Eritrea, viaggio nel passato coloniale italiano

di Paolo Calvino /
8 Aprile 2023 /

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L’Eritrea non è una destinazione qualunque per un viaggiatore italiano: è la prima colonia del Regno d’Italia, che la istituì con tale nome nel 1890, raggruppando i territori di cui si era impossessato nei due decenni precedenti; già dal 1887 vi era stato allestito, a Nocra, un campo di concentramento per oppositori politici; è in Eritrea che il Regio Esercito reclutò migliaia di combattenti, gli ascari, per le sue guerre coloniali; è dall’Eritrea che sono partite migliaia di vittime delle migrazioni degli ultimi due decenni. Fu in un’ordinanza del Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli, emanata nel 1880 per normare l’insediamento di Assab, che si sancì la segregazione razziale, stabilendo che «indigeni e indiani abbiano residenza separata da quella degli europei»; saperlo, così come sapere che il Regio decreto legislativo 880 del 1937 vietò nelle colonie i rapporti «d’indole coniugale» tra italiani e «sudditi», aiuta a smontare il luogo comune che vuole l’Italia razzista solo dopo l’avvicinamento di Mussolini a Hitler. 

Di queste come di altre importanti questioni, però, si discute solo in cerchie ristrette. Ed è proprio per questo che nel 2019 Tommaso Giartosio, poeta e scrittore, ha partecipato al viaggio in Eritrea di un gruppo di fotografi, invitato dal loro coordinatore Antonio Politano, dal quale è nato il suo Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea, appena uscito da Einaudi.

L’Italia, scrive Giartosio, «ha voluto dimenticare l’Eritrea», renderla invisibile.

C’è stata una distorsione della realtà nel periodo coloniale, dal 1869 al 1941, e ci sono state una revisione e una rimozione delle vicende storiche nel dopoguerra, funzionali all’autoassoluzione da parte dei colonizzatori, ma a partire dagli anni Sessanta il velo che nascondeva la reale natura del colonialismo italiano è stato squarciato dalle ricerche dello storico novarese Angelo Del Boca, seguito da Nicola Labanca e altri ricercatori. Nonostante ciò, pochi italiani condividono l’assunto di Giartosio: le vittime delle guerre coloniali e dell’occupazione del Corno d’Africa «ci riguardano». Libri, documentari e film sono da tempo disponibili, ma vengono letti e visti da pochi. L’anticolonialismo è stato sempre minoritario, come ha mostrato lo storico Romain Rainero. Manca il desiderio di «incontrare» questo passato e questo presente. In Eritrea non si vuole viaggiare.

Da questo punto di vista il titolo del libro, che nello specifico riguarda l’esperienza del gruppo di cui Giartosio faceva parte, si potrebbe anche riferire a ciò che in Italia non si è voluto vedere del passato coloniale. Con Tutto quello che non abbiamo visto l’autore cerca di «raccontare l’invisibile» e così si unisce, come scrittore, a quanti negli ultimi anni hanno lavorato per richiamare l’attenzione sul passato coloniale italiano e suoi suoi effetti di lungo periodo; solo per citare alcuni esempi: la cantante e scrittrice Gabriella Ghermandi, lo storico Emanuele Ertola, il Polo del ‘900 di Torino, la ricercatrice Daphné Budasz, il collettivo Wu Ming.

Giartosio affronta fin dalle prime pagine la questione cruciale del suo viaggio e del suo racconto, l’aspirazione che non può essere soddisfatta: vorrebbe «raggiungere il corpo eritreo. Indossarlo».

È arrivato a formulare in questo modo il suo tormento dopo aver constatato che vorrebbe vedere ciò che vedono i ragazzi eritrei (e che lui si rende conto di non vedere), e vorrebbe mangiare «tutto quello che mangiano loro, come lo mangiano loro». Quasi come uno Schopenhauer alla ricerca della Volontà, ha individuato nel corpo la via privilegiata per accedere a ciò che apparentemente o per consuetudine è ritenuto inaccessibile. Nel suo tentativo prova a danzare, a imitare, a giocare con i bambini: sempre usando il proprio corpo.

Dunque, Giartosio vorrebbe annullare la distanza che lo separa dagli eritrei che incontra e basta questo proposito a chiarire cosa distingue lo scrittore dai colonizzatori, i quali, al contrario, le distanze rispetto ai colonizzati le volevano mantenere e ribadire, nella prospettiva gerarchica di chi si proclama superiore ad altri esseri umani. Tuttavia, da certi comportamenti bisogna prendere le distanze se non si vuole essere catalogati nello stesso gruppo dei colonizzatori solo perché italiani. L’equidistanza rispetto ad aggressori e aggrediti è impraticabile. Per collocarsi in quale gruppo? Non nei colonizzatori, ovviamente, ma nemmeno nei colonizzati, altrettanto ovviamente. Come chiamare il gruppo di coloro che simpatizzano con i colonizzati e, più in generale, con chiunque subisca una violazione dei suoi inalienabili diritti umani? Umanista? Persona civile? Progressista? Attivista? Viaggiatore responsabile? Le etichette o sono troppo vaghe o sono state bruciate dall’uso che se ne è fatto, e così «noi» (mi metto nel gruppo) non sappiamo come definirci. E questo è un grave problema, perché, come constatiamo ogni giorno, un gruppo indefinibile non attira nuovi membri, anzi ne perde.

L’Eritrea non è una destinazione qualunque per un viaggiatore italiano: è la prima colonia del Regno d’Italia, che la istituì con tale nome nel 1890, raggruppando i territori di cui si era impossessato nei due decenni precedenti; già dal 1887 vi era stato allestito, a Nocra, un campo di concentramento per oppositori politici; è in Eritrea che il Regio Esercito reclutò migliaia di combattenti, gli ascari, per le sue guerre coloniali; è dall’Eritrea che sono partite migliaia di vittime delle migrazioni degli ultimi due decenni. Fu in un’ordinanza del Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli, emanata nel 1880 per normare l’insediamento di Assab, che si sancì la segregazione razziale, stabilendo che «indigeni e indiani abbiano residenza separata da quella degli europei»; saperlo, così come sapere che il Regio decreto legislativo 880 del 1937 vietò nelle colonie i rapporti «d’indole coniugale» tra italiani e «sudditi», aiuta a smontare il luogo comune che vuole l’Italia razzista solo dopo l’avvicinamento di Mussolini a Hitler. 

Di queste come di altre importanti questioni, però, si discute solo in cerchie ristrette. Ed è proprio per questo che nel 2019 Tommaso Giartosio, poeta e scrittore, ha partecipato al viaggio in Eritrea di un gruppo di fotografi, invitato dal loro coordinatore Antonio Politano, dal quale è nato il suo Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea, appena uscito da Einaudi.

L’Italia, scrive Giartosio, «ha voluto dimenticare l’Eritrea», renderla invisibile.

C’è stata una distorsione della realtà nel periodo coloniale, dal 1869 al 1941, e ci sono state una revisione e una rimozione delle vicende storiche nel dopoguerra, funzionali all’autoassoluzione da parte dei colonizzatori, ma a partire dagli anni Sessanta il velo che nascondeva la reale natura del colonialismo italiano è stato squarciato dalle ricerche dello storico novarese Angelo Del Boca, seguito da Nicola Labanca e altri ricercatori. Nonostante ciò, pochi italiani condividono l’assunto di Giartosio: le vittime delle guerre coloniali e dell’occupazione del Corno d’Africa «ci riguardano». Libri, documentari e film sono da tempo disponibili, ma vengono letti e visti da pochi. L’anticolonialismo è stato sempre minoritario, come ha mostrato lo storico Romain Rainero. Manca il desiderio di «incontrare» questo passato e questo presente. In Eritrea non si vuole viaggiare.

Da questo punto di vista il titolo del libro, che nello specifico riguarda l’esperienza del gruppo di cui Giartosio faceva parte, si potrebbe anche riferire a ciò che in Italia non si è voluto vedere del passato coloniale. Con Tutto quello che non abbiamo visto l’autore cerca di «raccontare l’invisibile» e così si unisce, come scrittore, a quanti negli ultimi anni hanno lavorato per richiamare l’attenzione sul passato coloniale italiano e suoi suoi effetti di lungo periodo; solo per citare alcuni esempi: la cantante e scrittrice Gabriella Ghermandi, lo storico Emanuele Ertola, il Polo del ‘900 di Torino, la ricercatrice Daphné Budasz, il collettivo Wu Ming.

Giartosio affronta fin dalle prime pagine la questione cruciale del suo viaggio e del suo racconto, l’aspirazione che non può essere soddisfatta: vorrebbe «raggiungere il corpo eritreo. Indossarlo».

È arrivato a formulare in questo modo il suo tormento dopo aver constatato che vorrebbe vedere ciò che vedono i ragazzi eritrei (e che lui si rende conto di non vedere), e vorrebbe mangiare «tutto quello che mangiano loro, come lo mangiano loro». Quasi come uno Schopenhauer alla ricerca della Volontà, ha individuato nel corpo la via privilegiata per accedere a ciò che apparentemente o per consuetudine è ritenuto inaccessibile. Nel suo tentativo prova a danzare, a imitare, a giocare con i bambini: sempre usando il proprio corpo.

Dunque, Giartosio vorrebbe annullare la distanza che lo separa dagli eritrei che incontra e basta questo proposito a chiarire cosa distingue lo scrittore dai colonizzatori, i quali, al contrario, le distanze rispetto ai colonizzati le volevano mantenere e ribadire, nella prospettiva gerarchica di chi si proclama superiore ad altri esseri umani. Tuttavia, da certi comportamenti bisogna prendere le distanze se non si vuole essere catalogati nello stesso gruppo dei colonizzatori solo perché italiani. L’equidistanza rispetto ad aggressori e aggrediti è impraticabile. Per collocarsi in quale gruppo? Non nei colonizzatori, ovviamente, ma nemmeno nei colonizzati, altrettanto ovviamente. Come chiamare il gruppo di coloro che simpatizzano con i colonizzati e, più in generale, con chiunque subisca una violazione dei suoi inalienabili diritti umani? Umanista? Persona civile? Progressista? Attivista? Viaggiatore responsabile? Le etichette o sono troppo vaghe o sono state bruciate dall’uso che se ne è fatto, e così «noi» (mi metto nel gruppo) non sappiamo come definirci. E questo è un grave problema, perché, come constatiamo ogni giorno, un gruppo indefinibile non attira nuovi membri, anzi ne perde.

Questo articolo è stato pubblicato su Doppiozero il 29 marzo 2023

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