Se avessimo in Italia, come in altri paesi, un osservatorio pubblico permanente sui reati compiuti – in servizio e no – da appartenenti alle forze dell’ordine, forse ci stupiremmo meno degli abusi e delle violenze che affiorano alle cronache, e avremmo più strumenti di prevenzione. È almeno dai tempi della banda della Uno bianca – un gruppo criminale insediato per anni nel cuore della questura di Bologna, fino agli arresti del 1994 – che si parla di introdurre nuovi strumenti di controllo e prevenzione permanenti nei corpi di polizia. Si ipotizzò, a quel tempo, di investire più risorse nella formazione, di introdurre nuove istituzioni di verifica e garanzia, di spalancare le porte al dialogo con la società civile, insomma di riprendere il filo della riforma della polizia di Stato, approvata nel 1981 e mai davvero attuata fino in fondo. Ben poco, ahinoi, è seguito a questi buoni propositi e nemmeno le scioccanti giornate del luglio 2001 durante il G8 di Genova furono poi sufficienti a spingere i vertici degli apparati e i responsabili politici verso una concreta azione di approfondimento, ascolto e intervento.
Così oggi ci troviamo, di volta in volta, a stupirci (pochi ormai, in verità) e indignarci (moltissimi) quando si ha notizia di gravissimi abusi di potere e casi di violenza gratuita, eccessiva o sadica, a seconda dei casi. È successo, recentemente, alla vista di un filmato che documentava i calci e i colpi di manganello inflitti a una donna a terra e indifesa da parte di alcuni agenti della polizia locale di Milano e pochi giorni fa di fronte agli arresti di cinque agenti in servizio alla questura di Verona, accusati di numerosi reati, inclusa la tortura, per vessazioni e violenze inflitte per lo più a individui considerati “marginali”: immigrati stranieri, persone senza casa. Ma potremmo parlare di molti altri casi: basti evocare località come Santa Maria Capua Vetere, Piacenza, San Gimignano e verranno alla mente racconti raccapriccianti e cronache di inchieste e processi.
Il caso di Verona, è stato detto, differisce dagli altri avvenuti negli ultimi tempi per la condotta tenuta dall’istituzione: l’inchiesta è stata condotta dagli stessi agenti della questura di Verona, che hanno voluto e saputo smascherare i propri colleghi poi arrestati, i quali avevano formato – stando alle informazioni disponibili – una sorta di “squadraccia” dedita a una vasta gamma di irregolarità, violenze e angherie. Il quadro d’insieme, tuttavia, resta inquietante, sia per i precedenti citati, sia perché l’encomiabile attivismo degli apparati nell’indagine è per ora isolato. C’è da sperare, naturalmente, che si tratti di un “nuovo inizio” e che la collaborazione stretta con la magistratura diventi la regola, smentendo l’attitudine mostrata all’indomani del G8 genovese, quando le forze dell’ordine, cioè i loro vertici e a cascata funzionari e agenti, si distinsero per la scarsa propensione, diciamo così, ad aiutare i pubblici ministeri nella ricerca della verità e nell’incriminazione dei responsabili di gravi reati commessi da uomini e donne in divisa. Prevalse negli apparati, come sempre o quasi sempre accaduto in precedenza, una logica corporativa che potremmo definire pre-democratica, se vogliamo attenerci all’idea che i corpi di polizia, in uno Stato di diritto, hanno il preciso compito di tutelare la legalità costituzionale e di rendere conto dei propri comportamenti, e specialmente dei propri errori, non solo alla magistratura ma anche alla cittadinanza intera.
È forse questa un’ingenua aspirazione? Una mera proiezione teorica che fa a pugni con la prosaica realtà dei fatti storici? Possibile. Ma la riforma della polizia di Stato nel 1981 – va riconosciuto – fu sostenuta da un autentico spirito di apertura democratica, sebbene il G8 di Genova, coi suoi disastri, abbia fatto capire che tale slancio, a distanza di vent’anni, era già evaporato, che la riforma era stata svuotata dall’interno, in qualche modo sterilizzata. Il disastro genovese poteva però essere l’occasione per tentare di nuovo, per rilanciare lo spirito iniziale della riforma. Si doveva – e si poteva – realizzare in quel momento una grande inchiesta interna, sotto gli occhi di tutti e in dialogo con l’opinione pubblica, in modo da capire come e perché siano cresciute o si siano insediate nelle polizie italiane sub-culture non democratiche (qualcuno ha dimenticato i cori, gli slogan, gli insulti di marca fascista documentati nel luglio 2001?), pratiche ricorrenti di tortura (vedi le torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere come replica degli stessi orrori visti nella caserma di Bolzaneto vent’anni prima), un’inquietante attitudine a mentire e falsificare gli atti, nonché uno sconcertante rifiuto di accettare regole di garanzia e strumenti formalizzati di trasparenza (come i codici identificativi e il citato osservatorio sui crimini, ma potrebbero essercene altri).
Poiché niente o quasi niente è stato fatto in tale direzione, all’ordine del giorno restano gli stessi nodi irrisolti, forse addirittura aggravati da un ventennio di negligenze e colpevoli chiusure. A ben vedere, lo stesso attivismo mostrato dalla questura di Verona nell’inchiesta sui crimini compiuti al suo interno appartiene a una categoria che dovrebbe essere ovvia, ossia la leale collaborazione dell’istituzione polizia con l’istituzione magistratura. Non è poco, visti i precedenti, ma non è certo abbastanza, sia perché ancora non sappiamo se siamo di fronte a una novità duratura, sia perché il compito della magistratura rimane, per definizione, un controllo esterno e successivo su eventuali notizie di reato.
Le nostre polizie, oggi, hanno bisogno di molto di più: un intervento di ascolto su vasta scala delle voci (e del malessere) che vengono dall’interno, un aggiornamento delle norme e degli strumenti di controllo e verifica delle condotte sbagliate, un’autocritica seria sui fatti e le omissioni degli ultimi anni, una riflessione onesta sulla propria missione in una democrazia matura e segnata in passato (e nel presente) da troppe brutture e cedimenti; le nostre polizie, in breve, hanno bisogno di una nuova riforma democratica.
Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 13 giugno 2023