Cinque anni dopo quella tragedia, che si rivelerà una strage che si sarebbe potuta evitare, un libro-inchiesta getta luce su uno dei giorni più terribili della vita repubblicana.
Quel 14 agosto del 2018 non prometteva bene: uno di quei Ferragosto liguri dove tutto è chiuso e si è obbligati a far vacanza; il cielo era scuro e pioveva a dirotto. Poco prima di pranzo si guardava il mare sperando nella tramontana. Ma le nostre piccole preoccupazioni ferragostane finirono, di colpo, alle 11 e 36 con il crollo del Morandi. Uno smarrimento improvviso, subito seguito dall’angoscia, perché amici e cari potevano essere tra le vittime. Chi scrive ci era passato il giorno prima, come molti altri liguri, lavoratori o turisti. Il conto dei morti si fermò a quarantatré, il “grande disastro” più tragico delle strade italiane.
Quarantatré esistenze spezzate, quarantatré famiglie lacerate. Marco Grasso condivide, con grande delicatezza, scorci delle vite delle quarantatré vittime in apertura del suo libro-inchiesta (Il Crollo. Ponte Morandi, una strage italiana, Ponte alle Grazie, 2023). Il libro – una storia italiana, ma anche parte della storia d’Italia – si articola tra la descrizione del “ponte spezzato”, seguito dalle difficili indagini e i precedenti decenni di allarmi ignorati e lo sforzo di sviscerare un “sistema” che, con logica cinica e devota al profitto, conduce alla strage. Gli eventi e i (mis)fatti messi in fila da Grasso – giornalista di quelli democraticamente scomodi, che legge le carte con ostinazione – sono faticosi da smaltire e accettare. Un concatenarsi di incompetenze e costanti tentativi di nasconderle grazie a una vera e propria “macchina dei depistaggi”. I capitoli che seguono analizzano i rapporti profondi della famiglia Benetton con investimenti pubblici, amministrazione statale e politica.
Nel 1999 c’è la concessione delle autostrade ai Benetton attraverso Autostrade per l’Italia (Aspi), concessione che comprende il viadotto Polcevera, più noto come ponte Morandi, dal cognome del suo progettista. Privatizzazione avvenuta grazie a uno strumento finanziario molto creativo – il leveraged buyout – che fa leva sulla capacità di indebitamento della società che si sta acquisendo. La comparazione di investimenti tra pubblico e privato nella manutenzione del ponte non può che lasciare attoniti: nei 17 anni di gestione statale precedenti la concessione (1982-1999) la manutenzione del ponte costa 24,14 milioni di euro, mediamente 1,3 milioni di euro l’anno. Sotto l’Aspi dei Benetton, nei successivi 19 anni, 440 mila euro, pari a 23 mila euro l’anno. A fronte di ciò, i dividendi staccati da Aspi fra il 2010 e 2017 progrediscono “in modo tendenzialmente crescente”; nel 2017, ad esempio, l’anno precedente il crollo, si registrano 2,5 miliardi di dividendi straordinari.
Non si tratta di una tragedia, le tragedie annunciate vanno chiamate stragi. E che il ponte Morandi avesse problemi strutturali lo si sapeva sin da quando fu costruito, anche grazie a una relazione dello stesso progettista. Per la magistratura italiana la tesi di difesa principale di Aspi – il “vizio occulto”, in base alla quale la colpa sarebbe della costruzione iniziale che nascondeva la causa ultima del crollo – non tiene. Perché si sapeva che il ponte Morandi era il grande malato dei viadotti; ma i richiami, i rapporti e la valutazione nel corso del tempo sono stati sistematicamente ignorati. Peggio: chi tenta di far da controcanto viene defenestrato e diversi rapporti vengono “sbianchettati” o “dimenticati”. Gli inquirenti concludono che “nessuno dei soggetti [coinvolti] può davvero dire di non essere mai stato informato del degrado del viadotto Polcevera e dell’urgenza di intervenire”. Nessun vizio occulto, dunque. La pista da seguire è definita piuttosto da un profitto oculato, il mantra centrale è “spendere il meno possibile”. Da un “risk assessment” del sistema autostradale richiesto dalla stessa Aspi, dopo una strage di 40 morti sul viadotto Acqualonga (Avellino) nel 2013, emerge il rischio di un nesso causale fra il possibile crollo e la scarsa manutenzione del ponte Morandi. Ad esempio si possono prendere le innumerevoli mancanze, come nel caso dei cavi del sistema di monitoraggio del ponte tranciati tra il 2015 e il 2016 e mai sostituiti.
L’accumulo di inadempienze e di irresponsabilità che porta a una tragedia annunciata richiama le dinamiche dal micro (individui) al macro (somma ed effetti delle decisioni individuali) evidenziate da Thomas Schelling dove le scelte, sebbene ritenute non pericolose o rilevanti, creano effetti esponenziali e inaspettati, con il risultato e l’aggregato dei comportamenti che diventano tragici. Questa, come detto, non è però una tragedia, né una catastrofe, perché le vittime potevano essere evitate se si fosse investito sui necessari lavori anziché minimizzare controlli e lavori per massimizzare un profitto a beneficio di pochi. Non è quindi solo una questione privata dettata da procrastinazione, ignavia e inettitudine. Quanto piuttosto una questione pubblica, che colpisce profondamente, e per sempre, le famiglie delle vittime, ma anche una comunità e la nostra fiducia verso la politica e verso lo Stato.
Ma com’è possibile che gli interessi di tanti risultino perdenti nei confronti degli interessi di pochi? Mancur Olson nel suo classico Logica dell’azione collettiva ci spiega che elementi collusivi e di coordinamento sono più facili proprio fra i pochi che sono organizzati e ben finanziati. Per evitare il fallimento della produzione dei beni pubblici e mantenerli di qualità, dunque, abbiamo bisogno di monitoraggi, controlli e sanzioni. Il crollo è dunque anche il crollo della responsabilità politica e, di conseguenza, il crollo della fiducia che i cittadini hanno verso una classe dirigente che troppo spesso appare irresponsabile e inadeguata. Il populismo, che intacca i fondamentali della democrazia liberale, non è la causa ma la febbre di un sistema dove la politica si foraggia grazie ai fondi dei privati e appare prestare più attenzione agli interessi dei pochi anziché dei tanti.
Dal crollo del ponte Morandi sono passati cinque anni. Un nuovo viadotto, il San Giorgio, è stato ricostruito a tempo di record. Ma “abbiamo imparato la lezione”, come si chiede Marco Grasso concludendo il suo lavoro? Sembrerebbe proprio di no: in Italia duemila dei quattromila viadotti hanno raggiunto il “fine vita” e sono stati costruiti oltre cinquant’anni fa; “oltre la metà sono gestiti da Aspi, restituita dai Benetton allo Stato piena di debiti e con davanti un piano di investimenti imponente”. Al di là dei viadotti, le debolezze e rischi del sistema trasporti si nascondono in galleria: proprio in Liguria, ad esempio, la regione in Italia con il maggior numero di gallerie, “tre su quattro non sono a norma”. Nel suo complesso, la condizione della rete autostradale appare estremamente preoccupante; il ministero dei Trasporti dovrebbe controllare “quasi 6 mila chilometri di rete, affidata a 25 concessionarie”.
Lo Stato ha fallito a controllare, monitorare e garantire la protezione dei propri cittadini. Uno Stato indebolito, che anziché farsi garante degli interessi del pubblico è intaccato da interessi privati di un gruppo ristretto di persone. Affari e interessi che si intersecano in maniera collusiva e con un costante movimento di “porte girevoli” fra politica e aziende private, che agli ex-controllori garantiscono posizioni fruttuose. Il fallimento del Mercato sta nell’aver creduto che, per mantenere profitti futuri, i privati non avrebbero lesinato negli investimenti necessari. Al contrario è emersa una logica miope ed efferata per ricavare un profitto elevato che minimizzasse i costi a discapito della sicurezza. La tesi del familismo amorale italiano avanzata sul finire degli anni Cinquanta da Edward Banfield è stata sfidata da Robert Putnam nel suo studio proprio sull’Italia e la democrazia, ma il dubbio di un capitalismo familista amorale rimane. Nel 2019 Luciano Benetton ha sentito il bisogno di dichiarare “non siamo né papponi di Stato né razza padrona”. Ma al telefono i più stretti collaboratori della famiglia Benetton dichiaravano: “le manutenzioni le abbiamo fatte in calare in questi anni, più passa il tempo e meno facevamo… Cosi distribuivamo più utili”.
Fallimento dello Stato e del Mercato: un fallimento politico e non una tragedia, quanto, piuttosto, una strage italiana. Grasso non vuole stabilire una verità giudiziaria – questo è ovviamente compito della magistratura – ma vuole contribuire a definire una verità storica (e, aggiungerei, politica) attraverso un’inchiesta giornalistica. Sebbene l’autore stesso sia ben consapevole, come scrive, che il suo è un “tentativo di sicuro parziale”, questa inchiesta rimane la più ricca e profonda sin qui condotta sul crollo del Morandi. Un esempio di quel giornalismo di cui il Paese, i cittadini e la politica hanno un grande bisogno.
Questo articolo è stato pubblicato su Rivista Il Mulino il 14 agosto 2023