Il precariato della ricerca si mobilita mentre il governo cerca di prendere l’università per fame, in modo che l’ulteriore stretta venga vista come l’unica forma di sopravvivenza
La riforma del precariato universitario è bloccata da febbraio. Da allora, è tutto fermo. I finanziamenti per assumere con il nuovo contratto di ricerca arrivano col contagocce, bandi per progetti non se ne vedono, piani straordinari di reclutamento nemmeno. La strategia del governo è chiara: prendere l’università per fame, in modo che l’ulteriore precarizzazione del lavoro di ricerca e didattica venga vista dai docenti come l’unico modo per coprire i buchi sempre più grossi negli organici e dai precari come l’unica prospettiva di continuità del proprio posto di lavoro.
Una mossa spregiudicata, che sta sicuramente ottenendo alcuni risultati: su siti e quotidiani, da settimane, è ripreso lo stillicidio di disinformazione che caratterizza il contratto di ricerca ormai da tre anni, con l’obiettivo di far passare l’idea che non ci sia altra strada rispetto all’ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro, retribuzione e vita di chi lavora nell’università, per far andare avanti la baracca; e, com’è fisiologico che accada, anche alcuni precari e precarie si uniscono al coro, pressati dal ricatto occupazionale. E non è un caso che la propaganda del governo insista a contrapporre i precari al sindacato (invisibilizzando completamente la mobilitazione dei precari): rompere il fronte è un obiettivo dichiarato. L’università, del resto, è ogni giorno di più un obiettivo della guerra culturale, e ormai pienamente materiale, lanciata dalla destra globale, come annunciato su queste pagine in tempi non sospetti.
È per questo che è così importante che lunedì 12 maggio scioperi il precariato universitario, con un fronte comune che va dalle Assemblee Precarie all’Adi (Associazione Dottorandi Italiane) alle organizzazioni sindacali (Flc-Cgil, Clap, Adl-Cobas, Cobas, Cub, Usb e Usi). Un primo passo verso una mobilitazione che si estenda anche agli strutturati, al personale tecnico-amministrativo, agli esternalizzati. Un passo per rompere l’assedio e rimettere al centro del dibattito sull’università le persone in carne e ossa, le condizioni materiali del proprio lavoro, i loro bisogni, e l’enorme potenziale contributo alle trasformazioni della nostra società che va sprecato ogni giorno in cui si decide di non investire sull’università.
La strategia dell’assedio
Sono passati ormai oltre due mesi e mezzo da quando, il 20 febbraio scorso, la ministra dell’università Anna Maria Bernini annunciò a una riunione della Conferenza dei rettori la sospensione della discussione parlamentare sul ddl sul precariato universitario. Da una parte, un gesto obbligato, dopo che Flc-Cgil e Adi avevano segnalato alla Commissione europea che il ddl sanciva un ritorno indietro (reversal, nel gergo di Bruxelles) rispetto alla riforma del 2022, collegata al Pnrr: andare avanti con la riforma, quindi, e riproporre di fatto, sotto altro nome, il vecchio assegno di ricerca abolito nel 2022, avrebbe comportato il serio rischio di perdere le risorse previste dal Pnrr in quest’ambito. Dall’altra, una mossa pianificata, per mettere i rettori con le spalle al muro e chiedere loro un sostegno esplicito. Il ddl 1240, del resto, era stato prodotto da un gruppo di lavoro guidato dall’ex rettore del Politecnico di Milano e presidente della Conferenza dei rettori Ferruccio Resta, riprendendo parte di un documento prodotto dalla stessa Crui. Il sospetto è che si trattasse della contropartita offerta dal governo agli atenei di fronte ai tagli: le risorse diminuiscono, ma se si livellano verso il basso diritti e salari di una parte della forza lavoro della ricerca universitaria, si possono mantenere determinati livelli di ricerca e didattica.
Da quel giorno, è iniziato l’assedio. Prendere per fame l’università, per rompere qualsiasi fronte di mobilitazione. I punti di attacco sono stati principalmente due. Il primo è quello della ricerca, e in particolare dei post-doc: dal 1 gennaio 2025 non è più possibile bandire assegni di ricerca (la vecchia forma contrattuale ultraprecaria abolita nel 2022 e più volta prorogata fino alla fine del 2024). Dopo essersi illuso per un paio di mesi di portare a casa il ddl Bernini, solo a febbraio il governo si è deciso a «sbloccare» il contratto di ricerca, rendendolo operativo. Ma a fronte di oltre 24 mila assegnisti il cui contratto scadrà, in grandissima parte, tra quest’anno e l’inizio del prossimo, il governo ha finanziato l’apertura di poche centinaia di contratti di ricerca (la nuova forma contrattuale, più tutelata e retribuita, introdotta nel 2022 e finalmente utilizzabile da marzo di quest’anno). Meno del 2% degli assegnisti italiani, al momento, potrà passare al contratto. E il restante 98%? Non è dato saperlo. Come non è dato sapere se e quando sarà bandito un nuovo Prin (il finanziamento di Progetti di Rilevante Interesse Nazionale con cui sono spesso coperte le spese per i post-doc), o se nella prossima legge di bilancio arriveranno risorse destinate alla ricerca.
Il secondo è quello della didattica: da luglio, infatti, in applicazione della riforma del 2022, non sarà più possibile bandire posizioni da ricercatore a tempo determinato di tipo A (3 anni + 2), che a differenza dei post-doc hanno compiti istituzionali anche di didattica. Dei 7.500 rtd-A oggi in servizio, una parte significativa vedrà il proprio contratto scadere nei prossimi mesi. A quel punto cosa succederà? E, soprattutto, chi terrà i corsi che, a contratto scaduto, rimarranno scoperti? Nell’intenzione della riforma 2022, gli rtd-A sarebbero dovuti essere sostituiti da ricercatori in tenure-track, cioè con sbocco verso la stabilizzazione. Peccato, però, che dal governo non siano arrivate le risorse per finanziare queste tenure-track.
Insomma: oltre 30 mila persone senza alcuna prospettiva di continuità occupazionale, neanche nel precariato, e un intero sistema destinato a fare i salti mortali per coprire le falle enormi, nella ricerca ma soprattutto nella didattica, che la scadenza dei contratti senza rinnovo né sostituzione comporterebbe.
Una situazione insostenibile nel medio-lungo periodo, che il governo sta provando, in maniera piuttosto spregiudicata, a giocare a proprio favore: non a caso, a parte le solite meritorie eccezioni, la Crui si è schierata apertamente con la ministra. E non a caso, nelle ultime settimane è ripartito il pianto greco contro il contratto di ricerca, su siti e quotidiani. L’obiettivo è chiaro: rompere il fronte. Far passare l’idea che la colpa dello stallo non sia, come abbiamo appena visto, nella precisa scelta politica da parte del governo di bloccare i finanziamenti necessari, bensì delle presunte rigidità del nuovo contratto di ricerca. Su questo, si è scatenata una disinformazione davvero allarmante, descrivendo il contratto di ricerca come una gabbia rigidissima e costosissima che avrebbe bloccato l’intero sistema della ricerca e condannato alla disoccupazione migliaia di persone. Peccato che si tratti di un semplice contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, di durata da due a sei anni, che non dà diritto ad alcuna stabilizzazione futura. E anche dell’aumento dei costi si dovrebbe parlare: a regime, un contratto di ricerca dovrebbe costare circa 16 mila euro in più all’anno rispetto al vecchio assegno; di questi, poco più di 5 mila euro, però andrebbero al ricercatore (una boccata d’ossigeno non irrilevante, di questi tempi), mentre gli altri 11 mila sarebbero tasse e contributi, cioè risorse che o tornano nel bilancio statale (e possono quindi essere restituite agli atenei) o vanno a sostenere le future pensioni di ricercatori e ricercatrici. Davvero vogliamo sostenere che, per far funzionare il sistema universitario, chi ci lavora deve rinunciare a versare finalmente contributi dignitosi per la propria pensione?
Ricerca è lavoro
Non è un caso che uno dei quotidiani che più si è prestato al fiancheggiamento, spesso disinformato, delle iniziative del governo sull’università, cioè Il Foglio, ami descrivere la vicenda come uno scontro tra i sindacati cattivi (in particolare la Cgil), che impongono per il delirio ideologico e populista del perfido Landini assurde rigidità contrattuali (non si sa con quale potere malefico, dato che, fino a prova contraria, non sono i sindacati a fare le leggi: in questo caso, anzi, si trattava dela composita maggioranza Draghi…), e i poveri precari, che si trovano a pagarne il prezzo, non potendo più godere degli immani privilegi del lavoro non riconosciuto, non tutelato e scarsamente retribuito con cui li si vorrebbe premiare.
La retorica è quella, trita e ritrita, dello scontro tra «garantiti» e «non garantiti», del ricatto per cui la difesa del posto di lavoro passa per l’accettazione di condizioni sempre peggiori, insomma niente che non si sia già sentito mille volte. Ma il punto non è solo questo: si gioca a contrapporre il sindacato e i precari perché spaventa l’idea che, nelle mobilitazioni di questi mesi, ricercatori e ricercatrici si siano riconosciuti e manifestati come lavoratori e lavoratrici. Perché spaventa l’idea che il contratto di ricerca sia, per la prima volta nella ricerca universitaria italiana, parte del contratto collettivo nazionale, ponendo le basi per il diritto anche di ricercatori e ricercatrici a partecipare alle rappresentanze sindacali e a migliorare le proprie condizioni di lavoro e di retribuzione con l’azione collettiva. Perché spaventa vedere una fetta sempre più crescente di giovani ricercatori e ricercatrici rifiutare l’economia della promessa, la retorica della passione e della vocazione, l’idea che qualsiasi sacrificio e sfruttamento sia giustificato da una cooptazione futura.
Il movimento di questi mesi, com’è normale, è stato segnato da tensioni e divisioni. Eppure un punto è emerso con forza e trasversalità senza precedenti recenti: ricerca è lavoro. Un’affermazione che pare banale ma che è dirompente come presa di coscienza diffusa e che cozza frontalmente con la retorica in cui hanno provato troppo a lungo ad affogarci.
Una constatazione di fatto che è la migliore risposta possibile alla strategia dell’assedio. Se si assume, infatti, il punto di vista per cui le risorse sono sempre decrescenti e l’output, in termini di didattica e ricerca, dev’essere costante, non c’è alternativa al livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro proposto dal governo. In questo senso, l’assedio ha funzionato, portando varie componenti della comunità universitaria, caratterizzate da gradi diversi di buona fede, a proporre possibili mediazioni e vie d’uscita. Nella moltiplicazione dei tavoli, è uscito di tutto, ma gli assi principali sono sempre quelli: serve una figura precaria per la didattica, che sostituisca gli rtd-A, e serve una figura di ricerca post-doc che costi meno del contratto, come il vecchio assegno. All’interno di questo quadro, le soluzioni possono essere diverse, dall’aggiungere obblighi di insegnamento ai contrattisti alla riproposizione del vecchio assegno sotto forma di «incarico» o «indennità». Da una parte, non si tratta di veri tentativi di mediazione, perché non accolgono nessuna delle richieste formulate in questi mesi e non prospettano a nessuno un miglioramento della propria condizione, ma al massimo un peggioramento attutito. Dall’altra, continuano ad andare a sbattere con il rischio di reversal segnalato dalla Commissione europea, e quindi a durare poche ore, come nel caso dell’emendamento apparso qualche giorno fa al Senato, firmato tra gli altri dal senatore Adriano Galliani, la cui expertise in trequartisti brasiliani non è stata sufficiente a evitare che l’emendamento fosse accantonato prima ancora di essere discusso.
Insomma, non se ne esce. A meno di assumere il dato che la ricerca è lavoro, che il lavoro va riconosciuto come tale (e quindi contrattualizzato), e che il costo del lavoro è un investimento su chi lo compie. L’idea che il sistema universitario italiano si possa reggere, ai suoi livelli attuali di didattica e ricerca, solo se a decine di migliaia di persone non sono riconosciuti diritti, tutele e livelli di retribuzione paragonabili a quelli di qualsiasi altro posto di lavoro, anche precario, e che chi lavora nell’università debba difendere questo sistema come il migliore dei mondi possibili, o escogitare stratagemmi normativi sempre nuovi per muoversi al suo interno, pena far crollare tutto, è pura propaganda. Che si scontra, prima ancora che con la materialità delle vite precarie, con le condizioni minime poste dalla Commissione europea per finanziare il Pnrr. Basterebbero investimenti pubblici anche molto limitati per risolvere gran parte delle questioni di cui si sta discutendo. Basterebbero 300 milioni di euro all’anno (meno di quanto il governo ha stanziato per il solo grant Fis) per convertire in contratti di ricerca tutti gli assegni oggi in vigore. Basterebbe decidere che l’università, se ci interessano didattica e ricerca, merita investimenti, per permettere a decine di migliaia di persone il cui lavoro è già, di fatto, da anni, stabile e permanente, di avere contratti di lavoro altrettanto stabili e permanenti.
Non spegnere la luce
Non è banale che chi lavora all’università, e lo fa con contratti precari, scelga di scioperare. Scarsa sindacalizzazione, frammentazione, competizione interna, ricattabilità, economia della promessa, per diverse figure il dubbio che lo sciopero sia effettivamente possibile: le condizioni avverse sono note. E non è stata facile, nell’equilibrio tra i vari pezzi più o meno organizzati, neanche la costruzione di questo sciopero, che è solo un primo passo. Uno sciopero parziale, sia perché coinvolge solo il personale a tempo determinato, con gli strutturati in una posizione di supporto, sia perché il radicamento del movimento ha ancora bisogno di crescere. Però, proprio per affermare che la ricerca è lavoro e come tale va inquadrata, è uno sciopero. È la scelta di battere un colpo, di ribellarsi allo stallo del lungo assedio, di sottrarsi al gioco degli escamotage normativi a parità di bilancio e di mettere in campo la forza derivante dal proprio lavoro quotidiano, dal proprio contributo a didattica e ricerca.
È l’invito a non spegnere la luce su quello che sta succedendo nell’università. A non lasciar affondare la discussione tra emendamenti e subemendamenti, nell’attesa che magari un bel decreto estivo risolva tutto d’imperio. Ed è la richiesta di accendere la luce sul lavoro del gruppo ministeriale che da mesi è impegnato a scrivere un’altra grande riforma dell’università, senza che la comunità accademica ne sia minimamente coinvolta.
Quello che sta succedendo in queste settimane negli Stati uniti, con le più grandi e prestigiose istituzioni universitarie del pianeta ridotte a mercanteggiare sul livello di repressione politica che sono disposte a esercitare su studenti e docenti in cambio del mantenimento di un minimo livello di finanziamento pubblico da parte dell’amministrazione Trump, dovrebbe far riflettere molti. Quando un governo mette in atto la strategia dell’assedio, nei confronti di un’istituzione pubblica, è perché ha intenzione di piegarla e disciplinarla. Come già avvenuto, del resto, sotto il governo Orbán. È davvero quello ungherese e trumpiano il modello di università che abbiamo in mente in Italia?