L’Europa in guerra

di Aldo Tortorella /
19 Marzo 2024 /

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Si va verso le elezioni europee in una situazione di guerra cui i paesi dell’Unione in vario modo partecipano fornendo armi, finanziamenti, consiglieri, complicità.

E viviamo il tempo di una avanzata del nazionalismo, che è altra cosa dall’amore della propria terra e reca in sé lo stimolo alla violenza.

Sono molti i problemi per una costruzione europea autonoma che non sia una somma incoerente di politiche nazionali e di complessiva dipendenza dalla Nato a direzione americana e che rifiuti il traino che la Gran Bretagna, con il suo legame speciale con gli Usa, va esercitando dall’esterno in materia di politica estera e di conflitti bellici.

È certo di grande rilievo la attenzione che i movimenti contadini hanno richiamato sulle condizioni della agricoltura anche se la risposta dell’Unione europea ha evitato di affrontare il tema dello strozzinaggio dei monopoli delle materie prime e quello della grande distribuzione, preferendo la cancellazione di misure utili contro l’aggravamento della crisi ambientale.

Ma oggi è grave il voluto disinteresse sui temi della politica internazionale e innanzitutto sul coinvolgimento europeo già in atto nelle guerre che insanguinano il medio oriente e il nostro continente determinando nuove spaventose tragedie umane, l’aumento le spese militari, il riarmo tedesco, la ulteriore crisi di ogni programma di risanamento ambientale volto a salvare la nostra specie.

Mentre scrivo, la indignazione mondiale per la orribile strage di innocenti – migliaia di bambini compresi – voluta dal governo israeliano di estrema destra come vendetta inumana per il criminoso attacco di Hamas, ha generato, finalmente qualche timida dissociazione (anche in Italia).

Dovute però, anche a conferma della dipendenza dagli Usa, alle difficoltà elettorali di Biden con parte del suo elettorato di origine araba o terzomondista.

Dissociazioni che non cancellano le colpe dell’Europa nell’acritico sostegno a qualsiasi governo israeliano e persino a Netanyahu dovuto alla cattiva coscienza per la millenaria persecuzione cristiana degli ebrei in quanto “popolo deicida”, e per la colpa fascista e nazista del genocidio.

Cosa che spinge a una pericolosa confusione tra la critica al governo di estrema destra di Netanyahu e l’antisemitismo che va combattuto oggi innanzitutto proprio criticando l’azione del governo Netanyahu.

La prova ultima di questa incondizionata vicinanza europea arrivò puntualmente con la sospensione degli aiuti americani e dei paesi europei alla Organizzazione delle Nazioni Unite di assistenza ai profughi palestinesi per la compromissione con Hamas di alcuni dei suoi operatori.

Ma costoro erano già stati sospesi e sottoposti a giudizio da parte della direzione di quella organizzazione.

La denuncia del governo Netanyahu è stata immediatamente accolta, la precisazione della organizzazione dell’Onu ignorata.

Il risultato fu la cessazione degli aiuti alla popolazione civile già decimata dalle tonnellate di bombe e condannata ad una vita randagia di fame, di sete, di privazioni inaudite.

E colpisce che sia accorso il governo tedesco a difendere la politica del governo israeliano di estrema destra dalla accusa di genocidio mossa dal Sud Africa memore dell’apartheid – accusa che il tribunale dell’Aia non ha respinto come voleva Netanyahu.

Forse a Berlino pensavano di lavare la macchia indelebile di un razzismo estremo che portò alla strage degli ebrei contribuendo a coprirne un’altra.

La lotta contro il razzismo antisemita non si combatte evitando di contrastare apertamente la politica di estrema destra che confonde la lotta al terrorismo con la vendetta, una politica che è il peggiore nemico di Israele stessa.

Ma affermando i pari diritti di israeliani e palestinesi ciascuno ad un proprio stato secondo una decisione iniziale mai voluta da Israele con la complicità di fatto dell’Europa.

E l’Europa di oggi pare ignara dei pericoli presenti nella nuova guerra che si combatte sul suo territorio dopo quella che servì a togliere il Kossovo alla Serbia, di cui il Kossovo era stata culla, oltre a fare del nuovo staterello “indipendente” la sede della maggiore base militare americana nel sud Europa.

Fu buon profeta, ma inascoltato, l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt quando, dopo il colpo di stato a Kiev del 2014 che aveva rovesciato l’orientamento amichevole verso la Russia, disse che “fino al 1991 tutti abbiamo pensato che la Ucraina fosse russa” e aggiunse di sentire “aria di 1914”, cioè di nuova guerra mondiale. In realtà l’attacco di paesi europei volto a colpire la influenza russa fuori del suo territorio aveva già conosciuto l’episodio della guerra civile in Siria (sede dell’unica base navale russa nel Mediterraneo) nata per motivi interni, ma non senza l’appoggio di diverse potenze occidentali cui rispose l’intervento russo: e fu la catastrofe di quel paese.

Come, quasi allo stesso tempo, accadeva in Libia (gonfia di petrolio e sospetta di amicizie improprie) con la uccisione di Gheddafi e l’intervento della Nato per “ripristinare l’odine” secondo l’eufemismo che si usa in questi casi.

Altro disastro, ma non per i mercanti di armi. Prima ancora, vi era stato l’ingresso nel patto atlantico degli stati che erano stati attribuiti alla sfera sovietica nella spartizione di Yalta contrariamente alle promesse fatte al momento della riunificazione della Germania.

Alla Russia pienamente sconfitta nella guerra fredda non fu risparmiata alcuna umiliazione. Niente di tutto questo può togliere al nazionalismo russo putiniano, figlio e copertura del capitalismo selvaggio succeduto al crollo sovietico, la colpa di aver reagito con l’aggressione a un paese formalmente indipendente addirittura per una scelta di Lenin.

E nessuno sconto può essere fatto a chi perseguita e incarcera gli oppositori politici. Fino a mandarli in Siberia e farli morire in carcere come Navalny. Anche se si volessero incolpare le “cause naturali” è una barbarie.

La vita dei prigionieri è affidata al potere che li ha condannati. (Ricordiamolo sempre anche quando poveri sconosciuti si suicidano nelle carceri).

Ma ora una guerra che aveva tutti gli aspetti di uno scontro armato tra partecipi di uno stesso mondo, molto vicina ad una guerra civile che può essere risolta solo con un compromesso di pace, tende a trasformarsi in una crociata volta a debellare definitivamente la Russia accusata di velleità imperiali da chi il proprio impero lo ha già costituito e lo allarga costantemente.

Caduta la giustificazione anticomunista, si leva ora la bandiera della lotta contro la “democratura” russa, cioè un autoritarismo fascistoide, negatore della libertà politica e mascherato da democrazia, nel mentre questa tendenza, la medesima che vigeva in Ucraina, è ormai già in marcia in diversi Stati della Nato come l’Ungheria o la Turchia (Ocalan, capo del Pc curdo all’opposizione è in carcere da un quarto di secolo), prospera in giro per il mondo ed è già attiva negli Stati Uniti nella pratica politica di un ex presidente con vasto seguito popolare e mallevadore di un tentato colpo di Stato – a suggello di una società violenta oltre misura e di un regime che perseguita chi, come Assange, svela i misfatti del potere.

Una infezione ben presente nel nuovo potere governativo italiano che nasconde con il nazionalismo la propria piena soggezione alla potenza egemone e la propria tendenza ad aggravare un sistema fatto di ingiustizia sociale (si pensi alle misure contro gli ultimi, il favore agli evasori, la cancellazione di reati di corruttela).

E che si deve dunque combattere idealmente, politicamente, economicamente sul piano mondiale non solo come una specialità del capitalismo russo, anche se il suo governo ha passato il segno. Nazionalismo e autoritarismo, premessa delle tendenze alla guerra, nascono e si affermano anche perché troppo spesso la giusta azione per i diritti civili e la predicazione formalmente democratica dei ceti dirigenti occidentali ha nascosto l’intangibilità di privilegi di classe insostenibili e l’attacco ai diritti sociali.

Il Manifesto di Ventotene di Colorni, Spinelli e Rossi per l’unità europea aveva perfettamente previsto la involuzione nazionalistica dei gruppi dominanti di fronte alla possibile insoddisfazione popolare nel momento della crisi economica del dopoguerra per impedire il cammino di una Europa unificata secondo una democrazia progressista.

Infatti, il tentativo di costruzione europea della metà del secolo scorso nasce inquinato dai nazionalismi dei vincitori e con un indirizzo opposto all’orientamento di quel Manifesto molto esaltato a chiacchiere e poco letto.

Il testo di Ventotene auspicava una Europa di democrazia socialista e cioè di libertà solidale e di giustizia sociale, in una economia di primato dell’interesse pubblico e di cooperazione tra proprietà pubblica e iniziativa privata. Al contrario l’Europa che i suoi trattati costituiscono (da Roma a Maastricht) si ispira al liberismo economico, rafforza relativamente (a Lisbona) i diritti civili ma sottovaluta o ignora i diritti sociali.

Costruisce una moneta comune ma senza uno Stato che vi corrisponda. E nella politica estera e di sicurezza mantiene le sovranità nazionali e la subalternità pratica al patto atlantico a direzione statunitense.

Oggi le destre estreme che avanzano in nome delle sovranità nazionale ma sono prone dinnanzi alla potenza egemone più che un disfacimento dell’unione lottano per affermarne una funzione pari a quella che i fascismi storici mancarono.

Il proprio dominio in società nazionali chiuse, la eternità delle gerarchie sociali date, il prepotere razziale, la necessità delle guerre, il ciarpame del bagaglio di pregiudizi e di odio per i diversi.

E il guaio è che mentre le forze nazionali dette sovraniste della estrema destra si vanno compattando, nelle sinistre, moderate o alternative che siano, regna la divisione e la confusione. Non era una esercitazione intellettualistica lo sforzo cui anche questa rivista ha cercato di contribuire perché le sinistre anziché praticare la loro omologazione al modello liberista oppure, all’opposto, a vivere le parole d’ordine di un mondo che non c’è più, lavorassero per compiere una analisi la più precisa possibile della realtà mutata in modo da poter ridefinire il proprio stesso essere e le proprie finalità evitando di perdere la propria anima o di apparire come zombie.

Avvertendo che non si sarebbe potuto affrontare il secolo nuovo continuando il peggiore errore del passato e cioè il tatticismo, invece di tendere alla riconquista della fiducia popolare, ascoltando i bisogni, schierandosi a difesa degli ultimi e dei penultimi, apprendendo la necessità di usare i nuovi strumenti della comunicazione anziché apparire ansiosi di conquistare il consenso dei ceti privilegiati.

Altrimenti sarebbero state scontate, come sfortunatamente i fatti hanno provato, nuove sconfitte. Di fronte alla crisi delle liberal democrazie e della globalizzazione, dinnanzi al progredire delle trasformazioni che definiscono nuovi modi di essere e di dominio del capitale e nuove possibilità di controllo delle opinioni dei singoli le sinistre sono rimaste inerti forse immaginando che la bontà della Costituzione italiana si sarebbe difesa da sola. Il successo del vecchiume del nazionalismo e dell’autoritarismo in Italia come altrove viene da questa inerzia.

E con il successo dei nazionalismi cresce il pericolo delle guerre. La lotta per la pace è tornata ad essere una azione sovversiva.

Il Papa pare un sovversivo quando ricorda che la guerra giova solo ai mercanti di armi. In verità giova anche a chi si crede e si dimostra il più forte, magari – come si sa e sapeva Francesco, il santo sovversivo – levando le sacre insegne della propria religione.

La possibilità di una Europa autonoma e democratica passa innanzitutto attraverso la vittoria della pace, cioè della consapevolezza che una nuova civiltà.

Questo articolo è stato pubblicato su Critica Marxista, (novembre-dicembre 2023)

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