalmente dobbiamo principiare da piazza Ganganelli vera porta sociale d’ingresso al cuore del paese che ospiterà quattro diversi artisti in successione, che hanno dovuto ripensare i loro spettacoli per gli spazi aperti e si tratta di Xenia Koghilachi, Tiran Willemse con Nkisi e La Chachi. Ogni anno il festival riserva sorprese riguardo alle nuove location utilizzate e quest’anno si tratterà delle ex corderie, uno spazio non più utilizzato per la produzione di reti e corde a pochi passi dal borgo. Maud Blandel coreografa francese di stanza in svizzera, ha l’onore di aprire il festival con l’oeilnu, una composizione per sei danzatori che si interroga sul concetto di decadimento corporeo, prendendo le mosse dal naturale decadimento dei corpi celesti, ancora tante produzioni femminili e in collegamento con gli elementi naturali come questo Unarmoured di Clara Furey che ci invita a riflettere sul mare che da elemento esteriore puo farsi anche elemento di interiorità colma di desideri potenti, torna anche Alessandro Sciarroni, già leone d’oro alla biennale teatro del 2019 con canti corali tratti dal repertorio italiano composti tra la meta del secolo scorso e i giorni nostri stiamo parlando di eventi al teatro Galli di Rimini. Rimanendo sul classico degli spazi teatrali, una menzione per questo inizio festival merita quel gioiellino del Petrella di Longiano che ospiterai Il Temporale, a lesbian tragedy, a cura di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo. Siamo dalla parte delle in quietudini del contemporaneo e delle nostre Cime tempestose. Il tema si ripropone in qualche misura, per la compagine denominata Dewey Dell, che vede una collaborazione di alcuni elementi della splendida tribù Castellucci, a conferma del detto: buon sangue non mente. Essi tra danza e partiture sonore di grande impatto presentano un lavoro ispirato anch’esso in qualche modo a rilevazioni empirico sperimentali prodotte su un corpo vivente da uno stato di allerta psicofisico permanente, la paura come elemento di blocco del gesto o viceversa scatenamento della potenza dell’atto. Presenti in conferenza stampa ci rivelano con atteggiamento di ispirazione quasi didattica, che certo ci rimanda a qualcuno di famiglia, che in scena avremo un osso lombare animale a simboleggiare la scarnificazione dei concetti, fino ad arrivare alla essenza animale.
Traslandoci verso la seconda parte del festival, ci ritroviamo poi verso est, con coreografo polacco Alex Baczinsky Jenkins, già ospite nel 2022-2023, a segnalare una curatela che non vive di soli exploits innovativi, ma davvero segue linee di ricerca su e giù per il globo nelle loro maturazioni ed evoluzioni. Questo Malign Junction, (Good bye Berlin), è una riflessione su come la ricerca del piacere, della bellezza, l’escape strategy dai ruoli di genere tradizionali che si attuarono nel costume della Repubblica di Weimer, esemplificati dalle forme spettacolari del cabaret, fossero non già una forma di decadenza, ma una pratica liberatoria a contrasto delle nubi autoritarie e repressive che si profilavano all’orizzonte. Berlino e la Polonia si congiungono idealmente anche rispetto al lavoro This resting, patience di Ewa Dziarnowska. Anche qui il tema delle forme di ricerca del piacere, viene indagato attraverso una perormance durational di ben 180 minuti, che rompe le barriere della passività del pubblico. Ancora ricerca di momento di emozione positiva, soddisfazione sensoriale e piacere, sono al centro dell’opera di Flavia Zaganelli coreografa danzatrice bolognese, che, presente in sede di press conf ci racconta di come in tempi di pandemia abbia desiderato ritagliarsi spazi di piacevolezza e in qualche modo sia stata poi spinta a riflettere artisticamente su questa necessita e infatti la sua performance si intitola Placebo dances. La sede operativa della danzatrice greca Xenia Koghilachi è sempre Berlino. Il suo Slamming, indaga l’energia collettiva inarrestabile che si scatena ai concerti dal vivo. Un altro filone di ricerca e sperimentazione presente all’interno del festival è quello inerente una rilettura decolonizzata attraversata dalle istanze transfemministe di memorie, ricordi, storie, individuali e collettive. Un discorso profondo su lasciti, retaggi, strascichi che il passato di ciascuno e di tutti si porta dietro. Anche qui l’elenco degli artisti sarebbe lungo e dobbiamo un po’ sintetizzare. Segnaliamo, anche per la preziosa presenza in sala, Muna Moussie, la raffinata artista e performer a 360 gradi di origine eritrea che porta al festival Cinema Impero, che sarà ovviamente ambientato negli spazi architettonicamente confacenti del cinema di Santarcangelo esempio appunto di estetica d’antan. I meccanismi della propaganda coloniale verranno attentamente disvelati da uno spettacolo-esperienza che nasce da una ricerca biografica familiare. Qui ci imbattiamo in una delle numerose reti che supportano e sostanziano la direzione e cura del festival, ovvero la neonata rete Bloom. Il corpo ancora al centro, ma storicizzato come campo di molte battaglie, abusi, rivendicazioni è al centro di alcune prime al festival come i lavori targati Sri Lanka e Filippine che riflettono sullo sfruttamento subito dalle collaboratrici domestiche e più in generale dalle addette alle pulizie. Jessica Teixeira, intensa artista multidisciplinare brasiliana per la prima volta in Italia presenta un lavoro pluripremiato quale Monga, ispirato alla storia della donna scimmia, ovvero la messicana Julia Pastrana, divenuta famosa nel circuito dei circhi itineranti, peraltro una tragica parabola di soli 26 anni di vita consumati in condizioni che oggi definiremmo subumane, anche Kenza Barrada, artista di origini marocchine si concentra sul corpo femminile sofferente, quello delle donne vittime di varie forme di violenza di cui si fa portavoce narrante. Davide Christelle Sanvee, artista di base svizzera ma di origini congolesi, crea ugualmente sul corpo razzializzato una performance site specific per il Petrella di longiano dal titolo Qui a peur. Di nuovo tornano tematiche di abuso, anche solo per il colore della pelle in altri lavori del festival, Nord Europa ed elettronica congolese si fondono di nuovo in altre opere che indagano la blackness attraverso la trasmissione di retaggi rituali nel collegamento tra ritmo e spazio. Non mancano nonostante tutto artisti palestinesi, come Mara Haj Hussein per la prima volta in Italia dal Belgio, a indagare il multilinguismo di un popolo assoggettato alla lingua ebraica dei dominatori. Ma a segnalarci anche come in Italia siamo estremamente arretrati nell’assorbimenti di stimoli energie influenze culturali altre. Come qualcuno ha notato dovremmo avere nei nostri cartelloni o stagioni abitualmente una leva artistica straniera o di origine migrante e invece questo purtroppo non accade usualmente per una serie di ragioni su cui varrà la pena anche soffermarsi. Abbiamo così solo eccezionalità come Santarcangelo per accostarci a ciò che dovrebbe essere nella ordinarietà. Così nella sala cinematografica di Santarcangelo vedremo A Fidai Film di Kamal Aljafari uno dei registi palestinesi più innovativi e tutto ciò sarà possibile grazie alla collaborazione stabilita con Rimini per Gaza.
Venendo allora a qualcosa di nostrano e laboratoriale, ci attendono anche gli esiti del laboratorio Let’s revolution di Teatro Patalò e il lab della non scuola delle Albe
Segnaliamo anche l’evoluzione di Imbosco, che grazie al progetto Spa creative Europe, cerca di aggiungere contenuti, sicurezza, benessere cura e comforts in chiave antisessista al popolo della notte che abita Imbosco dento, oltre, al di là della fruizione teatrale. Insomma una rilettura come Salute e apprendimento nel loisir grazie all’impegno incrociato di tre diversi collettivi quali industria Indipendente, Kem, Parini Secondo. Abbiamo già alluso alla rete progettuale Bloom, ma continua il progetto Fondo dedicato alla residenzialità di artisti italiani emergenti, come questa compagnia che si chiama Grandi Magazzini Criminali, Ma si rafforza anche la collaborazione con Ater fondazione attraverso la rete Landing, il cui fine principale è quello di favorire la presenza di giovani talenti nostrani dentro i circuiti internazionali e state pur certi che in questo parterre di eccellenze, ritroviamo i nomi italici che vi abbiamo segnalato sopra.
Non si può che concludere segnalandovi che è già possibile selezionare un personale carnet di spettacoli e prenotare i biglietti per questa festa mobile del teatro sempre irrinunciabile per la combinazione di umanità, dolcezze del vivere, delle consuetudini e del paesaggio unitamente ad aspetti di pratiche ambientali virtuose e multiculturalismo che si sposano con le piadine sorprendentemente bene ogni volta.
Vorrei tuttavia affidare la vera chiusa di questo lungo excursus su spettacoli ed eventi già vissuti o da calendarizzare ad un breve commento sulla installazione recentemente vista alla sede pratellese di Teatri di Vita, titolata 30 minuti in Gaza e realizzata da un team progettuale denominato significativamente The Phoenix of Gaza, un team che vede al centro un ricercatore palestinese rifugiato in America e vedeva fino a poco tempo fa anche il video reporter responsabile delle immagini, purtroppo come spesso accade, trucidato sul campo nel frattempo che questo autentico gioiello cominciava a circolare. Dobbiamo ringraziare i Teatri da tempo impegnatissimi sul fronte del sostegno al popolo palestinese se Bologna riesce ad accaparrarsi un documento ed un’opera così importanti.
Perché non potrà più capitarci, mai più, di vedere realisticamente quella che fu la Gaza City ante 7 ottobre, ovvero una articolata metropoli di due milioni di abitanti tra vigne e mare, molto simile a Napoli. Mi considero fortunata ad essere tra i forzatamente pochi data la fruizione con apparati tecnologici possibile in piccoli gruppi, ad aver fatto questa esperienza di viaggio virtuale tra le strade, i mercati, gli edifici religiosi, le fabbriche, i bar, le biblioteche, i musei, gli hammam, infine anche le macerie, spartiacque di una civiltà spezzata, ma non piegata, di quello che oggi è territorio concentrazionario di fame e di orrore. L’auspicio è che questo eccezionale e bellissimo documento possa essere ripresentato e riproposto qui come altrove.