Opinionista, blogger, autrice di podcast e attivista, Michela Murgia è stata prima di tutto scrittrice, ma ha scelto di dedicare il suo tempo all’“amicizia civica”.
rima che Michela Murgia diventasse un simbolo dell’autodeterminazione femminista, prima che cambiasse la vita di molte persone che in lei hanno trovato un’ispirazione, uno stimolo a cambiare il loro mondo (e dunque il mondo), prima che ci raccontasse, come ha detto la scrittrice Simona Vinci, “cosa vuol dire essere vive mentre si muore. Scrivere significa anche questo”, e molto prima di insegnarci che i legami di sangue non sono quelli che contano, ma che la famiglia te la crei come vuoi tu, Michela Murgia è stata una scrittrice.
Una scrittrice che non si è mai dedicata soltanto alla scrittura, ma che ha messo fin da subito al centro l’impegno, e che talvolta ha rinunciato a occuparsi di narrativa per avere tempo da dedicare all’attivismo, agli scritti più politici, all’“amicizia civica”, per usare le sue parole. Di questo dobbiamo ringraziarla, ma di questo anche ci rammarichiamo, come lettori e lettrici, perché di certo il suo tempo è stato breve e noi avremmo voluto leggere di più.
Il suo ultimo libro Tre ciotole, che nelle intenzioni dell’autrice era nato come un pamphlet, si è poi trasformato via via in una serie di racconti letterari. “In questo senso la letteratura è davvero potente: tu hai un intento ma la penna va da un’altra parte”, aveva detto Michela Murgia nel 2012 in un’intervista a proposito di L’incontro (Einaudi). Le avevo chiesto perché, in quel romanzo in miniatura, avesse messo in scena tutti personaggi maschi: “Temevo questa domanda. Avrei voluto parlare di ragazzine, avrei voluto rendere la mia avventura al femminile, ma non ci sono riuscita. La verità è che sono cresciuta come un maschio. Non ricordo di aver mai giocato a bambole, i miei giochi erano similissimi a quelli che racconto nel libro, uccidere pantegane e prendere rane nelle canale”.
Molte cose diverse
Eccola nella sua Sardegna, Michela Murgia, nata a Cabras nel 1972, una Sardegna che amava immensamente, ma dalla quale se n’era andata. Lei che si autodeterminava in tutto, si era emancipata prima di tutto dalla sua famiglia e dalla sua terra, pur considerandola parte integrante del suo essere femminista. Michela ha lasciato presto la sua isola, prima per Milano e, dopo aver fatto brevemente ritorno in Sardegna, l’abbandona definitivamente per Roma, dove viveva ormai da tanti anni e dove era la sua casa e la sua vera famiglia.
Michela Murgia era molte cose diverse: studiosa di teologia, militante dell’Azione cattolica, portiera di notte, impiegata in un call center. Nel 2006 con il suo primo libro Il mondo deve sapere ha suo malgrado ha inventato la letteratura sul precariato. Molti non sanno che Michela Murgia si è anche candidata nelle liste di Sardegna Possibile nel 2013 per diventare presidente della regione Sardegna e che – per fortuna – ha perso. Sarebbe stato altro tempo tolto alla scrittura e alla letteratura.
Murgia negli ultimi anni, oltre che una presenza sempre stimolante sui social network che lei sapeva usare in maniera intelligente senza farsi usare (lo stesso, del resto, aveva fatto a lungo con il suo blog da cui era nato quel suo primo libro), è stata una voce. La voce di uno dei podcast più ascoltati di sempre, la serie Morgana, scritto insieme a Chiara Tagliaferri. Michela Murgia è stata anche una voce precisa, sferzante, piena, con quell’accento sardo meraviglioso e perfetto per il racconto orale e con il suo acume costante, quello di una scrittrice che aveva il talento innegabile di sapere parlare in maniera cristallina e potentissima.
A chi l’ha solo ascoltata e non letta non si può che consigliare tuttavia la lettura del suo libro più importante e insieme uno dei più maestosi della letteratura italiana contemporanea, Accabadora. Michela raccontò che lo scrisse quasi interamente di notte. “Scrivere richiede una energia esclusiva. Per finire Accabadora ho lavorato tre anni, quasi sempre di notte, senza distrazioni. Impossibile, con un neonato”. L’intervista, che risale a una decina di anni fa, era sul tema della maternità. Era stata molto chiara, come sempre, senza usare mezzi termini. Alla domanda perché hai scelto di non avere figli la risposta fu “per dedicarmi ad altro, non perché non lo volessi, ma per dedicare il tempo che mi resta al paese, alla politica, all’amicizia civica”.
In questi dieci anni Michela Murgia ha decisamente mantenuto le promesse e lo ha fatto senza darsi tregua. Non si è mai fermata, non si è mai risparmiata, non ha mai rallentato o molto poco rispetto a quello che avrebbe dovuto fare, soprattutto di recente, per le sue condizioni di salute. E di nuovo non possiamo che esserle infinitamente grati e grate. Riconoscenti per le lezioni di libertà e di coraggio impartite fino alla fine, con il suo esempio, con il suo corpo.
In questo senso forse Michela Murgia, che aveva un rapporto complesso con la religione, e ne aveva scritto recentemente nel suo “catechismo femminista” intitolato God save the queer e prima ancora in Ave Mary, è riuscita a fare del suo corpo e della sua malattia il suo ultimo romanzo.
Questo articolo è stato pubblicato su L’Essenziale l’11 agosto 2023