Nel precedente articolo pubblicato domenica 2 giugno si era esposto cosa si intende per lavoro a distanza, o meglio cosiddetto lavoro ibrido (cioè svolto solo parzialmente in locali nella disponibilità del datore di lavoro) in ottica europea, quali sono le diverse forme che esso può assumere. Trattiamo oggi dei relativi rischi.
È evidente, come l’esperienza del lock down durante la pandemia ha dimostrato, che vengono meno, o si riducono drasticamente, tutti i rischi infortunistici legati alla mobilità casa lavoro, cioè originati dalla circolazione quali che siano i mezzi utilizzati. Anche lo stress legato alla mobilità (tempi, ritardi, condizioni nel traffico o dei mezzi pubblici) diminuisce grandemente, con riconquista magari di un tempo di vita che in precedenza non era strettamente lavorativo ma comunque indissolubilmente legato al lavoro stesso, come ogni pendolare sa bene. Analogamente, diminuiscono fino anche ad annullarsi i rischi biologici, sia sul luogo di lavoro, sia dipendenti dall’uso di mezzi pubblici.
Un primo gruppo di rischi, comuni a quelli presenti sul luogo di lavoro ma che risentono del fatto che i luoghi in cui si lavora, vedasi per esempio nel lavoro da casa, ma ancor più per quello mobile, hanno originariamente destinazione diversa, sono quelli fisici: temperatura, illuminazione, orientamento della postazione di lavoro rispetto alla fonte luminosa, ergonomia della stessa, maggior o minor isolamento da altri spazi con destinazioni diverse, rumore, umidità, ricambio d’aria. Tutto ciò può condurre, specie nelle forme di lavoro a distanza meno flessibili quanto ad orari, modalità, reperibilità, a eccessiva sedentarietà, posture incongrue con riflessi su schiena, collo, arti superiori, affaticamento visivo da uso improprio e/o troppo prolungato dello schermo, e in qualche caso uditivo, pause (anche per bisogni fisiologici) ridotte. Ed è ormai ampiamente riconosciuto che il lavoro da casa comporti tali rischi fisici più elevati rispetto al lavoro in loco, a causa delle condizioni ergonomiche di solito più scadenti della postazione di lavoro. E ricordiamo nuovamente tutte le difficoltà della valutazione dei rischi, degli interventi per una loro eliminazione/riduzione, e dell’applicazione degli standard di SSL da parte di datori di lavoro, dei rappresentanti dei lavoratori o delle autorità statali nelle case dei telelavoratori (sul punto esiste ampia documentazione dell’Agenzia UE per la sicurezza sul lavoro già dal 2021 e 2022). In particolare, i dati EWCS (European Working Conditions Survey) mostrano che i telelavoratori devono affrontare problemi fisici simili a quelli di altri lavoratori in occupazioni analoghe: disturbi muscolo-scheletrici localizzati per lo più agli arti superiori ed all’addome, affaticamento degli occhi e mal di testa; tutti fattori che possono presentarsi con frequenza ed intensità anche maggiori rispetto al lavoro in loco.
Gli altri rischi di significativa rilevanza, che correttamente si inquadrano nella categoria dei rischi cosiddetti psicosociali, presentano in primo luogo una caratteristica pressoché comune ed universale: ad eccezione dei poco frequenti casi di lavoro in luoghi di lavoro diversi dai soliti, messi a disposizione dal datore di lavoro, chi lavora a distanza lo fa normalmente da solo e fisicamente separato da colleghe e colleghi. L’uomo è un essere sociale per natura, scriveva già Aristotele, ed il lavoro storicamente è sempre stato espressione di tale socialità; e con il lavoro svolto individualmente che è stato, se non l’eccezione, certo una modalità minoritaria di esecuzione della prestazione lavorativa. Nei luoghi di lavoro fisici non è mai stato solo lavoro: si sono sempre costruite relazioni, identità e appartenenze (si pensi alla fabbrica fordista), amicizie, amori (anni fa qualche ricerca indicava come la maggioranza relativa dei matrimoni in Italia vedeva i coniugi essersi conosciuti sul lavoro); all’inverso odi e conflitti, e quant’altro. Nel lavoro a distanza odierno la comunicazione avviene via telefono, mail, videoconferenze, chat, ambienti virtuali e files condivisi, e quanti altri mezzi la tecnologia odierna mette a disposizione; ma è esperienza comune, ed acquisizione consolidata negli studi, che tali modalità rendono più difficile una socialità e impoveriscono la comunicazione, la quale notoriamente è massicciamente extra verbale (mimica facciale, gestualità, prossemica, sguardo, tono di voce, colorito del viso, manifestazioni inconsce come sudorazione, rossori, tremori, e mi fermo qui). E non possono essere sostituiti dagli emoji che usiamo anche noi sullo smartphone, emoji che (azzardo!) forse sono un tentativo di restituire alla comunicazione qualche elemento che quella verbale, scritta o orale che sia, non consente, e che quella a distanza, a voce o video, non può assicurare pienamente. L’isolamento, per quanto talvolta gradito o preferibile quando non indispensabile, se troppo prolungato o peggio totale comporta rischi di desocializzazione e minor benessere sul lavoro, difficoltà di collaborazione, fraintendimenti, fatica psicologica; e gli studi di storia del lavoro identificano questo isolamento come uno degli aspetti peggiori del lavoro fordista a domicilio, ampiamente diffuso in Italia ancora negli anni 70 del secolo scorso e in qualche caso anche oltre. Il rischio di desocializzazione è accresciuto dalla distanza fisica; peraltro, osservo che anche “troppa” socializzazione, aumenta, come dimostra la declinante fortuna degli open space aperti e condivisi in favore di spazi propri, che, non caso, spesso chi lavora personalizza (foto, bandierine, gadgets, ninnoli, poster): siamo, o siamo diventati, animali territoriali, oltre che sociali.
L’isolamento fisico, solo parzialmente compensato dalle comunicazioni telematiche, aggrava inoltre tutta una serie di rischi già presenti anche nel lavoro in loco: in primo luogo il cosiddetto tecnostress, cioè la necessità di operare attraverso, e esclusivamente, strumenti tecnologici spesso rigidi, in costante evoluzione, mutati spesso, con procedure di assistenza possibili solo in remoto, condizionati dalla stabilità e capacità/velocità delle reti e dall’affidabilità delle procedure informatiche. Tutti elementi il cui peso aumenta esponenzialmente (e negativamente) se poi il lavoro a distanza comporta, o consiste come nei call center virtuali, in una interazione con i clienti/utenti. Isolamento e tecnostress possono poi aggravare altri rischi comuni al lavoro in loco come la pressione sui tempi, sull’esecuzione corretta dei compiti o rilascio dei prodotti finali, sulle modalità di controllo a distanza del proprio operato, quest’ultimo tanto più pressante (e psicologicamente gravoso) quanto meno è possibile una auto-organizzazione del lavoro stesso. Inoltre, le difficoltà di adattamento a nuove tecnologie e/o procedure possono comportare, magari solo in una prima fase, diminuzioni quantitative e/o qualitative della prestazione, a fronte di richieste che rimangono immutate o addirittura il datore di lavoro ha elevato: e l’isolamento, con il mancato o difficile confronto/conforto con colleghe/i che il lavoro in loco consente, aumenta lo stress.
Altri effetti negativi del lavoro a distanza possono essere l’indebolimento del senso di appartenenza e della capacità di lavorare in gruppo (che, ove possibili/richiesti, sono fattori che diminuiscono lo stress ed aumentano il benessere lavorativo: che sarà anche funzionale alla produttività ma è anche interesse e beneficio per chi lavora). Si osserva inoltre che in certi contesti organizzativi, magari fortemente competitivi e fidelizzanti al proprio interno, quando il lavoro a distanza è una scelta (motivata magari da motivi familiari e di salute), ma diciamo subita dall’organizzazione, esso può portare a svantaggi nello sviluppo professionale e di carriera.
Gli elementi di maggior peso sono però, infine altri: in primo luogo, il prolungamento della giornata lavorativa ben oltre i limiti contrattuali, fino a far cadere i confini tra vita privata e vita lavorativa con tutto quel che ciò comporta per la vita familiare e affettiva del lavoratore. È un fenomeno che si è manifestato in maniera massiccia durante il lock down pandemico, anche per mansioni e professioni di non particolare specializzazione, con un alternarsi di tempi di lavoro e tempi di vita mobili, anzi liquidi, ed un generalizzato aumento del tempo dedicato lavoro. Ad esso si accompagna quella invasività del lavoro anche una volta terminato l’orario e l’orario del lavoro in loco, che si manifesta con telefonate, e-mail, chat a qualsiasi ora, e magari con un obbligo, per lo più implicito ma talvolta esplicito, di risposta immediata. La globalizzazione dell’economia, e i diversi fusi orari in cui in un luogo si lavora ed in altri si riposa (o si dovrebbe …), conduce ad un ulteriore allargamento del fenomeno, che riguardi il lavoro in loco come quello a distanza. Ma quest’ultimo, dal domicilio o mobile, diventa più conveniente per il datore di lavoro piuttosto che mantenere attiva un’unità produttiva, sicché (esempio reale) gli ingegneri indiani che forniscono assistenza on line a clienti del Midwest USA lo facciano, visti i fusi orari, da casa propria (oltre che ad aver dovuto “sporcare” il proprio inglese oxfordiano con la parlata strascicata dei loro clienti, altrimenti intimiditi …). Non è un caso che sempre più spesso normativa e contratti sanciscano espressamente il cosiddetto “diritto alla disconnessione”, cioè il diritto di chi lavora di non essere contattato né altrimenti tenuto a fare qualcosa in certe ore della giornata o nelle giornate di riposo/ferie. Il lavoro a distanza infine favorisce, anche non è necessariamente causa, il cosiddetto workaholism, cioè quella sindrome da dipendenza da lavoro (più frequente in professioni ad alto fattori di coinvolgimento e/o specializzazione) che rientra nella diagnosi dei disturbi ossessivi compulsivi: la persona prova, e soddisfa un bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, talmente tanto da relegare o addirittura annullare ogni altro piano della propria vita sociale e familiare, con inevitabili conseguenze su se stessa e sui propri familiari.
In secondo luogo, il lavoro a distanza enfatizza la questione del controllo di quanto e come si lavora, a partire dall’assegnazione dei compiti. Non è detto necessariamente che la presenza fisica consenta controlli più efficaci, e dall’altro lato, meno invasivi e più tollerabili per chi lavora (anzi, penserà sicuramente qualcuno, o molti, tra coloro che leggono). Ma nel lavoro a distanza la consapevolezza del controllo, e il fatto che, produzione a parte ove misurabile (ma nei servizi, settore di elezione per il lavoro a distanza, un ”prodotto” definibile e misurabile è raro e difficile da misurare) il controllo può essere sfuggente, imprevedibile, non necessariamente limitato agli orari di reperibilità che molte forme di lavoro a distanza prevedono. E questo aumenta la fatica psicologica e la pressione su chi lavora, tanto più se poi si verificano rallentamenti o problemi all’infrastruttura tecnologica che chi lavora a distanza subisce, ma che dovrà (o sente di dover …) motivare/giustificare.
Infine, i rischi del lavoro a distanza possono essere affrontati in un’ottica di genere? E per quel che riguarda i rischi psicosociali, sono comparabili, cioè maggiori, minori, uguali, a quelli del lavoro in presenza? Se ne parlerà nel prossimo articolo.