Natkai (nome di fantasia) non ha scelto di nascere in Afghanistan. Quando i talebani hanno vietato alle donne di frequentare l’università, si è candidata a una borsa di studio negli Emirati Arabi Uniti e l’ha vinta. Era già in aeroporto con i bagagli, ma le è stato impedito di salire a bordo. Il suo visto per studenti non era sufficiente per giustificare l’espatrio di una donna, vietato nell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
Se Naktai fosse nata nell’Unione europea, avrebbe avuto libero accesso agli atenei dei 33 Paesi che partecipano al programma Erasmus+. Se fosse nata in India, si sarebbe potuta unire a quei quasi 200mila connazionali (solo nell’anno 2021-2022) che si sono iscritti a un’università statunitense. Sta proprio qui uno dei macroscopici paradossi che spesso si perdono di vista, nel dibattito sulle migrazioni. Nel fatto che nessuno sceglie dove nascere, ma è da questo – da una pura casualità, non certo da un merito – che dipende tutto. Sia la vita che si riceve in sorte, sia l’opportunità di cercarne una migliore. Altrove.
«Quando un giorno potremo decidere dove nascere
vedrai, finirà questa confusione
di gente che cerca lavoro senza riflettere,
di gente che cerca fortuna senza averne nessuna»Dove nascere, Federico Dragogna
Le migrazioni sono (e saranno) una costante della storia dell’uomo
«Le migrazioni di massa sono inevitabili e, oggi più che mai, sono necessarie. Nei prossimi decenni intere regioni del Pianeta attualmente sovrappopolate potrebbero finire del tutto abbandonate, mentre territori oggi spopolati potrebbero attirare le masse e diventare nuovi centri di civilizzazione. Se sei abbastanza fortunato da trovarti in qualche luogo dal quale non hai bisogno di emigrare – come il Canada o la Russia –, allora stai sicuro che ci sono migranti che stanno arrivando da te. Per parafrasare Lenin, anche se non ti interessi di migrazioni, le migrazioni si interessano di te».
È un paragrafo tratto da “Il movimento del mondo” (Fazi editore), illuminante saggio che offre una panoramica delle cinque tendenze che plasmeranno i flussi migratori nei prossimi decenni: gli squilibri demografici, la dislocazione economica, gli sconvolgimenti tecnologici, le crisi politiche e i cambiamenti climatici.
L’autore è Parag Khanna, politologo e fondatore della società di consulenza strategica FutureMap. Come si intuisce dal nome, Khanna è di origini indiane, ma incarna il messaggio del suo libro anche attraverso la sua storia personale. È cresciuto infatti negli Emirati Arabi Uniti, per poi spostarsi a New York, in Germania e a Singapore. E visitando, nel frattempo, oltre 150 Paesi.
Quante persone migrano e dove
Le migrazioni sono una costante della storia dell’uomo, fin da quando, due milioni di anni fa, i primi esseri bipedi si allontanarono dall’Africa, attraversando le aree del mar Rosso e della penisola del Sinai per raggiungere l’Eurasia. E le rappresentazioni comuni, con gli stereotipi che si portano dietro, spiegano soltanto una parte di questo fenomeno.
Innanzitutto, non è detto che per migrare si debba necessariamente attraversare una frontiera. Lo conferma il World Migration Report 2022, redatto dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che fa capo alle Nazioni Unite. Nel 2020, 281 milioni di persone vivevano in un posto diverso rispetto al proprio Paese d’origine. E sarebbero stati circa due milioni in più se non ci fosse stata la pandemia. Si tratta dunque del 3,6% della popolazione. Il maggiore corridoio al mondo è quello tra Messico e Stati Uniti, con 11 milioni di migranti. Lo seguono, a distanza, il corridoio tra Siria e Turchia (quasi 4 milioni di individui, soprattutto rifugiati a seguito della guerra civile) e quello tra l’India e gli Emirati Arabi Uniti (oltre tre milioni di individui, soprattutto lavoratori). Il 78% dei migranti internazionali ha un’età compresa fra i 15 e i 64 anni.
Per contro, ciò significa che un altro 96,4% della popolazione vive nel Paese in cui è nato. Ma queste persone potrebbero comunque essersi trasferite, magari dalla campagna alla città. Si stima che il numero di migranti interni sia tre volte quello dei migranti internazionali. Tra di loro ci sono anche i 55 milioni di internally displaced persons, cioè persone costrette a spostarsi all’interno del proprio Paese a causa di conflitti, violenze e disastri.
Quanti sono i rifugiati nel mondo
Proprio sul concetto di costrizione si gioca la definizione di rifugiato sancita dalla Convenzione di Ginevra.
«Chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi»Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati
Sempre secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, alla fine del 2020 i rifugiati nel mondo erano 26,4 milioni, il numero più alto mai registrato. Più della metà arriva da soli cinque Paesi: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e Repubblica Democratica del Congo. Lo Stato che ne accoglie di più è la Turchia (3,6 milioni, soprattutto siriani), seguita da Pakistan, Uganda, Germania e Sudan. Altri 4,1 milioni sono i richiedenti asilo, cioè coloro che attendono il riconoscimento di questo status (e della protezione internazionale che ne deriva).
Sempre nel 2020, oltre 250mila rifugiati sono ritornati in patria, di cui quasi la metà in Sud Sudan (74mila quelli che sono tornati dopo essersi rifugiati nel vicino Uganda). 34.400 sono stati reinsediati, soprattutto negli Stati Uniti (9.600), in Canada (9.200) e nell’Unione europea (11.600). Il numero è in forte calo rispetto al 2019, quando i rifugiati reinsediati erano stati 107.700. Ma il 2020 è stato un anno decisamente fuori dalla norma, per le limitazioni legate alla pandemia.
E i migranti climatici ed economici?
Lo status di rifugiato è un caposaldo del diritto internazionale. Ma ad oggi non è applicabile – perché la Convenzione di Ginevra non lo prevede – a chi deve fuggire dal proprio Paese a causa di carestie, siccità e altre conseguenze della crisi climatica. Insomma, i rifugiati climatici tecnicamente non esistono. Ma esistono 32,6 milioni di persone che solo nel 2022 sono state costrette a trasferirsi a causa dei disastri climatici (lo dice l’Internal Displacement Monitoring Centre). È un dato parziale, perché si riferisce solo alle migrazioni interne (che comunque, quando la causa è il clima, per ora sono la maggioranza). Queste persone incolpevoli rischiano di trovarsi in un limbo, perché la protezione internazionale scatta soltanto nella misura in cui, per esempio, possono dimostrare di essere scappate da una guerra causata dalla desertificazione o da un’altra catastrofe climatica.
Così come sono in un limbo i migranti economici, cioè coloro che vanno alla ricerca di una vita migliore per sé e per la propria famiglia. Questo perché, scrive Parag Khanna, «malgrado tutti gli argomenti a favore delle migrazioni di massa, non abbiamo una politica globale delle migrazioni. Al contrario, ci troviamo ad affrontare una gamma crescente di sfide morali, dagli africani che attraversano il Mediterraneo ai latinos che attraversano il Rio Grande, ad altri fenomeni critici.
La migrazione è diventata un test di Rorschach politico in quasi tutte le democrazie dell’Occidente, eppure si continuano a ostacolare gli ingressi mentre tanti migranti trovano la morte nel loro cammino verso una nuova speranza di vita. E di certo non bastano gli scarsi programmi assistenziali nei Paesi in via di sviluppo per bilanciare i danni che sono stati inferti loro (dagli interventi militari al disastro ecologico) e il fallimento dei loro sistemi amministrativi (come la corruzione e la sconsiderata crescita demografica)».
Si discute di confini e migrazioni al festival di Emergency
Chiunque voglia migrare, per qualunque motivo, ha di fronte a sé un confine. Una barriera che spesso esiste soltanto sulla carta. Ma, nonostante ciò, diventa tangibile quando si frappone di fronte alla prospettiva di un futuro migliore (o, talvolta, dell’unico futuro possibile). Il confine, nelle sue molteplici accezioni, è il tema della terza edizione del festival di Emergency, la ong italiana che da quasi trent’anni offre cure mediche gratuite e di qualità alle vittime della guerra e della povertà, in tutto il mondo. L’appuntamento è a Reggio Emilia, da venerdì 1 a domenica 3 settembre: il programma completo è disponibile nel sito del festival.
“Migrazione: perché si parte?” è la domanda che dà il titolo al panel di venerdì 1 settembre, alle ore 19:30, in piazza Prampolini. A confrontarsi, il direttore di Valori.it Andrea Barolini; Sara Manisera, giornalista di FADA e autrice; Roberto Maccaroni, clinical operation manager migration di Emergency; e Rossella Miccio, presidente di Emergency. Prevista anche la partecipazione straordinaria del poeta Tareq Aljabr. Conduce Giampaolo Musumeci, fotografo, filmmaker e giornalista di Radio24, accompagnato da Beppe Salmetti, attore, autore e presentatore; Fabio Magnasciutti, illustratore e vignettista; e infine dai Primitive Mule, alt-rock band.
Questo articolo è stato pubblicato su Valori il 31 agosto 2023