Abbiamo iniziato un veloce excursus tra i festival che vengono ad affollarsi nella parte bella dell’anno e non poteva mancare in questa sorta di compilation un piccolo affondo o meglio, doveroso omaggio, a quello che parti già 35 anni orsono, come una utopica scommessa. Stiamo parlando di AngelicA, ovviamente, la rassegna internazionale di musica, volutamente scarnamente definita così, la cui operazione di senso profondo è ancora tutta contenuta e nello stesso tempo espansa nelle parole del suo primo artefice, quel compianto Mario Zanzani di cui si pubblicano nei quaderni le note alle varie edizioni da lui curate fino alla morte avvenuta prematuramente nel 2007, proprio in questi giorni.
E ci tocca e sorprende come allora, la lucidità con cui si accende una visione orizzontale del fare e fruire musica che ci toglie da ogni imbarazzo definitorio ma anche consolatorio e tribale, potremmo dire, quando si crede di riconoscersi in questa o quella tifoseria o parrocchia stilistica.
Come sappiamo la musica evoca e suggestiona, accompagnandosi così spesso a modalità identitarie che sono fatte di abbigliamento, pettinature, life style, convincimenti anche ideologici di un qualche tipo.
Non per caso, dunque, una allusione alle alte sfere celesti, dove la questione di “genere”, non è così dirimente. Un autentico spaziare dunque in a kind of blue di sconcertante profondità che sempre contraddistingue locandine e brochure del festival così artistiche, sconcertanti e raffinate ogni volta, ma sempre terribilmente coerenti ad un mandato implicito ma evidentemente vincolante come una devozione.
Quello di stare nella zona liminare che tiene insieme la contemporaneità, ma anche l’anacronismo, accetta il difetto, la pretesa, la discesa, l’alto, il basso e anche la via di mezzo, purché non sia troppo battuta, che accetta il limite del per pochi, ma rifiuta la nicchia specialistica, che esalta le competenze, ma aborre lo status, i ruoli, il potere della gerarchia, che naturalmente non è meno ferreo nella Musica e nella Cultura in generale, che in qualsiasi altro settore del Realismo capitalista.
Così possiamo dire che Angelica, non fa musica di ricerca, ma cerca la musica e i musicisti cercano lei, in un reiterarsi di missioni impossibili, che hanno portato però nel 2011 alla fondazione del Centro di Ricerca Musicale presso il complesso del S Leonardo, uno dei luoghi più belli ed evocativi della città, letteralmente intriso di storie di cultura e sperimentazione. Questo significa avere un calendario di appuntamenti comunque oltre il festival, che si snodano tra settembre e aprile, residenze, laboratori, progetti speciali, 15 anni di piccolo coro angelico, per esempio. Insomma, significa avere delle fondamenta anche se lo sguardo è sempre ostinatamente alto e volatile, oltre tutte le recinzioni, gli steccati, i muri, ma perché no anche i portici tanto accoglienti e uterini da non volerti mai mettere in difficoltà.
Si può infine discutere per ore, come appunto si dica del sesso degli angeli, quando si parla del tipo di musica che si faccia, si scelga e si discuta da queste parti, ma la cosa indubitabile è l’internazionalismo conclamato delle programmazioni e la valenza soggettiva si del tutto, eppure mai individualistica. Si fa musica rigorosamente dal vivo e collettivamente.
Così, finalmente dopo anni di reverente ricorrente seppur assolutamente disordinata frequentazione di questo tempio di un culto così particolare, riesco finalmente a fare due chiacchiere con Massimo Simonini, che già giovane più che promettente adepto, poi braccio destro di Zanzani è tuttora il direttore artistico seppure in modo particolare, di questo pacchetto di saperi e storie gloriose della nostra città, la dotta, ma anche di un po’ tanto mondo, che chiamiamo AngelicA.
Vorrei iniziare con un doveroso buon 35 esimo, che comincia ad essere un compleanno importante, dunque che comporta un festival importante, con un inizio importante, affidato a Charlemagne Palestine, non certo per caso e dopo un anno comunque vissuto abbastanza intensamente. Pertanto, vorrei chiederti qualcosa sullo staff e l’organizzazione di AngelicA. Sul metodo di lavoro che accompagna le vostre scelte coraggiose.
In buona sostanza siamo uno staff fisso, nel senso contrattualmente a tempo indeterminato, che quindi si spende diciamo piuttosto sotto pressione sempre nel corso dell’anno con il centro di ricerca e le attività che ne conseguono, di sette persone. Quando siamo in maggio sotto festival ci sono almeno 26 persone che ci lavorano naturalmente spalmate a tutti i livelli.
Il nostro metodo di lavoro potrei dire che è collegiale, anche se non siamo un collettivo. Intendo dire che non stiamo in assemblea permanente. Ognuno di noi sette ha le sue competenze ed elabora autonomamente idee, cui seguono lunghissime interminabili ma produttive discussioni. Aggiungo che rispettando i nostri canoni, quando dico competenze, mi riferisco anche a pratiche virtuose al di fuori di crediti formativi classici. Mi spiego: il nostro addetto al comparto amministrativo è in realtà un fisico. Siamo così, sperimentali in toto e da sempre. Forse proprio questo ci dà riconoscibilità e credibilità. Le nostre scelte le definirei infatti sperimentali. Ci siamo mossi sempre guidati da un istintivo…”vediamo che succede”, seguito da un altrettanto ottimistico “si può fare”. In verità non penso ci siamo mai considerati quelli di rottura, quelli antagonisti per forza o quelli a caccia di assolute novità o quelli detentori dell’invenzione di qualcosa di inusitato. Piuttosto abbiamo sempre pensato a tutto quello che già___0 c’è e c’era e non si vede, non si insegna, non si diffonde, a tutto quello che è quasi bullizzato da una visione mercantile che ti deve incasellare per forza e che limita la tua circuitazione. Io credo che l’opera di scouting non si faccia con contests o calls costruite ad hoc, ma seminando, tenendo il filo rosso attaccato al passo del presente, andando a vedere i collegamenti spazio temporali e anropologico-linguistici, oserei dire tra le forme espressive, trasmettendo un patrimonio, imparando costantemente, confrontandosi. Ma non in maniera accademica. Lo so che quando iniziammo eravamo tutti molto più giovani e naturalmente meno stanchi e provati dalla vita, cosa che forse ci faceva percepire come un nucleo un tantino esaltato- nerd. Però se tu vai sull’antologica dei nostri scritti di accompagnamento tu troverai un riferimento a i-ching 16, il Fervore. Ecco, direi che quello non ci ha mai abbandonato, ed è una cosa che si può conservare costante perché accetta in se il principio di evoluzione, le risposte anche misteriose e non immaginate al tuo operare. E siccome operiamo in un campo performativo, per noi anche il contesto che decontestualizza ci è sempre parso importante. Certo siamo nati preoccupati di una scarsissima diffusione e comprensione della musica contemporanea nel nostro paese, anche proprio di quella nostra, qui concepita e devo dire che in qualche modo le cose in senso pedagogico formativo forse si sono deteriorate ulteriormente, ma se fai caso, il primo concerto in assoluto del 1991, furono i giochi vocali Inuit, a sancire una vocazione esplorativa.
Mi sembra di capire che questa vostra mission è semplice in un certo modo negli intenti, ma molto complessa nella sua messa a terra, perché mi pare richiedere disinvoltura e accortezza a muoversi su scacchieri diversi, alternativi forse ma anche necessariamente istituzionali. Ci puoi dire qualcosa su questo?
Certamente, bisogna riferirsi a tanti bandi, a diversi agganci istituzionali locali e non questo banalmente per finanziarsi, ma soprattutto in noi c’è sempre stata la voglia di sparigliare le carte in tavola. Quindi benissimo il S Leonardo, ma noi siamo stati tra i primi in tempi non sospetti ad usare spazi inusitati per i nostri concerti e soprattutto ci piaceva molto far entrare le musiche “strane”, nei luoghi vessillo della tradizione borghese. Per anni, abbiamo portato musica d’avanguardia dentro l’Orchestra del Teatro Comunale durante il festival, poi però cambiano i sovrintendenti, magari cambia complessivamente dall’alto un approccio culturale e anche questo finisce. Sono tante le cose che in questo senso di interscambio, di metissage che è qualcosa oltre che avere i soldi per fare, in realtà, un po’ regredite negli ultimi anni. Tutt’ora storia della musica viene insegnata poco e male un po’ a tutti i livelli perché non c’è nessuna attenzione a valorizzare un patrimonio anche nostrano in tal senso che va oltre l’operistica ed ha rappresentanze importanti di contemporanea. Una cosa che per esempio noi facevamo ed era veramente super erano gli incontri ascolti di AngelicA. Non si trattava mai di pensosi talks frontali, cui non crediamo troppo, bensì gli artisti presenti al festival incontravano il pubblico, per ascolti dedicati di altre cose loro inedite o che non avevano messo nel programma e li facevamo anche in luoghi storici, importanti fortemente connotati della città. Purtroppo, anche qui, dobbiamo dire che l’uso indiscriminato dei vari devices(e lo diciamo noi che abbiamo sempre promosso anche le sperimentazioni più tecnologicamente avanzate ), il post pandemia, la mutazione genetica e soprattutto economica che ne è conseguita, hanno reso insostenibili certe formulazioni.
Era molto bello in passato che gli artisti da tutto il mondo potessero incontrarsi qui a Bologna, fare scambio, creare comunità, ma questo era possibile quando la città non era così cara e inflazionata turisticamente. Oggi possiamo permetterci ospitalità prolungate per chi designiamo in residenza. Inoltre, certo ci interesserebbe sempre moltissimo scovare esperienze dal basso, ma nonostante per certi versi le tecnologie, la possibilità di lavorare in remoto etc. aiutino, non è così semplice e d’altro canto, rischiano di andare perdute o sottostimate o obliate esperienze fondative dal recente passato. Spaziare e tenere tutto insieme allo stesso tempo, diventa sempre più complesso. Però si, noi siamo stati antesignani delle fruizioni eterodosse, nelle chiese sconsacrate e no, nei grandi teatri con le orchestre di tradizione, negli spazi pubblici dell’arte Moderna e contemporanea. Così come rispettando sempre standards qualitativi elevatissimi, abbiamo fatto molteplici incursioni nel jazz, nella musica popolare, persino nella canzonetta. e ci piace anche presentare gli artisti in formazioni del tutto inedite. Certe volte sono azzardi, operazioni molto rischiose, certe volte gli artisti stessi attraversano fasi difficili, cali di energia e i risultati possono essere molto inferiori alle aspettative. A noi non piace mai pensare in termini di fallimento, perché da qualsiasi scarto o scampolo o esperienza deludente può venire una lezione, una indicazione. Inoltre, ci sembra molto bella anche come forma di educazione per il pubblico. Anche quando i nomi che presentiamo sono grandissimi, qui il divismo è bandito perché appunto c’è una pacifica non competitiva messa in discussione degli stilemi, dell’asticella delle aspettative. Includiamo anche l’errore nella pratica artistica, lo spaesamento, il dubbio, l’illusione tradita etc. Se si coltiva tra artisti e spettatori questa attitudine comprendi che si va oltre la critica comunemente concepita, il dualismo ammirazione- contestazione e si va verso una stimolazione reciproca e permanente alla curiosità. Che è poi la molla che tuttora ci muove, che ci rende meno pesante la mole del lavoro moltiplicato.
In effetti se io devo pensare astrattamente ad Angelica, attuo subito un collegamento mentale con una certa leggerezza e nello stesso tempo con una certa idea da un lato di un focus evidentemente molto centrato e ben definito, che però racchiude altri aspetti di teatralità, dall’altro una idea quasi artigiana di un lavoro molto pensato che si prende tutto il tempo che ci vuole, quasi al di fuori del sistema del festivalificio permanente che conosciamo.
Mi fa piacere il fatto che stiamo cogliendo un punto centrale nella nostra elaborazione, che è quello della relazione con il tempo: come sai la performatività è effimera per definizione e nello stesso tempo, le nostre idee come vedi non sono usa e getta ma sono fatte per durare: c’è una certa concezione quasi orientale e soprattutto ecosistema e organica del nostro lavoro, della Musica all’interno delle umane attività e di ciò che definiamo Cultura, con addentellata a questa la categoria temporale. Perché quello che tu chiami tempo lento è in realtà semplicemente il tempo della Cura e dell’elaborazione emotiva. ingrediente base di ciò che facciamo da decenni. In questo senso, certo c’è la teatralità che tu rilevi. Concepire performatività in contesti adatti e definiti vuol dire fare teatro. Del resto, noi abbiamo scelto di essere parte della performance e non di sovrapporre ad essa dotte presentazioni, talks frontali, così da lasciare ampia libertà di giudizio al pubblico. Quello che si va a sentire e vedere può comprendere l’uso della voce, della parola oppure no, può articolarsi nei modi più diversi e sono queste cose che noi valorizziamo attraverso un impianto di lightening molto aggiornato e costoso che viene usato con sapienza nel S Leonardo. Puoi dirlo forte: abbiamo tra i migliori impianti di suono e luci di tutta la città, ovviamente acquisiti a nostre spese con fatica, così come una cura grafica e di stampa coerente e raffinata. Sul sito di AngelicA è possibile vedere la collezione, passami il termine di tutti i nostri manifesti e le immagini delle brochure, da quando cominciammo con il cielo azzurro e un vetro tagliato che si stagliava su di esso e che puoi intuire metaforico di statements stratificati, a quello di oggi, che nasce da una mia suggestione. Ha persino un titolo: il peso del fuoco. Volevo dare l’idea del peso energetico che ci vuole per il fare, ma anche della consueta inafferrabilità. Così un vulcano di carta erutta un palloncino, di quelli da mare appunto, perché tutto questo blu profondo è più un mare che un cielo in effetti. La verità è che Massimo Golfieri da anni si confronta con le mie suggestioni. Le monta e rimonta, le discutiamo per ore dal vivo e al telefono. Si ci prendiamo molto tempo per discutere anche un dettaglio e il risultato è artistico. Abbiamo pensato spesso di realizzare una mostra vera e propria di questa sorta di collezione, ma sarebbe complesso il rapporto poi da intrattenere con il mondo delle gallerie d’arte. Ma tutto questo per dire che non si resiste e non ci si evolve nel tempo se non ci si considera parte del tutto, anche di un mondo che sembra in fase devolutiva e in cui gli spazi sembrano restringersi. Il nostro pubblico io direi che è il più vario che si possa immaginare, data l’eterogeneità della nostra proposta. Sarebbe errato dire che sia costituito da uno zoccolo duro fidelizzato. Esiste certo una parte formata da musicisti che ci segue molto volentieri, poi ci sono studenti, persone che vengono apposta da altre parti d’Italia e dall’estero per la peculiarità di una proposta che ha pochi eguali nel panorama musicale, anche tanti giovani quando viriamo sull’elettronica. Dovremmo in effetti magari distribuire un questionario, fare una statistica perché siamo curiosi anche noi a questo punto di meglio comprendere la varietà di chi abbiamo davanti. La grafica d’impatto si accompagna poi agli scritti raffinati di Walter Rovere che rendono le nostre brochure uno strumento prezioso per questo pubblico multistrato e cangiante. Insomma, abbiamo ormai un patrimonio complessivo di competenze che condividiamo con la voglia di discutere sempre tutto ancora dopo tanto tempo e questo crediamo faccia la differenza.
A proposito di patrimoni da condividere e ritorni, vuoi dirci qualcosa di una delle residenze importanti di quest’anno? Mi riferisco naturalmente a Charlemagne Palestine, il mitico compositore e artista americano a 360 gradi, considerato uno dei pionieri della musica minimalista e tra i principali fautori della drone music.
Si, in effetti questa gradita presenza è un omaggio anche alla memoria di Zanzani, per quanto concerne la sua esibizione ai Servi del 13 maggio. Come sempre i nostri residenti si cimentano con una collaborazione inedita e nel suo caso sarà quella con Rys Chatam, che sarà anche lui in duplice veste, di riproposizione e di incontro tra diversità, poi con una riedizione di una sua opera seminale. Stiamo parlando nel suo caso di Schlingen Blangen, un’opera seminale nata come sonorità meditativa d’ambiente, in costante evoluzione attraverso i decenni. Un’opera per organo che Palestine esegui nel 2004 a S Martino Maggiore su organo non temperato rinascimentale e che ripropone in questo caso su un organo molto più giovane, nell’anniversario della scomparsa di Mario. Il programma in generale è molto ricco e i momenti salienti tantissimi. Noterai che ci sono moltissime donne delle più svariate nazionalità, artiste dai 5 continenti, non solo vocalists, ma compositrici, polistrumentiste, sperimentatrici azzardose, ma anche qui graditi ritorni come quello di Cristina Zavalloni, una chanteuse di profilo internazionale che torna con noi a giocare in casa. Bisogna mettersi di buzzo buono a studiarsi il programma. Io posso segnalarvi che dal 2018 AngelicA si è equipaggiata per salpare nei mari d’Oriente con il suo focus dedicato all’Asia e al sud Est del mondo, una delle aree geografiche più ignorate rispetto alle cosiddette avanguardie musicali e vi invito a considerare il concerto del duo di Singapore b-I duo con particolare attenzione, una vera scorribanda tra diavolerie elettroniche varie. Non si può mancare in ogni caso il concerto tardo pomeridiano del 27 maggio, ad opera del Piccolo coro angelico formato da bambini tra i cinque e i dodici anni. Come sempre grazie a Silvia Tarozzi e alle mitiche sorelle Giovannini che nell’ambito delle attività della scuola di Musica angelica ci proporranno insieme a due ospiti d’eccezione quali Angelica Foschi al piano e Francesco Serra alla chitarra elettrica, un saggio -chicca, con musiche e testi di Piccolo Coro stesso e Giovanna Giovannini, ma anche di Bruno Lauzi, Steve Lacy, Mirco Mariani, Silvia Tarozzi, Luciano Berio. Insomma, un vero e proprio inno all’eclettismo, che ben rappresenta tutti noi e l’operazione di senso che andiamo a fare ogni volta e che, come puoi intuire, prende molto sul serio il tema generativo e intergenerazionale.