“La nostra anima inumana e sconfinata” (p. 17), è da qui che parte il libro di Paul B. Preciado, Dysphoria mundi (Fandango, Roma 2023). Perché è “inumana”? Perché, semplicemente, di quella che chiamiamo in modo avventato la “nostra” anima in realtà non sappiamo nulla. L’unica anima di cui abbiamo notizia, invece, è quella che ci è stata assegnata fin dalla nascita, quella che all’anagrafe un burocrate ha deciso che fosse maschile o femminile, oppure – almeno nelle nazioni dove il binarismo femmina/maschio è stato superato – che rientrasse in una terza (o quarta) anima. Quello che conta è che quest’anima stia in una casella amministrativa, sia appunto riconoscibile, che le sia attribuita una identità determinata: “nelle società moderne, l’anima è istallata nella carne come un impianto vivo che, crescendo, viene via via scolpito, come un bonsai, a forza di addestramenti e castighi reiterati, a forza di invocazioni linguistiche e rituali istituzionali, fino a essere un’identità data” (p. 18). L’identità dell’anima “è istallata nella carne”. All’inizio c’è un corpo, c’è un’anatomia, che tuttavia non decide della ‘propria’ identità. È fin troppo ovvio ribadirlo, si può nascere con un corpo, ma non è affatto detto che in quel corpo ci si senta a proprio agio. Quel corpo, e la storia biologica che porta con sé, non determina inesorabilmente un’identità, e tantomeno un destino. Ecco il punto, l’identità non sta all’inizio del percorso umano, l’identità si costruisce, si contratta, si sperimenta: “io”, scrive Paul B. (questa iniziale sta a ricordare Beatriz, il primo nome assegnato all’autore di questo libro, prima che cominciasse il suo percorso di transizione verso Paul) Preciado, “molto semplicemente, sono uno dei tanti viventi che si rifiutano con caparbietà di accettare l’agenda politica impiantata in noi fin dall’infanzia” (p. 19). Perché ogni anima, cioè ogni identità, è in realtà “una agenda politica”. Sei “donna” e allora devi soprattutto desiderare di essere madre, sei “uomo”, e allora devi desiderare di andare a massacrare e a farti massacrare in guerra. Ogni identità è una macchina politica “impiantata in noi fin dall’infanzia”. Per questa ragione la nostra anima è “inumana”, perché se è umana l’identità che ci è stata impiantata, allora l’identità che ciascuno di noi dovrà inventarsi non potrà che essere inumana.
È su questo sfondo che va inteso il titolo del libro, che rovescia il senso psichiatrico e quindi patologico della nozione di ‘disforia di genere’ – “gender dysphoria as a general descriptive term refers to an individual’s affective/ cognitive discontent with the assigned gender” (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 5, p. 451); se il concetto medico presume che la condizione ‘normale’ sia quella delle persone che non mettono in questione l’identità politica che gli “è stata installata nella carne”, Preciado, al contrario, considera la disforia come la condizione generalizzata del nostro tempo: “dysphoria mundi: [cioè] il rifiuto di gran parte dei corpi viventi del pianeta a sottostare a un regime di conoscenza e potere petrosessuorazziale; il rifiuto del pianeta vivente a essere reificato e degradato a merce di consumo” (p. 20). In questo senso disforia vuol dire non accettare le identità assegnate, siano quelle di genere che quelle politiche. Si pensi, per non fare che un esempio banale, alla condizione di chi pur non avendo legalmente diritto di venire a vivere nel mondo occidentale (quelli che in questo momento stanno rischiando la vita per attraversare il Mediterraneo diretti verso le ‘nostre’ coste) non accetta l’identità politica di “immigrato irregolare”: la legge, cioè la macchina che istituisce e assegna identità, ha deciso che il corpo del migrante non ha ‘diritto’ di venire in Europa. Ma il corpo vivente di quelle persone non conosce la legge. Ecco che allora nel tempo della dysphoria mundi, al contrario, quel corpo decide di rifiutare l’identità che gli è stata assegnata, e che lo costringe a vivere in un mondo terribile di povertà e sfruttamento, e quindi sale su quella barca scassata; un corpo che si disidentifica da un lato, e dall’altro l’ordine economico mondiale basato sulle identità fisse e immutabili (il mondo che Preciado chiama appunto “petrosessuorazziale” perché basato sullo sfruttamento del petrolio, la discriminazione in base al genere e al colore della pelle).
Preciado non parla quindi soltanto del genere e del sesso, soprattutto perché non si può parlare di genere e sesso come se fossero nozioni ‘naturali’, e tantomeno esclusivamente medico-scientifiche: tutti i corpi sono entità politiche, da quelli umani a quegli degli animali non umani, per passare alle piante e al pianeta stesso. Abbattere una foresta in Amazzonia non è una questione economica, ma politica, perché rimanda a decisioni sul futuro della vita della terra. Così come stabilire per legge quale debba essere la funzione e le possibilità generative di un corpo umano rimanda a una decisione politica; una decisione tanto più invadente quanto più si nasconda dietro il paravento ideologico della “natura”. Si prenda il caso del dibattito su quello che può fare una donna del ‘proprio’ corpo, in particolare di quell’organo decisivo che è l’utero: su questo punto Preciado è molto netto:
Di tutte le macchine viventi, nessuna è stata sfruttata, e in modo tanto compiaciuto e sacralizzato, con tanta oscena festosità, quanto il corpo con utero riproduttivo. La medicina moderna petrosessuorazziale definiva l’utero come un organo dell’apparato riproduttivo femminile. Si tratta di una definizione tautologica: la donna si definiva in riferimento all’utero e viceversa, in un loop infinito. Per sovvertire il discorso dominante dell’epistemologia della differenza sessuale, è necessario guardare all’utero come a un territorio politico, uno ‘spazio vitale’ di conquista disputato tra diverse collettività sociali (p. 400).
L’utero non è un’entità naturale, anche se è evidente che è organo di un’entità biologica. Allo stesso tempo è altrettanto evidente che non può essere l’utero a determinare le scelte di vita di una donna, come se fosse dotato di una sua inquietante volontà di dominio. In effetti la nozione più “natura” è diventata, nell’epoca della dysphoria mundi, intrinsecamente politica, un vero e proprio campo di battaglia ideologico. La prima e fondamentale operazione da fare è smontare l’idea di una presunta ‘natura’ identica a sé e immutabile, in nome, al contrario, della “radicale molteplicità del vivente e [del]l’impossibilità di ridurre la soggettività, il desiderio e il piacere alle categorie maschilità/femminilità o eterosessualità/omosessualità” (p. 173). La nozione di identità diventa così una sorta di trappola metafisica, dal momento che tutto ciò che non si conforma a quell’identità diventa immediatamente una trasgressione, un reato, una colpa. Al centro di questo mondo pietrificato c’è appunto la nozione di “natura”, il più potente degli artefatti ideologici del nostro tempo:
Il pensiero dei patriarcalisti si articola raccogliendo frammenti di retoriche religiose (cristiane, evangeliche, musulmane, ebraiche), psicoanalitiche o paleoscientifiche, residui del pensiero binario e razzialista del Diciannovesimo secolo, rovine ideologiche stratificate in un millefoglie storico che si sforzano di rappresentare come immutabile e biologico. Un ammasso di artefatti culturali del passato che costoro si compiacciono di chiamare “natura” (p. 173).
Al contrario, il primo passo della strategia politica di Preciado è quindi la disidentificazione, cioè l’operazione attraverso cui ogni corpo mette in questione l’identità che gli è stata “istallata nella carne” prima ancora della nascita, operazione che consiste nel “rifiuto delle norme di produzione di identità derivanti dalle tassonomie petrosessuorazziali. Priorità all’invenzione di pratiche di libertà, da porre davanti alla produzione di identità” (p. 553). Il mondo non è già dato, chiuso per sempre nella cornice metafisica della Natura, una cornice che non ha altra funzione che bloccare la sperimentazione di mondi diversi, ibridi e contaminati: “al contrario di quanto si potrebbe credere, la nostra salute non dipenderà dall’imposizione di frontiere o dalla separazione, dalla guerra o dalla medicalizzazione, ma da una nuova concezione della comunità, da un nuovo equilibrio tra noi e gli altri esseri viventi del pianeta” (p. 547). Per questo Preciado parla di un’anima “inumana”, perché solo un’anima del genere può pensare ad un’umanità non più antropocentrica. Un’anima che è inumana perché l’umanesimo non riesce nemmeno a immaginare che cosa potrebbe essere un’anima del genere.
In questo senso la “dysphoria mundi […] è un indice della potenza (non del potere) dei corpi viventi del pianeta (e del pianeta stesso in quanto corpo vivente) di sottrarsi alla genealogia capitalista, patriarcale e coloniale grazie a pratiche di insubordinazione, di dissidenza e disidentificazione” (p. 25). Rovesciando la tradizionale impostazione metafisica che considera fondamentale l’identità di qualcosa (quella che un tempo si chiamava essenza) nel mondo ‘disforico’ di Preciado – erede esplicito della tradizione di Lacan e di Deleuze e Guattari – prima c’è il movimento e la trasformazione. Quindi “la domanda non è più chi siamo, ma in che cosa ci trasformeremo” (p. 38); ma siccome la trasformazione è già in corso, si tratterà allora di accompagnare questa stessa trasformazione, perché ormai “il punto non è più chi siamo, ma che cosa vogliamo diventare” (p. 62).
Questo articolo è stato pubblicato su Doppiozero il 1 agosto 2023