Sui comportamenti errati come causa degli infortuni

di Maurizio Mazzetti /
27 Ottobre 2024 /

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E’ elemento acquisito tra studiosi e addetti ai lavori che cause della maggioranza degli infortuni sono i comportamenti errati – errori – omissivi (non si è fatto quel che si doveva) o commissivi (si è fatto qualcosa che non si doveva fare). Qualche studio statistico, peraltro non recente, stimava addirittura il comportamento errato come causa del 90% degli infortuni, con il resto attribuibile al cosiddetto caso fortuito (concetto, peraltro, abbastanza vago) o a rotture, malfunzionamenti, blocchi di macchine e dispositivi. 

L’errore causa dell’infortunio non è però solo quello di chi l’infortunio lo subisce, per quanto spesso lo si trascuri o addirittura neghi (magari interessatamente, vedasi il  caso del bracciante Satnam Singh, articolo del 30 giugno scorso). Possono commettere errori altri lavoratori, come di tutti gli altri attori della sicurezza aziendale: esemplificando sommariamente, del datore di lavoro che non ha fatto la formazione, non ha fornito i DPI – Dispositivi di Protezione Individuale – , utilizza impropriamente il lavoratore (mansioni, orari); del RSPP aziendale  – Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione –  che non valuta correttamente il rischio e/o non fa predisporre dal datore di lavoro le misure di sicurezza idonee; del Medico Competente che non ha valutato correttamente le condizioni del lavoratore e quindi non ha prescritto limitazioni/esclusione da certe mansioni, e simili.  E spesso la responsabilità dell’infortunio si è vista addossata unicamente al lavoratore . Ma non può essere così: oggi tecnologia, formazione, addestramento e tutta una vasta gamma di strumenti organizzativi consentono, se non di eliminare alla radice la possibilità di errore, quantomeno di ridurne frequenza e entità delle conseguenze. E il non averli adottati rimane responsabilità del datore di lavoro, come peraltro da sempre stabilito dall’articolo 2087 del Codice civile, nonché, da ultimo, confermato proprio in materia di errore da una recentissima sentenza della Sezione Penale della Corte di cassazione, la 31661 del 02 agosto 2024. Essa testualmente recita che “L’errore del lavoratore è un fattore di rischio che rientra tra quelli di cui il datore di lavoro deve farsi carico, perché la normativa antinfortunistica mira a tutelare l’incolumità dei lavoratori anche dai rischi derivanti da sue disattenzioni e imprudenze ripetitività dei gesti aut similia”

Come si evitano detti comportamenti errati e quindi non sicuri?  Per tutte le suddette figure con qualche responsabilità gestionale, la normativa prevede obblighi e relative sanzioni. Sanzioni amministrative, civili, penali, normalmente di tipologia e entità crescente: quanto più gravi i comportamenti indebiti, peggiori le conseguenze. Lo strumento non può però coprire tutti gli errori, che non sono necessariamente “colpevoli”; e può essere sproporzionato ed inadatto, oppure vessatorio se utilizzato per i comportamenti errati di chi lavora. Certi comportamenti errati nel lavoro dipendente possono, ma non sempre, essere fonte di responsabilità disciplinare per il lavoratore nei confronti del datore di lavoro, esempio tipico il mancato uso dei prescritti DPI o la rimozione/non applicazione di dispositivi o procedure di sicurezza pur forniti o conosciute; ma, pur in assenza di dati, è lecito dubitare sulla efficacia di tale responsabilità, perché l’esperienza indica che più spesso è il datore di lavoro a tollerare, quanto non a indurre/obbligare, tali comportamenti per abbassare tempi e costi ed aumentare la produttività.

Se per combattere un fenomeno negativo bisogna prima conoscerlo,  sono disponibili varie  metodologie di analisi e classificazione in materia di errori comportamentali in senso lato, metodologie applicabili peraltro appunto anche alla sicurezza sul lavoro. Per chiarezza e facilità di comprensione per non addetti ai lavori,  esporrò qui, tra le tante, e in estrema sintesi, le teorie degli errori comportamentali dello studioso  James T. Reason, come esposta nel libro “L’Errore umano” EPC editore 2014, che utilizza le ricerche di un altro studioso, Jens Rasmussen, cui dedica lo stesso libro. E mi scuso in anticipo per qualche inevitabile tecnicismo anglosassone ….

Secondo l’autore, “L’errore umano è inteso come fallimento nel portare a termine un’azione precedentemente pianificata (errore di esecuzione) oppure come uso di una pianificazione sbagliata per raggiungere un certo obiettivo (errore di pianificazione)”.  Gli errori sono classificati in tre tipi; slips, lapses and mistakes, vocaboli traducibili dall’inglese, magari approssimativamente, con sviste, dimenticanze, errori.

  • Slip: Il piano d’azione è corretto, ma una o più  azioni per realizzarlo è eseguita in modo sbagliato; di solito l’errore slip è tipico delle azioni ripetitive ed automatiche che non richiedono particolare concentrazione, ad esempio martellarsi un dito anziché il chiodo, tagliarsi mentre si affetta della carne (NB: le mani sono le parti del corpo più spesso interessate dall’infortunio), inciampare in un ostacolo, far cadere un oggetto sui piedi, posizionare male un pezzo da lavorare …
  • Lapse: Il piano d’azione è corretto, ma una o più azioni che lo compongono è omessa: non indosso/uso correttamente i DPI che pure ho, non mi assicuro che ci siano altri in una posizione pericolosa, salto uno o più passaggi delle procedure di sicurezza prima di avviare una macchina o compiere altre operazioni, e via così.
  • Mistake: Le azioni che compongono il suo piano sono eseguite correttamente, ma è il piano ad essere sbagliato; ad esempio un dispositivo di protezione individuale o collettivo non è adeguato al la sollecitazione che dovrebbe sopportare, o le procedure di sicurezza non contemplano tutti i rischi, sono inaffidabili, difettano di tempi adeguati e controlli incrociati (pensiamo ai recenti investimenti di lavoratori impegnati nelle manutenzioni ferroviarie a Brandizzo e San Giorgio in Piano, o alla emergenza nella centrale di Bargi).

Ma perché si commettono gli errori?  Una risposta la dà Rasmussen con la sua teoria di come ci si approccia e si gestiscono alle attività, comprese quelle lavorative. Distingue infatti:

  • Attività automatiche (Skill) – comportamenti stereotipati, messi in atto senza riflettere e in maniera automatica, con minima attenzione ed energia;
  • Procedure (Rule = regola) – in situazioni conosciute definiscono le azioni da compiere in maniera strutturata quando non c’è la piena padronanza di come procedere, come nel precedente tipo di azioni automatiche Skill;
  • Conoscenza (Knowledge) quando ci si trova in situazioni nuove mai affrontate, e si devono progettare azioni per ottenere un risultato attingendo al proprio bagaglio di competenze ed esperienza.

Ed ecco che abbiamo Errori Skill-based, cioè che riguardano la performance effettiva eseguita con il corpo in termini di capacità di coordinazione, reattività e riflessi, con errori di tipo Slip e Lapse;  Rule-based mistakes: errori dovuti alla scelta della regola sbagliata a causa di una errata percezione della situazione oppure  per uno sbaglio nell’applicare una regola. – Knowledge-based mistakes: errori dovuti alla mancanza di conoscenze – nel nostro caso, di formazione generale e specifica nonché di addestramento –  o alla loro scorretta applicazione (magari per incapacità di comprenderle)

Seguono le procedure – Rules – da quelle più semplici e intuitive, magari obbligatorie per la normativa (metti i guanti, ferma la macchina, stacca la corrente …)  fino ai più sofisticati Sistemi di Gestione della Sicurezza – SGSL – certificati, con tutto il loro apparato di procedure e di metodologie di apprendimento, perché il lavoro è sempre svolto in maniera più o meno organizzata, e quel che connota una qualsiasi organizzazione è appunto il sistema di regole che la fanno funzionare (più o meno bene è altro discorso). Ovviamente le regole sono tanto più numerose quanto più è complessa l’organizzazione, e già si è detto (articolo di questa rubrica del 09 luglio 2023) ) che regole di sicurezza che vadano oltre l’obbligo normativo, inevitabilmente strutturate, sono non facili da adottare per imprese piccole e medie, in Italia la maggioranza. Oggi, inoltre, a rafforzare il sistema di regole c’è la tecnologia, che consente sempre più spesso (se adottata …) di evitare gli errori, di qualsiasi tipologia, o ridurne le conseguenze, anche con realtà virtuale/aumentata (lasciamo stare AI per il momento). E pur senza sopravvalutarla, in molti degli infortuni collettivi e/o individuali accaduti l’adozione di soluzioni tecnologiche appropriate avrebbe evitato gli infortuni stessi; si pensi all’edilizia, alla manutenzione ferroviaria, alle lavorazioni con macchine automatiche, macchine operatrici, trattori.  Attenzione, esistono anche regole implicite, non formalizzate, potremmo dire di semplice buon senso o di elementare prudenza: sempre a Bologna, in occasione dell’alluvione di qualche giorno fa, si sono visti riders pedalare sotto la pioggia torrenziale, con l’acqua ai mozzi delle biciclette, per consegnare come di consueto qualche pasto a domicilio, come se ciò non costituisse un rischio aggiuntivo, e  grave. E solo una piattaforma (Just Eat, non a caso l’unica che stipula con i riders contratti di lavoro subordinato veri e propri) ha interrotto l’attività; e sul punto c’è un esposto alla Magistratura da parte della CGIL.

Quanto ai  Knowledge-based mistakes, – errori da ignoranza -, non è solo questione di qualificazione e formazione professionale, ma del livello di istruzione e delle competenze in senso ampio, linguistiche in primo luogo; ed è inevitabile pensare ai più elevati indici infortunistici dei lavoratori stranieri rispetto agli italiani, anche a parità di rischio. Peraltro, la cronaca ci fornisce purtroppo numerosi esempi in cui l’infortunio, magari anche mortale o collettivo, si verifica per l’ignoranza delle norme di sicurezza anche più elementari: tipico esempio sono le morti da intossicazione in ambienti confinati come silos, fogne, vasche,  per accesso senza alcuna protezione; anzi prima ancora senza alcuna consapevolezza del rischio, e con le tragiche catene delle morti di chi, ugualmente impreparato e non equipaggiato,  tenta il soccorso.

Si diceva all’inizio che gli infortuni per malfunzionamenti e simili di macchine ed impianti sono una minoranza. Ma anche in quest’ultima casistica abbiamo degli  errori comportamentali, anche se lontani nel tempo e magari anche nello spazio: di progettazione, scelta dei materiali, costruzione, messa in opera, manutenzione e via elencando. Sono quelli che Reason chiama Errori latenti, perché non immediatamente evidenti e che  provocano l’infortunio per una concatenazione di comportamenti che vanificano le Rules e Knowledge, regole e conoscenze,  pure esistenti, che dovrebbero evitarli. La cronaca ce ne fornisce ancora un esempio: pochi giorni fa, in uno stabilimento della multinazionale giapponese Toyota a Bologna, è esploso un boiler esterno, non direttamente collegato alla produzione ma alla regolazione della temperatura, con conseguente crollo di parte dell’edificio e con due vittime e undici feriti, due gravi. Ed è accaduto alla Toyota, una azienda avanzata e strutturata, a Bologna anche sindacalizzata, azienda che per prima negli anni ’80 del secolo scorso ha adottato quelle tecniche di gestione che vengono chiamate Qualità Totale (non a caso altrimenti dette Toyotismo); non in una azienda familiare che opera in uno scantinato senza agibilità con lavoratori in nero immigrati senza permesso di soggiorno.

Tirando un minimo le somme, è evidente che formazione, addestramento ed esperienza individuali (mai da sottovalutare, come dimostra la più elevata percentuale di infortuni nelle classi di età di lavoratori più giovani) sono il primo elemento su cui agire. Ma la formazione obbligatoria prevista dal tuttora vigente (pur scaduto nel 2021…) Accordo Stato Regioni del 2011, continua a ragionare in termini di numero di ore di formazione con lezioni frontali considerate sufficienti, e una formalizzazione dell’addestramento con relativa registrazione divenuta obbligatoria solo nel 2022. Una maggior attenzione alla efficacia didattica è quindi lasciata alle pur meritorie e numerose metodologie volontarie (BBS, sicurezza partecipata, focus group e via enumerando), metodologie che però, per complessità e costi,  adotta chi vuole o semplicemente può. E mi astengo dal commentare ora la “bozza definitiva” (sic!) di rinnovo del suddetto Accordo, in circolazione dalla scorsa primavera ma non ancora in vigore; se ne riparlerà quando lo sarà. Valuti comunque chi legge, e che magari avrà partecipato alla formazione obbligatoria ove lavora, quanto la formazione ricevuta abbia avuto capacità di evitare comportamenti errati nell’accezione descritta sopra, o comunque si sia dimostrata di efficacia puntuale e concreta sulle diverse situazioni.

Non va poi sottovalutato il ruolo delle condizioni ambientali sugli errori di tipo Slip o Lapses. Durata dell’orario di lavoro, magari notturno, fatica, rumore, temperatura, illuminazione, postura, ritmi di produzione imposti o da raggiungere (oggi sempre più spesso dettati da algoritmi), stress nelle sue varie forme (non ultimo il cosiddetto tecnostress dall’uso sempre più massiccio di tecnologie informatiche), la possibilità di pause e/o di ristoro (compresi il tipo di alimentazione e di bevande, tipo quelle alcoliche,  che si consumano nelle pause stesse o prima del lavoro), e ogni altro elemento che fa diminuire il livello di attenzione esplicano una propria efficacia negativa, con comportamenti errati più probabili e quindi minor sicurezza. Ugualmente impossibile trascurare, negli infortuni in itinere e in quella da circolazione, il ruolo dei mezzi usati, delle reti di trasporto e relative condizioni, delle condizioni atmosferiche nonché, anche qui, fatica, stress, orari  ….

Infine, ci sono le violazioni delle regole, consapevoli, coscienti, intenzionali. Di violazioni  coscienti ne è piena la cronaca: lavoratori non formati (magari perché in nero…), DPI non forniti, DVR non aggiornati con mancata analisi dei rischi, procedure di emergenza non approntate o non fatte conoscere, attrezzature inadeguate o con dispositivi di sicurezza rimossi o inabilitati o non presenti, mancanza di pause, eccetera. Per quanto il confine con la semplice ignoranza, quindi con errori Knowledge based, sia talvolta dubbio, sono chiarissime le ragioni di queste violazioni: necessità di concludere le operazioni nel più breve tempo possibile, volontà di aumentare il profitto e di ridurre i costi, uso abnorme del lavoro precario (su cui quindi non si investe)  o del tutto irregolare, autosfruttamento dei lavoratori autonomi. E’ noto che troppe imprese riescono a competere solo sui ridotti costi del lavoro e della sicurezza, e  per qualità di processi/prodotti; e il fenomeno è amplificato nelle catene di appalti e subappalti, nonché, per chi vi è soggetto, dalla competizione internazionale con paesi ove costo del lavoro e obblighi di sicurezza sul lavoro ed ambientale sono minori.  Per combattere le violazioni consapevoli  occorrono almeno norme severe ma applicabili, controlli (in numero adeguato) e sanzioni (non solo commisurate all’entità del danno e a volontarietà e consapevolezza del comportamento errato); ma soprattutto certe e tempestive.  E quelle penali, con tutte le garanzie e i tempi lunghi che un processo penale giustamente comporta, appaiono realmente utili solo nei casi più gravi. Purtroppo, gli ultimi provvedimenti normativi, dalla patente a crediti (di cui ho già discusso QUI), alle nuove indicazioni sull’attività di vigilanza, sembrano pensati piuttosto a proteggere le aziende da ispezioni e sanzioni più che a assicurare l’efficacia di norme e vigilanza. E mi sbilancio a dire che non avranno alcun effetto prevenzionale.

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