Ieri, a 72 anni, è scomparso Ali Rashid, figura fondamentale della lotta per la causa palestinese in Italia. Per ricordarlo, condividiamo qui di seguito l’ultimo articolo pubblicato da Rashid su Articolo 21, preceduto da una breve introduzione a cura della redazione del giornale, e un’intervista di Loris Campetti, già pubblicata nell’otttobre 2023 sul nostro sito (LINK all’originale)
Una vita spesa per gli oppressi del mondo e soprattutto per la causa palestinese. Ci lascia oggi una figura umana e politica straordinaria. Nato in Giordania nel 1953 da genitori palestinesi originari di Gerusalemme Ali Rashid è stato segretario nazionale dell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi, ha fatto parte dell’Unione generale degli scrittori e giornalisti palestinesi. Dal 1987 è stato Primo Segretario della Delegazione generale palestinese in Italia ed eletto parlamentare di Rifondazione comunista.
Negli ultimi mesi Rashid è stato spesso con Articolo21 in iniziative pubbliche (l’ultima presso la sede di Libera) e nei nostri incontri del lunedì proprio per parlare delle iniziative a sostegno della causa palestinese. Nell’abbracciare familiari e amici lo vogliamo ricordare attraverso l’ultimo suo testo che abbiamo pubblicato sul sito “Eppure una volta eravamo fratelli” che conserva tutta la sua drammatica e struggente attualità.
Grazie di tutto Ali
“Eppure una volta eravamo fratelli”
di Ali Rashid*
Corre il tempo, e cambiano i contenuti essenziali, le idee, i concetti e sensi. E’ compiuto il processo di trasvalutazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.
Vivo è in me il racconto di mio nonno, che andava a Safad in Galilea per comprare il fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita dalla inquisizione in Portogallo, e che impararono la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.
Il ricordo di Khaiem, socio del mio nonno nella cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica ma continuava a mandare la sua parte del guadagno della impresa finché non morì.
Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma io ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello in America, un mio stimatissimo zio una settimana fa a New York mentre la salma del mio nonno giace in un cimitero affollato ad Amman.
Nelle case di pietra fatte a mano del mio bellissimo villaggio Lifta confinante con Gerusalemme, stanno per costruire un villaggio per i ricchi turisti , mentre una volta era un rifugio sicuro per gli ebrei che fuggivano dal fascismo e dal nazismo che discriminava e annientava gli ebrei nella inenarrabile tragedia dell’Olocausto.
Dio è morto con tutti i valori che ci rendono uguali. Trionfante è l’affermazione della volontà di potenza che affida alla tecnica i propri fini e diventa l’intima essenza dell’essere in un mondo disincantato.
Eppure una volta eravamo tutti fratelli.
Stiamo scivolando tutti nel Nulla, nella mancanza di senso.
E la ragione? La pietà? La misericordia per i vivi e per i morti? La convivenza? Il rispetto? Il diritto?
Ma chi non ha un aereo di guerra sofisticato e moderno o un carro armato deve solo piangere in eterno il suo destino? Deve morire in silenzio?
Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediatamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo addottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita.
Ma questa catena di morte è inarrestabile?
Eppure una volta eravamo fratelli e abbiamo provato la ricchezza e i vantaggi della convivenza e del rispetto reciproco.
Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia del finto stato nazionale con confini discriminatori sempre più stretti e selettivi e in nome di fasulle razze e convenienze, di banali appartenenze e schieramenti.
La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano a dire no alla guerra! Non siamo condannati a farci a pezzi rassicurando tutti per un proprio futuro!
Non dobbiamo discriminare i vivi e i morti.
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«Una volta in Palestina eravamo fratelli», l’intervista di Loris Campetti ad Ali Rashid
Per molti anni in Italia la causa palestinese ha avuto un nome: Ali Rashid. È stato primo segretario della delegazione generale palestinese, nei fatti l’ambasciatore di un popolo senza Stato. Eravamo in un’altra stagione, in cui i palestinesi rappresentavano la parte più avanzata del mondo arabo e, pur tra una guerra e l’altra, tra i raid e le occupazioni israeliane, la politica veniva prima delle armi, se non altro le governava. E l’Italia aveva a cuore la causa palestinese. Giorni fa, Ali ha messo nero su bianco la sua disperazione in una riflessione il cui titolo esplicita la sua utopia che bombe e missili stanno frantumando: «Eppure una volta eravamo fratelli». Ricordo la passione con cui socializzava il suo sogno, uno stato laico democratico capace di accogliere tutti, vittime di ieri e di oggi, al di là delle fedi e delle razze. E ancora oggi, dentro la macelleria in atto a Gaza e dopo la strage di Hamas, non ha cambiato idea, ma considera con amarezza: «Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia di un delirio che si chiama Stato-nazione, segnato da confini che discriminano in nome di razze che non esistono e appartenenze funzionali all’esercizio del potere. La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano di dire no alla guerra. Nessuno ci ha condannato a farci a pezzi anche se ci assicurano che questo avviene per il nostro futuro. Perché nella guerra non ci sono più, se mai ci sono stati, vincitori e vinti. Perché la violenza segna chi la subisce e chi la fa». Nel 2006 Rashid è stato eletto parlamentare nel gruppo di Rifondazione comunista.
Ho raggiunto telefonicamente Ali Rashid ad Amman, la città dov’è nato da una famiglia scacciata da Lifta, un villaggio alle porte di Gerusalemme, dall’esercito israeliano nel pieno delle sue funzioni: «La pulizia etnica». Parliamo di quel che resta della Striscia di Gaza.
«Come in una discarica, a Gaza sono finiti gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli e grandi massacri. Lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte città nelle vicinanze di Gaza, teatro degli eccidi compiuti da noi palestinesi in una catena di orrori che sembra inarrestabile. Oggi la situazione è terribile, uomini, donne e bambine muoiono sotto le bombe israeliane, muore l’umanità, si muore di fame, di sete, di malattie, di disperazione, le incubatrici si spengono perché non c’è elettricità e altri bambini muoiono, crollano case, ospedali, chiese. Forse che le loro vite valgono meno di quelle dei bimbi israeliani uccisi dalla stessa follia?»
Come rispondono le popolazioni arabe a questa strage degli innocenti? Che succede ad Amman?
«Ci sono gigantesche manifestazioni. In piazza scendono i palestinesi ma anche i giordani, per una volta uniti nell’indignazione. Devo dire che i giordani che protestano sono più con Hamas di quanto lo siano i palestinesi, preoccupati per il destino del loro popolo. Tutto il mondo arabo, dal Medioriente al Nordafrica sta protestando, a Damasco, Tehran, Baghdad, in Marocco, Libano, Yemen, la rabbia è esplosa persino in Oman e in Bahrein. La rabbia monta anche contro gli Stati uniti e la loro politica di sostegno a Netanyahu. La protesta generale è anche contro i regimi arabi pronti alla pace con Tel Aviv senza neppure prendere in considerazione la causa palestinese. Tieni conto che le tv arabe 24 ore su 24 mandano in onda servizi e immagini terribili».
L’attacco di Hamas sembra aver ricompattato Israele dopo mesi di proteste popolari contro il Governo di destra.
«In quelle proteste non c’era il problema palestinese, sembrava andar bene a tutti la repressione quotidiana dei palestinesi così come il moltiplicarsi delle colonie, nell’illusione collettiva di avere una vita normale dentro i propri confini. Ognuno nella sua gabbia, quella di Israele dorata e l’altra maledetta. Dice un sondaggio pubblicato dai giornali israeliani che la fiducia nel Governo è scesa al 38%, ma al tempo stesso il 64% chiede che la guerra contro di noi continui».
Nell’inferno di questi giorni vedi qualche segnale positivo?
«La manifestazione degli ebrei democratici americani, sono giovani, di sinistra, chiedono umanità e la fine dell’occupazione, si vergognano per i crimini israeliani. È un fatto straordinario che me li fa sentire fratelli».
Pensi che la tua utopia, uno Stato democratico e accogliete abbia ancora senso?
«Perché, pensi che abbia più spazio oggi l’idea di due Stati indipendenti? Chi lo pensa cerca una scorciatoia: la striscia di Gaza è lunga 47 chilometri e ammassa 2,3 milioni di persone costrette a vivere come bestie braccate, non vedo per loro un futuro. Ora solo il 22% del territorio palestinese, Cisgiordania più Gaza, è palestinese, si fa per dire. Se sottrai lo spazio occupato dalle colonie scende al 16%, abitato da prigionieri. Ma non sono così ingenuo da non rendermi conto che lo Stato democratico resta la strada più difficile».
Sei tornato al villaggio delle tue origini, Lifta?
«Torno spesso, non questa volta perché i confini sono sbarrati».
In Eppure una volta eravamo fratelli, Ali ha scritto: «Ogni volta che torno penso a mio nonno che andava a Safad in Galilea per comprare un foulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita all’inquisizione in Portogallo, avevano imparato la tessitura della seta dagli arabi in Spagna. Mi ricordo Khaiem, socio di mio nonno in una cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica, ma continuò a mandare alla mia famiglia in esilio la parte del guadagno dell’impresa finché non morì. Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello negli Stati Uniti, un mio caro zio una settimana fa a New York, mentre la salma di mio nonno giace in un anonimo cimitero di Amman. Al posto delle case di pietra scolpite a mano nel mio bel villaggio di Lifta stanno costruendo un villaggio per ricchi turisti, mentre una volta era un rifugio sicuro per gli ebrei che scappavano dal fascismo e dal nazismo che li discriminava e li annientava nella tragedia dell’Olocausto».