Operai alla ribalta sotto i fari con tanto di pugni chiusi alzati di fronte ad un folto pubblico plaudente dal quale emergono pure numerosi altri pugni chiusi! Stiamo forse parlando di anni Sessanta, Settanta o Ottanta ? Niente affatto. Stiamo parlando dei giorni nostri; in particolare, della sera del 24/1 al teatro bolognese dell’Arena del sole.
La notizia forse stupisce meno del dovuto dal momento che è già ben noto che lo spettacolo cui si sta facendo cenno e dal titolo sorprendente, Il Capitale. Un libro che non abbiamo ancora letto, non solo ha già inanellato non pochi successi in Italia e all’estero, ma ha anche ricevuto lo scorso anno il premio Ubu.
Di che si tratta, dunque, più in dettaglio? Cominciamo dall’inizio, cioè dal titolo, per l’appunto sorprendente. Avendo voglia di rifletterci su, esso si dimostra ben altro che una semplice stranezza finalizzata ad attrarre curiosità. Sotto una simile insegna al limite dell’assurdo si dà infatti perfettamente conto di quella che è stata la prima intenzione all’origine di tutto il lavoro che ha portato alla costruzione dello spettacolo. Come Nicola Borghesi – uno dei due registi (l’altro è Enrico Baraldi), e che interpreta se stesso sulla scena – proclama, questa intenzione era infatti altamente arrischiata: né più né meno trarre spunto proprio dal libro più famoso di Karl Marx, e ciò pur nella consapevolezza della difficoltà estrema dell’impresa. Difficoltà di cui chiunque può immediatamente rendersi conto provando solo a prenderseli in mano i cinque volumi e le più di tremila di pagine che lo compongono. Figurarsi allora quale possa essere lo sforzo richiesto al provare di leggerlo integralmente e con la dovuta attenzione necessaria a trarne uno spettacolo!
A complicare ulteriormente l’impresa c’è anche il fatto che, a parte il primo, gli altri quattro volumi di questa opera monumentale sono postumi, e neanche assemblati dal loro stesso autore, né mai definitivamente, tant’è che si hanno a tutt’oggi reiterate scoperte di pagine inedite, tali da far ridiscutere tutto il senso dell’opera. Un’opera, questa de Il Capitale, si aggiunga, data per morta e sorpassata numerose volte da quando nel 1867 ne uscì il primo volume, ma anche più recentemente rivalutata sul piano analitico da molta letteratura internazionale, ivi compresa quella politicamente avversa. Un’opera dunque che si può ben dire imperitura, cioè capace di rinascere dalle sue ceneri e di offrire prospettive sempre stimolanti, più che mai necessarie date le crescenti ingiustizie planetarie… ma appunto un’opera mai facilmente fruibile, tanto meno agevolmente riducibile in spettacolo.
Ecco quindi che di fronte alla complessità di tale sfida la compagnia Kepler-452 ha cercato di ricorrere al metodo che le è più congeniale. Sarebbe a dire, secondo la sua terminologia, il coinvolgimento in scena di non-professionisti (ovvero “attori-mondo”) sulla base delle proprie biografie, interpellati tramite indagini sul reale e stimolati verso momenti performativi.
A dare il là a questo progetto è stata allora la notizia dell’esistenza a Campi Bisenzio (nella periferia di Firenze) di un collettivo di operai (inizialmente più di 400) dall’estate del 2019 quanto mai attivi nell’occupazione della propria fabbrica (originariamente di semiassi per auto) e nel rispondere alle manovre volte al loro licenziamento intentate fino ad oggi vanamente da una proprietà passata dalle multinazionali, prima Stellantis, poi Melrose per approdare all’imprenditore di casa nostra Borgomeo. Il tutto sotto lo sguardo distratto di istituzioni pubbliche incredibilmente, ma pervicacemente poco o nulla sensibili all’avanzato stato di declino della produzione di auto già vanto del nostro paese.
È così dunque che i due registi di Kepler-452, avuta questa notizia, si sono proposti come osservatori partecipanti di tale esperienza, arrivando a condividerla, sia per trarne spunti, sia per coinvolgere alcuni operai protagonisti nell’occupazione a diventarne protagonisti anche nella rappresentazione teatrale.
Che operai e capitale formino una coppia va ovviamente da sé (non fosse che per il celeberrimo e omonimo libro di Tronti), ma non poi così tanto a osservare bene le cose. Il Capitale come libro infatti è stato sì certo a suo tempo chiamato anche la Bibbia dei lavoratori, ma per quel poco o tanto che lo si legga risulta subito evidentemente che molto di rado si parla direttamente di lavoratori. L’obiettivo principale è infatti orientato a mettere a fuoco non la loro figura, né le loro passioni, né la loro soggettività, quanto i meccanismi di oppressione e sfruttamento che li rendono, secondo la stessa terminologia di Marx “ schiavi moderni”: sarebbe a dire lavoratori, sì magari anche protetti da diritti, agevolati da servizi sociali e compartecipi della ricchezza esistente nel proprio paese, ma sul piano delle decisioni produttive sempre ridotti a livello di quegli schiavi che a suo tempo costruivano le piramidi.
Tra Il Capitale libro di Marx e Il Capitale spettacolo di Kepler-452 non ci sono solo infinite ed ovvie incommensurabilità, ma a livello di approccio, di sguardo può essere registrata una precisa differenza: che nel secondo, diversamente dal primo (completamente incentrato sulle dinamiche anonime di cose come il valore, il plusvalore, la caduta tendenziale del tasso del profitto e così via), tutto ruota attorno a voci, gesti, ricordi, tormenti, speranze, disperazioni recitati da lavoratori intenti a contrastare giorno per giorno e da più di tre anni, la stessa organizzazione capitalistica del lavoro, verificandone sul terreno tutta la spietata contraddittorietà.
La morale della favola, se la si vuol trarre, è dunque assai trasparente, e non priva di riverberi epistemologici e antropologici, oltre che politici: che non c’è critica dell’esistente per quanto erudita, puntuale e penetrante, tanto quanto il riferimento a Il capitale consente, la quale possa esimersi dal lasciar spazio alle parole dei diretti interessati ovvero di chi oppressione e sfruttamento li vive sulla propria pelle.
Da questo punto di vista particolarmente efficaci sono le scene de Il Capitale di Kepler-452 nelle quali in una fitta penombra nebbiosa la ribalta è tenuta dai punti di fuga individuali e per lo più disperanti verso i quali ciascun protagonista, regista compreso, si confessa inevitabilmente attratto pensando all’eventualità sempre incombente del fallimento dell’occupazione e quindi di tutta la connessa esperienza. Ma parimenti convincenti sono gli svariati momenti nei quali si sottolinea l’inattesa e la contagiosa gioia che questa stessa esperienza, malgrado incertezze e frustrazioni, è riuscita a procurare a tutti i suoi partecipanti, fino a far loro accettare sacrifici e prove in precedenza inimmaginabili.
Punti dolenti dello spettacolo? Non certo nella recitazione dell’operaia e dei tre operai che facendo la parte di loro stessi in numerose repliche sembrano avere trovato un registro equilibrato e convincente all’interno di un quadro registico e scenico opportunamente sobrio. La pregnanza dell’idea comunque mette in secondo piano ogni difetto.
Piuttosto allora per chi conosce l’intero ciclo dell’occupazione Gkn, laddove finora è giunta, può spiacere l’assenza di riferimenti ad uno degli aspetti più significativi di tutta questa esperienza. Sarebbe a dire la collaborazione tra gli stessi operai e vari esperti, docenti e ricercatori universitari, in campo legale, ingegneristico, architettonico, ecologico e così via, da cui sono nati più progetti relativi al destino della stessa fabbrica.
Al tempo della preparazione dello spettacolo, simili esperienze probabilmente non erano sviluppate o non come lo saranno in seguito. Dunque anche qui nessun appunto può essere rivolto alla straordinaria ed inventiva fatica di Kepler-452. Tuttavia, tenendo in mente sempre il solito Marx ci si potrebbe immaginare quanto tutto questo collaborare tra operai ed esperti gli sarebbe piaciuto: vi avrebbe potuto vedere infatti niente di meno che un esempio eccellente di quella riduzione delle differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che per lui rappresentava la direzione principale di quel movimento alternativo al capitalismo chiamato comunismo.
Questo articolo è stato pubblicato su Altre Velocità il 30 gennaio 2024. Immagine di copertina, Kepler452.it