È morto Totò Schillaci. Il calciatore che ha fatto sognare un intero paese durante le notti magiche di Italia 90. L’uomo che poteva aiutarci a fermare l’ascesa dell’allora nascente Lega Nord, con tutto quello che ne sarebbe conseguito. Invece lo abbiamo lasciato solo, e ha perso. E la sua sconfitta è stata la nostra.
Totò Schillaci si è spento a 59 anni dopo una lunga malattia all’Ospedale Civico di Palermo. Pochi chilometri di distanza dal Centro di Espansione Periferica, il quartiere popolare dove era nato. Parallelepipedi di cemento tirati su coi soldi pubblici e subito abbandonati a loro stessi, che avevano il proposito di spostare le classi svantaggiate dal centro alla periferia e imporre le mani sulla città dello scellerato patto edilizio tra politica e criminalità organizzata.
Un’infanzia dura quella nel Cep, da lui spesso raccontata, che lo segna nel corpo e nei bisogni. Anni dopo di lui Gianni Mura scrive: «Schillaci ha occhi cagneschi in cui s’allarga la violenza di tutti i giorni, fatta e subita, alla stato brado». Sono gli occhi increduli e spiritati con cui festeggia i cinque gol che porteranno l’Italia nella semifinale mondiale poi persa contro l’Argentina. Un sesto gol nella finale per il terzo posto con l’Inghilterra. E quelli con cui porta avanti la vita dopo il calcio, tra politica e televisione. Ma diventano occhi stanchi, che imitano quelli che fecero sognare un Paese.
Abbandonata la scuola per inseguire il pallone, il giovane Totò ha la grande occasione al Messina che guidato da Franco Scoglio sale dalla Serie C2 alla B. E a quell’occasione si aggrappa, con tutta la forza di un physique du rôle da impiegato con cui sarà pronto a identificarsi l’intero Paese. Nella stagione 1988-89, con Zdenek Zeman in panchina, Totò è capocannoniere della B con 23 gol. Non è un anno qualsiasi.
È l’anno in cui nasce ufficialmente la Lega Nord, il partito settentrionale che all’apice del riflusso si propone di intercettare la rabbia anti-meridionale che infetta il Nord del Paese. Quando la stagione successiva Totò passa alla Juventus, alle amministrative a livello nazionale la Lega prende il 4%. Ma in Lombardia è già il secondo partito, davanti al Pci e subito dietro la Dc.
In Piemonte non è ancora così forte, ma il sentimento che la sorregge è già potentissimo. E infatti Totò alla Juve non è accolto bene. Volevano uno straniero da mettere a fianco di Casiraghi, racconterà, e in effetti a Torino ero arrivato da straniero: da meridionale. La società, sempre attenta all’etichetta padronale, lo obbligherà addirittura a frequentare un corso di lingua italiana.
L’operazione di comprare giocatori meridionali per costruire consensi in fabbrica non funziona più. Il fordismo è sul viale del tramonto, e l’industria culturale necessita nuovi paradigmi. Totò resiste anche al Nord, non smette di segnare e con 15 gol in 30 partite si guadagna l’inaspettata convocazione in Nazionale. Anche qui doveva essere riserva, dietro a Vialli e Carnevale, ma l’ingresso con gol nella prima partita contro l’Austria, bloccata sullo 0 a 0, cambia la sua e la nostra storia.
Totò segna anche a Cecoslovacchia, Uruguay, Irlanda, Argentina e Inghilterra. La sua immagine da impiegato, né eroe né bandito, ne fa subito l’idolo di un intero Paese, che insieme a lui sogna inseguendo un gol al ritmo delle notti magiche di Gianna Nannini e Edoardo Bennato: un ritornello seducente che copre il rumore della stagione degli appalti d’oro per il Mondiale. Uno sperpero di miliardi buttati a discapito di welfare, scuola e sanità, che le casse pubbliche finiranno di pagare trent’anni dopo. Perché Totò è l’eroe di un’Italia che perde, in campo e fuori. E questo non gli sarà mai perdonato.
La rabbia reazionaria che dopo il riflusso non trova sfogo materiale contro i padroni si indirizza verso due categorie dello spirito: i corrotti e i terroni. La Lega Nord è eccezionale nell’intercettarle entrambe. E Totò, l’eroe mancato, ne subirà le conseguenze. I titoli dei giornali sul parente che ruba le gomme a un’Alfa 33 si trasformano in un coro che si sente in tutti gli stadi d’Italia.
È il “terrone” che ruba e non lavora. La vicenda dell’incidente stradale di Lentini mentre va trovare la prima moglie di Totò ne fa il «cornuto» di un film di Lando Buzzanca. Quel «ti faccio sparare» detto a un avversario porco prima di entrare nel tunnel, dove di solito si dice e si sente di peggio, lo etichetta come «criminale».
Terrone, cornuto e criminale. Nel calcio italiano non c’è più posto per lui. E dopo altre due stagioni mediocri con la Juve e una con l’Inter va a giocare in Giappone. Lontano da tutto. È l’aprile del 1994. Nemmeno un mese prima alle elezioni politiche la Lega Nord, insieme a Forza Italia e ai postfascisti di Alleanza Nazionale, si era presa il Paese.
Se Totò aveva perso, noi avevamo perso molto di più. Anche la sua carriera post calcistica racconta molto di noi. A un certo punto Totò si candida con Forza Italia, quella che aveva rubato il suo e il nostro futuro. Poi comincia a partecipare a programmi, fiction e reality show di dubbio gusto, sempre sgranando gli occhi.
Ma non è più lo sguardo sorpreso di chi non crede di potere meritare quello che si è conquistato, e neppure quello cagnesco della violenza subita raccontata da Mura. È la stanca replica postmoderna di un’immagine che gli ha portato fortuna. E che un paese derelitto e sempre più disgregato, non più incattivito con i terroni ma con i migranti, subito trasforma in dolce ricordo.
Ma questa non è l’unica sineddoche della nazione che ci ha regalato la splendida vita di Totò. Schillaci è la bandiera d’Italia quando già ci si lamenta che nel calcio non esistono più le bandiere, una litania che va avanti da sempre e serve solo a rinfocolare un sentimento reazionario come la nostalgia.
Le bandiere ci sono, anche oggi, solo che ogni tanto sono ammainate per ragioni incomprensibili. Come non è successo al Maldini giocatore, compagno di squadra di Totò a Italia 90, ma è poi successo al Maldini dirigente. O come è successo ieri, nelle stesse ore in cui moriva Schillaci, a Daniele De Rossi. Dopo avere dedicato diciannove anni da giocatore alla Roma, di cui è il secondo giocatore in assoluto per presenze con 616, De Rossi era stato chiamato sulla panchina della squadra giallorossa a gennaio per fare da parafulmine all’esonero di Mourinho.
Ieri, dopo una partenza lenta dovuta a un mercato incomprensibile, è stato licenziato in tronco. Al suo posto Ivan Juric. Gli idoli si innalzano e poi si bruciano, gli eroi si costruiscono e poi si abbandonano, le bandiere si sventolano e poi si ammainano. Così è stato e così sempre sarà. Nessuna nostalgia per ciò che non è mai stato. L’importante non è rimpiangerle dopo, ma ascoltarle quando sventolano.
Se lo avessimo fatto, Totò non avrebbe perso la sua battaglia contro le pulsioni razziste e reazionarie condensate dalla Lega Nord. E noi con lui. Invece è rimasto un terrone, un cornuto e un criminale. E noi con lui.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 settembre 2024