Aqueste latitudini, sotto il giogo patriarcale, dai tempi in cui si scriveva «la donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna» [Deuteronomio 22:5], la vita delle persone che infrangono le norme di genere non è mai stata «tutta in discesa». L’offensiva odierna, tuttavia, ha la peculiarità di essere più articolata.
Gli attacchi alla cosiddetta ideologia gender
A dispetto delle dubbie concessioni – tipo il battesimo per le persone trans – il Dicastero per la dottrina della fede nel recente Dignitas infinita ribadisce che «qualsiasi intervento di cambio di sesso, di norma, rischia di minacciare la dignità unica che la persona ha ricevuto fin dal momento del concepimento». Il documento conferma gli orientamenti della Chiesa cattolica e, a cascata, del governo guidato DAL Presidente del consiglio Giorgia Meloni. Nel mirino quindi, insieme al diritto all’aborto, alla presunta teoria gender nelle scuole, all’adozione delle coppie omogenitoriali, finiscono anche i percorsi di affermazione di genere e le carriere alias: l’agibilità, in definitiva, e l’esistenza stessa delle persone trans.
In questo quadro rientra anche la recente ispezione all’ospedale Careggi, sollecitata da un’interrogazione parlamentare del Senatore Maurizio Gasparri e caldeggiata da un nutrito cartello di associazioni transnegative, fondamentaliste cattoliche e antiabortiste. Ancora una volta l’intento è di esautorare le scelte autodeterminate che le persone compiono per sé, sui loro corpi e per le loro esistenze. E ancora una volta la tattica è quella di portare chiasso e clamore laddove i soggetti non hanno voce. Così come in funzione anti-aborto la destra cattofascista ventriloquizza i feti, allo stesso modo si erge a difesa «dei bambini», per proteggerli dall’ideologia gender e da presunte transizioni forzate.
Questi attacchi, tuttavia, – a dispetto delle episodiche conquiste delle lotte transfemministe – agiscono in un contesto che è già ostile. La legge 164 del 1982 rimanda ai giudici la decisione di autorizzare i cambi anagrafici e gli interventi chirurgici che alcune persone trans desiderano affrontare. Il passaggio in tribunale giunge inoltre dopo una lunga sequela di esami attitudinali che misurano l’effettiva incongruenza di genere o, vieppiù patologizzando, la disforia. Ci si mettono di mezzo poi le carenze strutturali: il percorso medicalizzato di affermazione di genere può prendere l’avvio solo in pochi centri (meno di uno per regione, in Italia) alcuni dei quali congestionati all’inverosimile, con liste d’attesa fino a due anni per il primo colloquio conoscitivo. Lo Stato, di fatto, oppone attivamente ostacoli alle persone non cis che vogliono uscire dalla clandestinità.
L’esperienza di non riconoscersi nel genere assegnato alla nascita è stata in parte stralciata dal novero delle affezioni psichiatriche (ci sono state recenti modifiche sia nell’Icd 11 che nel Dsm 5), ma nell’epistemologia – non solo medica – permane la convinzione che i sessi e i generi siano due e lo stato di salute e funzionalità sociale coincida con il perpetuarsi dei ruoli produttivi e riproduttivi che il patriarcato tradizionalmente assegna in base alle anatomie sessuali. Quando le destre insorgono contro la teoria gender chiedono di fatto di confermare l’assunto binario e patriarcale così bene sintetizzato in Dignitas Infinita:
Diventa così inaccettabile che «alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini. Non si deve ignorare che sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare». Sono, dunque, da respingere tutti quei tentativi che oscurano il riferimento all’ineliminabile differenza sessuale fra uomo e donna: «non possiamo separare ciò che è maschile e femminile dall’opera creata da Dio, che è anteriore a tutte le nostre decisioni ed esperienze e dove ci sono elementi biologici che è impossibile ignorare». Ogni persona umana, soltanto quando può riconoscere ed accettare questa differenza nella reciprocità, diventa capace di scoprire pienamente se stessa, la propria dignità e la propria identità.
L’inclusione neoliberale
Se ci fermassimo qui, di fronti aperti ce ne sarebbero già abbastanza ma, appunto, l’offensiva è ampia e più articolata. A quelli menzionati, infatti, si aggiunge l’attacco più subdolo: quello dell’inclusione e dell’estrattivismo neoliberale.
Da una parte si tratta di quella mossa coloniale che inietta nel mainstream dosi rinvigorenti di culture subalterne: è accaduto al jazz, al blues, al tango, al rebetiko, al reggae, alla pizzica. Da Madonna che si appropria del voguing fino alle ultime uscite Disney, la cultura delle comunità queer viene utilizzata per aprire nicchie di mercato e, facendo il gesto di placare l’atavica fame di rappresentazione, rifunzionalizza e lubrifica il rodato sistema dell’industria culturale. Dall’altra le politiche di diversity management puliscono la faccia e la coscienza delle aziende (anche quelle più o meno controllate dallo Stato): si tratta di dispositivi che hanno il duplice scopo di attirare nuova clientela e di stemperare con regolamenti interni le accuse di discriminazione di chi dentro quelle realtà lavora, trasformando ogni recriminazione e ogni vertenza in un caso di ingratitudine. In questa temperie, anche l’editoria mainstream si è buttata a pesce su questa nicchia di mercato e continua a produrre in serie memoir e manualetti a tema Lgbtqia+.
Si tratta di copioni con poche variabili. Grandi e piccoli editori selezionano storie di vita prepolitiche, intime, dolorose, occasionalmente e nel più neoliberale dei sensi vincenti. Lacerti di esistenze funzionali alla narrazione mainstream dell’eccezionalità (il corpo sbagliato, la disforia, la rinascita) o manualetti che, senza contestare l’ordinamento patriarcale della società, tengono insieme nello stesso recinto capra e lupo, affinché il capitale possa continuare a occuparsi dei propri cavoli.
La narrazione trans mainstream
Nei giorni scorsi, ho scritto una lunga analisi di uno di questi prodotti cartacei: Song of myself. Un viaggio nella varianza di genere (Feltrinelli, 2024), l’ultimo libro di Fabio Geda. Al di là di ogni migliore e più genuina intenzione, l’operazione è coloniale, estrattivista, conservativa dello status quo. Dal punta di vista formale Song of myself è un reportage narrativo: l’autore racconta la sua esperienza di uditore nell’ambulatorio varianza di genere del reparto di neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita di Torino, narrazione appena sporcata da inorganiche carrellate – da manualetto, appunto – sul sistema sesso-genere.
L’opera, che vorrebbe presentarsi come il contributo di un alleato della comunità trans, colleziona le testimonianze di genitori per lo più spaventati, i pareri di neuropsichiatre che fanno del gatekeeping – l’ostruzionismo attivo ai percorsi di affermazione di genere – un motivo d’orgoglio della struttura, poche voci delle giovani persone prese in carico dal servizio e i racconti – solo qui finalmente si varcano le mura dell’ospedale – di tre altre persone trans appena maggiorenni, ovviamente selezionate dalla struttura. Sembra davvero insufficiente a sottotitolare «un viaggio nella varianza di genere». Lo stesso tipo di presunzione di chi osservando l’acquario di casa volesse scrivere un saggio di ittiologia. Poche ore dopo la pubblicazione del mio pezzo, mi ha scritto Aura che, allora minorenne, è una delle ragazze che ai momenti d’incontro vampirizzati da Geda ha partecipato. Qui di seguito alcuni stralci della nostra conversazione avvenuta due giorni dopo nella cucina di casa mia.
Aura: Nel libro di Geda sono diventata Selene. Mi ricordo di avere effettivamente detto praticamente tutto quello che mi viene attribuito, ma il modo in cui viene riportato (le parole, la sintassi, il ritmo ecc.) non si allinea al modo in cui so avere esposto quello che pensavo. Il risultato è che mi ritrovo a storcere il naso davanti a frasi che so di aver pronunciato. E poi non mi piace che la parola «rinascita» sia posta davanti alle mie parole come se fosse un riassunto perfetto della mia esperienza, perché non lo è; il mio sospetto è che abbia scelto di usare proprio quella parola per suscitare fascinazione in lettori «estranei ai fatti».
Subire infantilizzazione è una prassi per le persone trans di tutte le età. È assai frequente che le nostre affermazioni sui posizionamenti che assumiamo nel genere e sulle relazioni che desideriamo intrecciare con l’esistente vengano messe in dubbio. Il retro pensiero è, ancora una volta, che nessuna persona sana di mente possa davvero voler avventurarsi fuori dai confini del genere patriarcalmente inteso. Non stupisce che Geda, con gli strumenti della scrittura, semplifichi il pensiero delle persone adolescenti che si trova davanti e lo faccia convergere in cornici concettuali stereotipiche. Ma andiamo in ordine: la mia conversazione con Aura in realtà comincia con l’inizio del suo percorso.
Aura: Ho fatto il primo incontro il 14 settembre 2021. È l’incontro che fanno a tutte le persone che vogliono iniziare. È stato abbastanza traumatico. C’era mia madre insieme a me. La dottoressa ha cominciato a chiedermi che cosa volessi fare con i miei genitali. Quello era il primo indizio su quello che avrei trovato in quel posto. Poi mi hanno detto: se hai fratelli o sorelle minori assolutamente non dire loro che sei trans, altrimenti si confondono e pensano che puoi cambiare genere così, ogni giorno. Non credo funzioni così. Mia sorella aveva sette o otto anni quando ho cominciato il percorso, sa tutto, e anche mio fratello. Non mi pare che stiano cambiando genere.
Di fatto, in molti centri italiani l’esperienza trans viene trattata ancora come un’infezione da arginare e circoscrivere, come un virus che si può trasmettere con la sola presenza. La transnegatività, come ha brillantemente dimostrato Paul B. Preciado in Sono un un mostro che vi parla (Fandango, 2021), è parte dell’epistemologia del sapere medico.
Aura: Mi ricordo che la prima volta che la neuropsichiatra mi ha vista mi ha detto che non dovevo preoccuparmi, che si sarebbe presa cura del mio problema, che l’avremmo risolto insieme. Io non avevo mai detto che vivevo la mia identità trans come un problema. Non so se glielo abbiano detto i miei genitori o se fosse il suo pensiero, ma io non l’ho mai vista in quel modo lì.
Geda non tematizza la transnegatività e la patologizzazione di cui è intrisa la struttura che gli presta il campo d’osservazione. Dopodiché io e Aura passiamo a parlare di un altro tema completamente assente in Song of myself, le lungaggini e gli ostacoli del percorso:
Aura: Mi hanno detto che avrebbero fatto un consulto fra i medici dell’ambulatorio e avrebbero valutato se accettarmi o meno, in quel caso mi avrebbero dato un nuovo appuntamento. Mi hanno chiamata l’8 marzo dell’anno successivo. Ho fatto più o meno sette o otto mesi di incontri settimanali con una persona che stava finendo la sua specializzazione e che non era poi così male, ma non lavora più lì, si è trasferito. Mi hanno fatto fare questionari a non finire. Hanno chiesto ai miei genitori se nell’infanzia avessi tentato di incendiare un’auto. Credo sia per individuare un disturbo antisociale della personalità.
Filo: Probabilmente si tratta della Child Behavior Checklist, che ha domande tipo: «pensa al sesso ossessivamente», «fa uso di droga», «assale fisicamente le persone”» un mezzo sicuro per spaventare le famiglie delle giovani persone trans.
Aura: E poi il test di Rorschach e altro ancora. Quando il mio ex psichiatra – senza dirmi nulla – se ne è andato, gli è subentrata la neuropsichiatra che coordina l’intero ambulatorio varianza di genere del Regina Margherita. Con lei ho fatto un incontro al mese per un anno, da novembre 2022 a novembre 2023. Quella è stata la parte più noiosa di tutte. Mi chiedeva sempre le stesse cose: «come ti vedi-come ti senti-cosa vorresti fare con il tuo corpo?». Io ripetevo sempre le stesse risposte, quelle che desiderava ascoltare. Se vogliamo usare un eufemismo, al Regina Margherita non sono viste di buon occhio le identità non-binarie. Sulla mia relazione di uscita dall’ambulatorio c’è scritto: «si è presentata inizialmente come persona non-binaria; si è in seguito corretta e focalizzata su identità femminile». Mi hanno chiesto se mi ritrovassi in quella relazione. E io: «Sì, sì, assolutamente, in ogni parola che c’è scritta». Ma in realtà no, la mia identità continua a essere non perfettamente binaria e suppongo che non lo sarà mai.
Infine Aura e io passiamo a parlare dell’operazione mediatica che lo scrittore e l’ambulatorio hanno messo in piedi, senza dubbio nell’ottica di un reciproco profitto.
Aura: Quando ho cominciato a frequentare il gruppo ci hanno detto che Geda voleva scrivere un nuovo libro e desiderava la nostra collaborazione. Non è stato un incontro a dare l’idea del libro, il progetto c’era già. Voleva il nostro supporto e sentire le voci da dentro. Agli incontri, di solito, ci proponeva un tema. Più raramente lo proponevamo noi. Si parlava a turno. Se avesse voluto capire davvero avrebbe scelto un’altra modalità, magari interviste individuali, senza supervisione adulta, in maniera che le persone si sentissero davvero libere di dire quello che provano e avrebbe dovuto evitare di mettere il materiale al vaglio del personale dell’ambulatorio. In questo modo sarebbe uscito qualcosa di più vero. Le attività che ci proponeva sono state fra le cose meno coinvolgenti a cui abbia mai partecipato. Le cose che ci trovavamo a dirgli erano quelle che puoi trovare se cerchi gli stereotipi sulle vite delle persone trans. Parlavamo dei nostri ricordi di infanzia, del bullismo – wow, che gioia – o di cosa avremmo voluto dire alle altre persone, perlopiù messaggi molto scontati. Non c’era sostanza e non c’era il senso di liberarsi da un peso.
Filo: Sul totale delle persone presenti, in quante parlavano?
Aura: Non tantissime. C’erano tanti silenzi, a volte anche venticinque minuti. Imbarazzante. Nessuno rispondeva alle domande, nessuno aveva qualcosa da dire. A volte le persone appena maggiorenni che avevano fatto parte del gruppo e che ora sono in carico al servizio per adulti piombavano in mezzo alla stanza disperate. Erano a pezzi per gli ostacoli che trovavano nell’altro ambulatorio. Era difficile parlare in modo allegro e bello, come Geda ci suggeriva, del trattamento che subivamo. Le persone a volte avevano bisogno di sfogarsi, di parlare, ma una delle cose che ci aveva chiesto era di non renderla troppo una tragedia, di non essere troppo tristi. Diceva: voglio vedere qualcosa di più vero, più umano, più complesso.
Non ci bastano le briciole
Il libro di Geda è un caso esemplare (per questa ragione ci torno ancora su) del tipo di trappola che il neoliberismo tende alle soggettività oppresse. Un viaggio premio nel luna park del Capitalismo dal Volto Buono. Il giro in giostra è garantito, a condizione di sorridere, addossarci le responsabilità di una vita ai margini e rendere grazie a chi lascia cadere briciole dalla tavola: di volta in volta, il sindaco, lo Stato, l’associazione mainstream, l’azienda, lo scrittore, la star. Ci tocca fare la foto di rito e poi, smontato il baraccone, tutti a casa propria, a perpetuare lo status quo.
Stefano Benni in un suo vecchio romanzo l’ha felicemente etichettata la Beneficenza benevidente, è l’ennesimo camuffamento di quella che Theodor Adorno chiamava «dicotomica coscienza borghese»: il business neoliberale ha bisogno delle nostre assoggettate presenze, del nostro entusiasmo e del nostro silenzio quiescente per recitare la romantica commedia della società inclusiva, che in una struttura fondata sullo sfruttamento e la sperequazione trova un posticino anche «ai deboli e ai fragili», senza svelare chi crea e con quali mezzi debolezza e fragilità. Il paradosso di questo progressismo è che in fondo pretende la stessa narrazione e/o lo stesso silenzio imposto dalla destra reazionaria.
Il transfemminismo è una selva molteplice di progetti rivoluzionari attraverso i quali prendono voce soggettività razzializzate, non-uomo-eterocis, persone il cui corpo/psiche non è conforme, le classi oppresse e sfruttate. Questa pluralità di soggetti ha legittimamente anche fame di rappresentazione: ma è un bisogno che non si può placare con le schwa o le comparsate di qualche persona nera o con una menomazione fisica o una disabilità mentale in un talk show o in una serie tv.
La pluralità di progetti che animiamo – a dispetto dell’ordinario divide et impera – cerca convergenze e mira a cambiare non solo i rapporti di potere. Il desiderio politico che ci anima è olistico, globale: investe le relazioni e gli assetti famigliari, è un alternativa al binarismo, al patriarcato e alle gerarchie e ai ruoli sociali che discendono dalle anatomie e dalle provenienze. Investe l’epistemologia, la maniera in cui conosciamo, impariamo, insegniamo; investe la maniera in cui ci nutriamo, ci ripariamo dal freddo e dal caldo, entriamo in relazione con la molteplicità degli esseri del pianeta; investe il concetto di salute e di conseguenza la gestione della sanità. Investe la maniera in cui gestiamo i conflitti, amministriamo la giustizia, distribuiamo le risorse. Non ci bastano le briciole e nemmeno un posto a tavola. Lottiamo per una mensa comunitaria, orizzontale e autogestita.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 9 maggio 2024