Il voto basco, tra rottura e continuità

di Giacomo Comincini  /
22 Aprile 2024 /

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Un aneddoto tra il tragico e il comico che si racconta spesso parlando della politica locale spagnola riguarda il padre del famoso artista Joaquín Sabina. Negli ultimi istanti della sua vita, con fare solenne e grave, l’anziano patriarca riunì attorno al capezzale i figli tutti, cui si rivolse dicendo: “Vorrei ben sapere da dove tirino fuori tutti quei soldi le giunte provinciali”. Pronunciate queste parole, morì all’istante. La storia spesso colpisce il lettore italiano, che forse parte dal presupposto che gli enti locali siano severamente sottofinanziati un po’ dappertutto. Nulla di più lontano dal vero. Ora, non conviene dedicare quest’analisi alle laute finanze delle province, visto tra l’altro il rischio che comporta anche solo parlarne a voce alta, come detto. Semmai, la storia ci serva a mettere in discussione le nostre conoscenze pregresse e soprattutto a decostruire l’immagine della politica spagnola, che troppo spesso immaginiamo compatta, uniforme e distribuita radialmente, dal centro ai confini estremi del Regno. Ma, nella Madrid ingovernabile del post-bipartitismo, le periferie fanno il bello e il cattivo tempo. E da qui conviene partire. 

Tra gli appuntamenti più importanti dell’anno corrente, per l’attualità iberica, c’è un voto riguardante un territorio chiave nella morfologia politica della Spagna contemporanea. Ѐ Euskadi, la comunità autonoma spagnola che spesso traduciamo come Paese Basco, ma che del territorio basco propriamente detto è solo la propaggine più occidentale, a fianco della Navarra e della Guascogna francese. In un 2024 che si sviluppa come prova del nove per i patti per la governabilità firmati dal premier spagnolo, Pedro Sánchez, con i partiti periferici baschi e catalani, il voto basco – in cui gli equilibri tra le forze hanno vissuto un’alterazione significativa – è il primo stress test per la tenuta della coalizione di governo spagnola e un momento decisivo per la storia politica di Euskadi. Con il pareggio tra il PNV, la forza tradizionale del nazionalismo basco, e EH Bildu, la rivale di sinistra, l’aritmia della governabilità a Bilbao e Madrid si aggiorna con nuove variabili. 

Il contesto storico 

Il sentimento nazionale basco, modernamente inteso, nacque a fine Ottocento. Fallito l’assalto al cielo del carlismo, ad imbracciare i vessilli delle autonomie locali e delle identità regionali basche e catalane giunsero nuovi attori. Sabino Arana, l’ideologo del nazionalismolezioni basche basco, fondò nel 1895 il Partito Nazionalista Basco (PNV) sotto proprio lo slogan di “Dio e le antiche leggi” – un richiamo all’ideario carlista di resistenza alla Spagna centralista e liberale. Questo partito diede il via all’etnogenesi basca contemporanea, creando la bandiera nazionale e promuovendo l’uso della lingua basca al fine di fomentare una coscienza di popolo. Il tutto senza spingere per una rottura tout court: separatismo, sì, ma senza esagerare. 

I jeltzales (i membri del PNV, in basco), moderati e di ispirazione cristiana, ressero il governo autonomo basco durante la Seconda Repubblica e, trascorsi i quarant’anni di franchismo in esilio e nella macchia, recuperarono il potere regionale (e la filosofia del “ma senza esagerare”) nel 1977. L’opposizione al regime fascista aveva però assunto anche altri volti: le sensibilità socialiste e comuniste, presenti tanto in Euskadi quanto nel resto dello stato, ma anche correnti di separatismo di sinistra. Dalle gioventù radicalizzate del PNV nacque infatti ETA (1959), Paese Basco e Libertà, la più famosa delle organizzazioni della sinistra nazionalista basca, che mise in atto una campagna terroristica contro il regime prima e contro lo Stato democratico poi. Quest’ultimo, peraltro, rispose con forme di terrorismo di stato, come nel caso dei Gruppi Antiterroristi di Liberazione (GAL), promossi dai governi socialisti di Madrid. 

Per come essa si configurò, tra scissioni e riorganizzazioni, ETA fu soprattutto un movimento militare, in dialogo e collegamento però con bracci politici, culturali e sindacali più o meno formalizzati e tracciabili. Il filone politico più significativo di questi movimenti – quello che si organizzò attorno al partito Herri Batasuna (1978), ritrovandosi in Batasuna (2001) e poi in Sortu (2011) – sposò sempre gli stessi obiettivi di indipendenza e socialismo, ma operò sempre nell’ambito della legalità e fu decisivo, dal finire degli anni Novanta in poi, nell’instradare ETA verso la cessazione delle violenze e i suoi aderenti ad unirsi al gioco democratico. La sinistra indipendentista trovò a quel punto uno spazio elettorale, lasciato libero dai moderati – il PNV al governo e i socialisti all’opposizione, teoricamente  alternativi  l’uno  agli  altri  ma  quasi  sovrapponibili in termini di politiche concrete – e fondato su una rivendicazione di sovranità e diritti sociali. 

L’ascesa di Bildu 

La fine di ETA, durante gli anni Dieci, ha facilitato la dédiabolisation di questa area politica e alla sua ascesa, cui hanno contribuito i consensi espressi dalle nuove generazioni, che avevano e hanno poca o nulla memoria dell’epoca stragista e che si sono socializzate, perlopiù, sotto il centrismo del Partito Nazionalista Basco – generazioni che i socialisti baschi non hanno ovviamente saputo sedurre e fidelizzare. Dopo il breve exploit di Podemos, che ha espugnato Euskadi in due cicli elettorali generali (2015 e 2016) in linea con la sua ascesa sul piano nazionale e in quanto movimento di rottura del bipartitismo, l’unica forza a crescere significativamente è stata Euskal Herria Bildu (EH Bildu, o anche Bildu), l’ultima incarnazione della sinistra nazionalista, guidata da Arnaldo Otegi. 

In particolare, dalla nascita del primissimo governo Sánchez (2018), cui Bildu ha contribuito con i suoi voti decisivi, l’organizzazione di Otegi ha messo in atto una strategia di moderazione: sostenendo i governi di Madrid senza chiedere nulla in cambio, attenuando gli slogan separatisti e ponendo l’enfasi sulle riforme progressive, Bildu ha conquistato i consensi della sinistra non nazionalista, privando Podemos e successori dei loro voti, e si è procurata agli occhi degli osservatori di Madrid la nomea di forza democratica e responsabile. Il dogma jeltzale del “ma senza esagerare”, infine, ferum victorem cepit, contagiando perfino i montagnardi di EH Bildu. 

Per il PNV, che aveva tradizionalmente campato sull’identità di unico partito capace di trattare con Madrid e portare a casa risultati per Euskadi, l’ascesa di Bildu e il logoramento dopo anni di governo hanno imposto la scelta drastica: i jeltzales hanno silurato il lehendakari (presidente regionale) attuale, Íñigo Urkullu, e candidato un perfetto sconosciuto, il giovane e grigio Imanol Pradales, alla presidenza. Novità, ma senza esagerare. Bildu ha rilanciato, rinunciando a Otegi – troppo controverso per la sua adesione a ETA – e lanciando Pello Otxandiano,  anch’egli giovane e perlopiù ignoto al grande pubblico, ma carismatico. Battagliero, ma senza esagerare. 

Inchiodate al 35% durante la gran parte della campagna elettorale, le due forze nazionaliste (il centrista PNV e la progressista EH Bildu) hanno impostato il confronto soprattutto su questioni specifiche, quali la salute o la transizione verde dell’industria basca, lasciando da parte i temi identitari. Era ambizione di entrambe, infatti, attrarre quanti più voti dalle forze non nazionaliste (il PNV da socialisti e popolari, Bildu da socialisti e area ex-Podemos), insensibili agli slogan nazionali. Una gaffe a pochi giorni dal voto di Oxoniano (che non osò definire ETA come “terrorista”) ha fatto scricchiolare il paradigma di crescita di Bildu, che si basa sul far sì che gli elettori dimentichino o trascurino le origini del partito indipendentista. 

L’impatto della rivalità tra PNV e Bildu è presto rivelato: la governabilità in Spagna dipende dal concorso di tutte le forze periferiche (catalane, basche e galiziane) nel sostegno alla maggioranza PSOE-Sumar. Se nelle tre legislature precedenti la competizione tra i partiti catalani (Esquerra e Junts) ha comportato la caduta del governo (2019) e la difficile definizione di una maggioranza (2019-bis e 2020), così destabilizzazioni nel rapporto tra jeltzales e sinistra basca potrebbero introdurre tentazioni, da una parte o dall’altra, di dare scossoni al governo centrale. 

I risultati 

Il sistema elettorale basco è tra i più semplici – e diseguali – della penisola iberica. Il parlamento ha 75 seggi e ciascuna delle tre province basche ne elegge 25, sebbene siano molto diversamente popolate: ai fini dell’aritmetica parlamentare, il milione e passa di abitanti di Bizkaia valgono quanto i 330.000 di Araba. La maggioranza parlamentare è fissata ai 38 seggi. Il PNV si è confermato prima forza del Paese Basco, con il 35.22% dei voti e 27 scranni, 4 in meno della legislatura precedente. Bildu, raggiungendo il 32.48% (appena 30.000 voti in meno dei jeltzales), ottiene anch’essa 27 eletti, con un balzo di 6 seggi. Seguono i socialisti del PSE, con 12 deputati (+2), il Partito Popolare, con 7 seggi (+1), e infine Sumar e Vox, entrambi con uno scranno. Notevolmente, i partiti nazionalisti radunano praticamente il 70% dei consensi e una maggioranza parlamentare vastissima. Il PNV arriva primo in Bizkaia; Bildu espugna Araba e Gipuzkoa. Pertanto, la maggioranza sarebbe a disposizione per tre combinazioni di forze politiche: l’alleanza moderata uscente (PNV+PSE), un blocco nazionalista (PNV+Bildu) o un’intesa di sinistra (Bildu+PSE). 

Delle tre combinazioni menzionate, c’è un’opzione che chiaramente emerge come più plausibile: il PNV e i socialisti, rivali per decenni in Euskadi e ora al governo insieme (tanto nel Paese Basco, dal 2012, quanto a Madrid, dal 2018), hanno i numeri per rinnovare il loro mandato e tutto l’interesse a evitare avventure. Il PNV non ha motivi per governare con Bildu, considerando due evidenze: esso teme in primis la crescita della rivale indipendentista e, in secondo luogo, sospetta che, come accadde nel 2004, sotto la leadership di Juan José Ibarretxe, una coalizione esclusivamente nazionalista alienerebbe i non pochi elettori che si sentono spagnoli e che votano il PNV per via del suo pragmatismo. 

Pure i socialisti del PSE verrebbero schiacciati qualora i jeltzales governassero con Otxandiano e Otegi, perdendo elettori moderati in direzione PNV e radicali a favore di Bildu, e creerebbero problemi a Sánchez: il Partito Popolare e Vox lo bombarderebbero notte e giorno con l’accusa di collusione con gli eredi del terrorismo. L’autonomia basca va anche oltre il governo regionale, visto che molte competenze e moltissime risorse economiche sono gestite dalle giunte provinciali, cui il compianto padre di Joaquín Sabina dedicò l’ultimo sussulto di indignazione vitale. Ebbene, nelle giunte basche governa immancabilmente il patto PNV-PSE: l’usato sicuro. Che senso avrebbe, per jeltzales e socialisti, rompere gli accordi provinciali e regionali in un colpo solo, per far spazio al loro rivale? 

Insomma, Bildu ha sfondato non poche delle transenne che la trattenevano entro il suo spazio e si è qualificata come forza notevole sul piano regionale e statale, ma i timori che tradizionalmente suscita (complici gli errori dell’ultima settimana di campagna) e le complicità che non riesce a tessere, stanti i rapporti di forza correnti, confinano la sinistra indipendentista all’opposizione in Euskadi. Ma il pareggio in seggi con il PNV non ha precedenti per le forze politiche nate da Herri Batasuna, così come l’imponente quantità di voti ricevuti e il protagonismo che l’organizzazione di Arnaldo Otegi ha saputo prendersi nel dare forma all’agenda e al dibattito politico. 

Il potere resta comunque all’eterno Partito Nazionalista Basco, ammaccato ma con la possibilità di reinventarsi ancora una volta, grazie alla guida del presidente del partito, Andoni Ortuzar, e il suo giovane satellite, il lehendakari in pectore Imanol Pradales. Il PSE rinuncia ad essere ago della bilancia e si incammina di nuovo sulla strada dell’accordo con il PNV, pur mantenendo, con la propria retorica adatta a tutte le stagioni, il solo partito capace di essere compatibile con qualsiasi forza politica, cosa che potrebbe rivelarsi utile a Bildu in futuro. Il PP e Vox, invece, rimangono nel loro isolamento perfetto, mentre Sumar agonizza e Podemos svanisce. Il nuovo parlamento basco, pur in proporzioni diverse, è destinato a seguire il tracciato del precedente, sebbene non sia improbabile che il peso della sinistra indipendentista sblocchi una riforma dello statuto di Gernika (la mini-costituzione regionale, largamente percepita come insufficientemente autonomista e violata in più aspetti dallo Stato stesso). Nel risultato basco si compaginano, senza cozzare più di tanto, rottura (innocua) e continuità (sostanziale). Il governo a Madrid è salvo e quello di Bilbao si rinnoverà senza troppa fatica. Fino al voto catalano del 12 maggio, Pedro Sánchez può permettersi un sospiro di sollievo (ma senza esagerare). 

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