Ciao Maurizio, hasta siempre

di Loris Campetti /
30 Novembre 2024 /

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Un ultimo Negroni, ben fatto, un terzo un terzo e un terzo, e poi l’ultima partita dell’amata Virtus Bologna finita male per soli 3 punti, ma se c’è una cosa che la nostra generazione di romantici rivoluzionari ha imparato a incassare sono le sconfitte, nel basket come in politica, tanto poi si riparte e ci si prova ancora. Infine, a letto, inforcati gli occhiali su un libro che parla di Palestina. A questo punto Maurizio ha deciso di spiccare il volo verso chissà dove per sconfiggere la malattia che voleva piegarlo, umiliarlo. L’ha fregata, è tornato libero senza neanche farsi accompagnare in Svizzera come aveva immaginato, visto che qui da noi neanche la libertà di decidere l’ultimo viaggio ci è data. Maurizio Matteuzzi ci ha lasciati soli nella notte tra giovedì e venerdì, un infarto ha posto fine a un futuro di sofferenze che avrebbero offeso la sua dignità. Facile dirlo, un po’ meno scriverlo cercando di non farsi sopraffare dal dolore.

Maurizio era un uomo buono, gentile, colto, autoironico, a lui erano estranee l’ipocrisia e il politically correct. Era contro ogni dittatore, certo, ma capace di vedere l’imbroglio dietro le democrazie importate, nell’Iran dello Shah alla cui caduta aveva assistito e plaudito. Chi l’ha detto che gli Ayatollah sono peggio della dinastia Pahlavi? O che Saddam è peggio dell’ordine occidentale o Milosevich più schifoso della guerra umanitaria a colpi di bombe intelligenti? O che qualsiasi soluzione sarebbe stata meglio di Gheddafi, per i libici e per noi? Si litigava, ci si accapigliava persino, ma io non potevo che prendere appunti, capire il significato reale delle sue parole, di chi non stava con Putin e tanto meno con Zelensky. Maurizio ha raccontato guerre, conflitti. Pacificazioni, era all’incoronazione – mi si passi il termine – di Mandela nel Sudafrica del post apartheid. Era alla sconfitta che forse non c’è mai stata di Pinochet e ce l’ha raccontata con la solita passione e un po’ di sarcasmo. Quando ho sentito Giorgia Meloni insultare la sinistra che lei chiama gauche caviar ho pensato al ritorno di Maurizio dalla Tehran liberata dallo shah, aveva con se un gatto che sosteneva di aver salvato prendendolo dalla residenza di Reza Pahlavi e con una cofana di caviale su cui ci avventammo nella sua casa di Trastevere.

In quella casa, in un piccolo terrazzo tra i tetti abbiamo conosciuto Osvaldo Soriano arrivato a Roma per raccontare sul manifesto i mondiali di calcio del ’90 ma anche il padre di Maurizio che quando era di buon umore intonava un’opera lirica. Ma abbiamo conosciuto anche Kelly, la sua compagna arrivata direttamente a Roma dalla rivista di Garcia Marquez a Bogotà. Maurizio ha fatto diventare di casa al manifesto Galeano, Sepulveda, Saramago. Erano anni in cui ogni quotidiano italiano invidiava la sezione esteri del manifesto, di cui Maurizio è stato uno dei più bravi animatori. Da Montevideo, da Copacabana, dalle mille guerre, da Trastevere.

Ultimamente viveva in una casa tra piazza Vittorio e Santa Maria Maggiore, a Roma. Le manifestazioni sindacali, o femministe o per la Palestina le guardava passare affacciandosi dal suo terrazzo al quarto piano senza ascensore. E scherzando ma sempre con la faccia seria mi rimproverava se i cortei non passavano di lì, come se io avessi potuto decidere al posto di Landini, dei giovani palestinesi o delle transfemministe.

Maurizio è stato uno degli animatori di quello straordinario gruppo di giornalisti che nella seconda metà del secolo scorso hanno raccontato il mondo al colto e all’inclita. Lui l’ha fatto da una piccola orgogliosa testata di sinistra in cui è rimasto fino a quando ha voluto. Perché è stato sempre e solo lui a decidere della sua vita. A chi resta, a chi gli ha voluto bene, lascia un vuoto incolmabile. Un abbraccio a Sara, a Luca, a Kelly. Ciao Mauri, hasta siempre.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 30 novembre 2024

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