Spegnere un pianeta in fiamme

di Antonio Lucci /
13 Aprile 2024 /

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Definire l’ultima pubblicazione in lingua italiana di Peter Sloterdijk – Il rimorso di Prometeo. Dal dono del fuoco all’incendio del pianeta (Marsilio 2024) – un libro incendiario non è solo un gioco di parole scontato, anche se lo sembrerebbe, visto il titolo. Sloterdijk, filosofo e teorico della cultura, ormai molto noto anche nel nostro paese, ci consegna, infatti, un pamphlet breve, ma profondo, chiaro e al contempo provocatorio (com’è nel suo stile), che invita a riflettere sulla crisi climatica in corso a partire dalla prospettiva tanto dell’ecologia filosofica che delle scienze della cultura.

Il testo, infatti, si apre con un gesto tipico del Kulturwissenschaflter, vale a dire la ricerca delle origini lontane di un problema contemporaneo, in questo caso la crisi ambientale, al fine di individuarne tanto le cause – spesso rimosse – quanto gli impensati.

Il punto angolare a partire da cui pensare il problema del global warming e dell’esaurimento delle risorse energetiche fossili è ritrovato da Sloterdijk nell’antico mito di Prometeo, che, per quanto venga preso dall’autore più come spunto che come tema, vale la pena di riportare per comprendere il tenore delle sue considerazioni. 

Prometeo, secondo il mito, per sopperire alla colpa del fratello Epimeteo (a cui un filosofo centrale per la contemporaneità almeno quanto Sloterdijk, Bernard Stiegler, ha dedicato un testo fondamentale, La colpa di Epimeteo, anch’esso di recente tradotto in italiano da Luiss, 2023, p. 344), che aveva dimenticato di dare all’umanità le qualità fisiche che caratterizzano gli animali, rubò agli dèi il fuoco – ossia la tecnica – per aiutare gli uomini a sopperire alle loro mancanze fisiologiche. 

È proprio dal fuoco come tecnica che riparte Sloterdijk, rilevando come, se è possibile azzardare un’ipotesi genealogica sulla prototecnica che ha permesso all’animale pre-sapiens di divenire un appartenente alla specie homo, questa vada proprio ricondotta al fuoco. Il fuoco, infatti, ha permesso agli esseri umani di esteriorizzare le operazioni di digestione al di fuori del proprio stomaco tramite la cottura e di sopperire alla mancanza pilifera, lo ha aiutato a progredire nella caccia, a facilitare il processo di semina potendo incendiare zone boschive e, non da ultimo, a plasmare il territorio. Inoltre, esso si è posto come prima “metatecnica” (espressione la cui paternità si deve al filosofo e teorico dei media Alessandro De Cesaris): senza fuoco, infatti, nessuna produzione di metalli né strumenti metallici.

La storia che racconta Sloterdijk, oltre ad essere una storia del fuoco come tecnica, è però anche e soprattutto una storia del fuoco come sinonimo generale di “energia”: lo sfruttamento del fuoco dà inizio, infatti, secondo il pensatore di Karlsruhe, alla “storia metabolica” dell’homo sapiens, quella storia per cui gli appartenenti alla nostra specie consumano non solo e non tanto l’ambiente circostante trasformandolo in calorie che ingeriamo, ma anche e soprattutto il mondo “naturale”, inteso come combustibile utile alla trasformazione della nostra nicchia ambientale in un mondo culturale.

Se il nostro metabolismo, quindi, in un primo momento della nostra storia evolutiva, si è concentrato sulla trasformazione di materiali non-umani in energia fisica utile all’uomo, in una seconda fase, successiva ai processi di stanzializzazione che in paleoantropologia vengono definiti “neoliticizzazione” (ossia il lungo percorso del divenire-stanziale dell’homo sapiens), sono gli stessi uomini a diventare il carburante che gli uomini hanno utilizzato per alimentare la fornace della civilizzazione, in una sorta di metabolismo di secondo livello. Provocatoriamente, infatti, Sloterdijk avanza la tesi che sia stata la riduzione in schiavitù di animali e (soprattutto) di umani il più importante passaggio metabolico dall’organismo singolo (che consuma il mondo esterno sotto forma di alimenti e lo rende energia fisica) a quello collettivo (che consumava l’energia degli esseri resi schiavi facendone opere pubbliche, coltivazioni, monumenti, ecc.). È in questa fase di sviluppo della storia umana che il richiamo al valore emancipatore di Prometeo si fa più pregnante: sarà la scoperta e l’incendio delle energie fossili a emancipare il processo metabolico-civilizzatore dalla necessità di servirsi di forze muscolari per produrre oggetti e opere. O meglio, tale scoperta permetterà di affiancare ai produttori fisici di energia (i lavoratori), le macchine. L’utilizzo massiccio di queste ultime segnerà una duplice soglia epocale: da un lato gli schiavi si trasformeranno in operai (in alcuni casi più de jure che de facto, e – ad ogni modo – sempre troppo lentamente), e gli animali, da operai di secondo ordine, si trasformeranno in mere risorse alimentari.

La storia metabolica dell’umanità raccontata da Sloterdijk, raccontata non dal punto di vista di un qualche soggetto, ma da quello – anumano – dell’energia, ci permette di assumere la posizione – ironica ai limiti del cinismo – di osservatori al di là del bene e del male: se gli enti che incontriamo nel mondo vengono, infatti, ridotti al loro potenziale energetico, questi si riducono o a materiale combustibile (a fini metabolico-fisici o metabolico-culturali) o a produttori di energia cinetica: tertium non datur. (I lettori non avvezzi ai lavori sloterdijkiani non avranno problemi, qui, a riconoscere il potenziale di irritazione presente negli scritti di Sloterdijk, che spesso, di certo non casualmente, sono oggetto di accesi dibattiti).

Ma la sostituzione della forza cinetica degli schiavi con quella delle macchine – se pure ha avuto, secondo Sloterdijk, innegabili effetti civilizzatori – è stata accompagnata da altrettanto innegabili effetti distruttori: non da ultimo l’inquinamento ambientale. Non è un caso che il titolo del libro, Il rimorso di Prometeo, faccia riferimento al concetto di “vergogna prometeica” di Günther Anders, che immaginava un Prometeo che si era pentito del dono che aveva fatto agli uomini, dopo aver visto come questi lo avevano utilizzato. È stato, come detto, in particolar modo l’ambiente ad aver subito gli effetti di quella “dislocazione dello sfruttamento” (p. 53) che rappresenta la tappa successiva all’abolizione della schiavitù nella storia metabolica del pianeta raccontata da Sloterdijk. Le “pirotecniche” moderne, infatti, basandosi su combustibili fossili, avrebbero spostato il focus dello sfruttamento metabolico dagli individui al pianeta Terra, considerato per tutta la contemporaneità un reservoir di energie inesauribili, che le tecniche umane potevano mettere a frutto a fini civilizzatori. In alcune pagine ad alto coefficiente di provocazione Sloterdijk sottolinea come solo in un’epoca in cui la forza lavoro non coincide con la forza muscolare umana è possibile pensare un’etica sessuale liberale, non orientata alla riproduzione (che nell’ottica “metabolica” di Sloterdijk coincide sempre con la riproduzione di forze produttive). 

A questo proposito è possibile avanzare una critica a Sloterdijk che è valida non solo per questo libro, ma anche per la maggior parte dei suoi lavori: per quanto in essi vengano schizzati quadri antropologici spesso convincenti, alla riprova storica, altrettanto spesso, questi non hanno nessun riscontro storico-concreto. Questo vale anche per il nostro libro: per quanto, ad esempio, la provocazione sloterdijkiana colga sicuramente un aspetto interessante della connessione tra quello che lui chiama “stile di vita lussureggiante” (ossia non legato a immediate pressioni ambientali), standard di benessere acquisito in virtù dell’uso delle energie fossili, e accettazione di costumi sessuali non orientati alla riproduzione, lo stabilire un nesso causale tra questi tre elementi significa non avere nessuna contezza della storia antropologica dell’homo sapiens al di fuori del contesto della modernità europea. Fuori dall’Europa, infatti, costumi sessuali divergenti rispetto al binarismo di genere orientato riproduttivamente sono sempre stati presenti, come insegna l’antropologia culturale, anche in civilità non industriali.

A difesa di Sloterdijk va però detto che il pamphlet prometeico che stiamo leggendo non ha nessuna pretesa di sistematicità: al contrario ha degli evidenti tratti ironico-utopistici. 

La pars construens del libro, infatti, quella finale, è dedicata a un’etica definita “pacifismo energetico”, che dovrebbe basarsi su due assunti: la rinuncia volontaria dei singoli a parte del quantum di benessere che il dono di Prometeo ci assicura, da un lato, e una politica anti-statale, che consideri i grandi conglomerati urbani (e persino le entità statali stesse) come i principali responsabili della catastrofe climatica:

«Ogni grande organismo politico sociale con più di quindici o venticinque milioni di membri andrebbe sottoposto a una formale messa al bando sulla base delle analisi eco-matematiche dei suoi limiti; ogni agglomerato urbano con più di 500.000 abitanti – a parte poche fortunate eccezioni – dovrebbe essere dichiarato una piaga per la civiltà. Lo smantellamento delle aree metropolitane diventerebbe la missione politico-strutturale più esplosiva dei prossimi secoli.» (p. 69)

In linea con questo tenore argomentativo eco-utopista Sloterdijk riprende, in conclusione del suo libro, alcune delle riflessioni ecologiche di Bruno Latour, che fu suo grande amico, alla cui memoria il testo è dedicato. Al concetto, in particolare, di “classe ecologica” Sloterdijk dedica particolare attenzione, rilevando la necessità di applicare il ripensamento delle differenze tra umani e non-umani iniziato da Latour fin dal suo Non siamo mai stati moderni anche all’attuale stato dell’arte ecologico. Umani e non-umani sono parti della medesima “classe”, e la loro lotta deve concentrarsi contro quelle élites che posseggono le risorse fossili e che non hanno intenzione di farne un uso responsabile (in questo mostrandosi veramente dis-umane). 

Secondo Sloterdijk le vie per attuare questa lotta di classe ambientale sono due: la creazione di una nuova “coscienza di classe” (come voleva Latour) o la lotta armata contro le élites ecocide: sospendendo il giudizio su quale tra queste due alternative sia preferibile, ma non nascondendo la sua simpatia per i movimenti ambientalisti contemporanei, Sloterdijk chiude il suo breve, ma intenso libro su Prometeo, invitandoci a riflettere sui modi per gettare acqua sul nostro mondo che brucia.

Questo articolo è stato pubblicato su Doppiozero il 9 aprile 2024. Immagine di copertina, Mike Newbry/Unsplash

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