Francia, un paese che si solleva

di Frédéric Lordon /
28 Marzo 2023 /

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Per fare dell’insurrezione francese un mezzo e non un fine, dice Frédéric Lordon, occorre formulare un desiderio politico positivo in cui la forza del numero possa riconoscersi

Lunedì 20 marzo, le prime pagine della stampa francese sono tutte dedicate all’eccitazione per una mozione di sfiducia, a contare i deputati che potrebbero votarla, a soppesare le possibilità, a prevedere gli assetti futuri, a fare la parte degli informati – che delizia il giornalismo politico: un passaporto per l’inanità politica.

Nel frattempo, insorta con tutta la sua forza, la politica si è impadronita del paese. Uno sciame di iniziative spontanee si dirama da tutte le parti – scioperi senza preavviso, blocchi stradali, tumulti o semplici manifs sauvages, assemblee studentesche ovunque, l’energia dei giovani a Place de la Concorde, per strada. Tutti si sentono sui carboni ardenti, le loro gambe sono impazienti – impazienti, certo, ma non delle sciocchezze che appassionano i ristretti circoli dell’intellighenzia parigina. I circoli, paradossalmente, sono simili ai vertici. Come i giornalisti, che restano incollati a Macron e a Élisabeth Borne, hanno una cosa in comune: gli uni come gli altri ignorano ciò che sta realmente accadendo, vale a dire l’ebollizione del paese.

È bello quello che succede quando l’ordine costituito comincia a deragliare. Piccolezze inaudite, che rompono l’isolamento rassegnato e l’atomizzazione su cui i potenti fondano il loro potere. Ed ecco che i contadini portano ceste di verdure ai ferrovieri in sciopero; un ristoratore libanese distribuisce falafel ai manifestanti sequestrati dalle «nasses» poliziesche [l’accerchiamento dei manifestanti, Ndt]; studenti e studentesse che si uniscono ai picchetti; e presto vedremo anche i cittadini aprire le loro porte per proteggere i manifestanti dalla polizia. Il vero movimento sta iniziando. Ormai si può addirittura dire che la situazione è pre-rivoluzionaria. Ma che prospettive ha di fronte a sé? Può essa liberarsi del «pre», per diventare pienamente rivoluzionaria?

Il governo dei rastrellamenti

Crollata la sua legittimità, l’attuale potere costituito non è nient’altro che pura coercizione. Avendo distrutto ogni mediazione, l’autocrate è ormai separato dal popolo soltanto da una schiera di poliziotti. Da questo individuo, che la ragione ha abbandonato da tempo, ci si può allora aspettare di tutto.

Macron, d’altra parte, non ha mai compreso l’alterità. La sua psiche ignora cosa siano gli altri, un altro soggetto. Egli dialoga solo con sé stesso: per lui, ciò che sta fuori non esiste. Soprattutto per questo motivo il suo discorso, il senso stesso delle sue parole, non è soggetto alle normali procedure di verifica della validità del dialogo. Il 3 giugno 2022 egli può affermare senza battere ciglio che «cambierà metodo», perché «i francesi sono stanchi delle riforme che vengono dall’alto», ed aggiungere poi, il 29 settembre, che «non si possono imporre le decisioni ai cittadini». Non è forse ovvio che con un tipo del genere ogni possibilità di dialogo sia di fatto abolita? Che nulla di quel che dice possa essere preso sul serio? È facile capire che una persona del genere, non conoscendo altro che sé stesso, è rigorosamente incapace di qualsiasi ammissione di colpa che non sia fittizia, perché bisognerebbe ascoltare ciò che è fuori, l’altro-da-sé, per rendersi conto dei propri errori. Ecco perché tutte le sue promesse di «reinvenzione» (che tanto incantano i giornalisti) non sono altro che pantomime prodotte dal suo circolo ristretto.

Da questo potentato, interamente abbandonato al suo moto inerziale da istituzioni politiche potenzialmente (e ormai di fatto) liberticide, ci si può aspettare ogni tipo di violenza – tutto può accadere. E d’altronde tutto sta accadendo. I filmati della «nasse» di domenica a rue Montorgueil [nel centro di Parigi, tra Les Halles e la fermata della metro Étienne Marcel, Ndt] sono perfettamente chiari a questo proposito. La politica di Macron si sta dissolvendo interamente nell’intimidazione poliziesca. D’ora in poi il potere governa, grazie alla sua polizia, a mezzo di rastrellamenti: con delle autentiche retate. Prendono chiunque capiti, in qualsiasi modo, perfino i passanti, persone senza alcun legame con le manifestazioni, donne e uomini impauriti, stupefatti da quello che succede. Un solo messaggio deve passare: non uscite in strada, restate a casa, guardate la Tv, obbedite.

Si rivela così il patto inconscio che la polizia stipula con le sue reclute. L’accordo tra un’istituzione dedita alla violenza e individui alla ricerca di soluzioni legali per soddisfare le proprie pulsioni violente non può che essere naturale, immediato. Tale accordo trova un’occasione senza precedenti in una situazione pre-rivoluzionaria, quando appunto il potere può essere detenuto solo con la forza, e nel momento in cui alle manovre della forza, come risorsa ultima, viene attribuita un’importanza smisurata, oltre che completa carta bianca. Come abbiamo già visto in occasione del movimento dei Gilets Jaunes, questo è il tempo dei sadici e dei bruti in uniforme.

La tesi per cui «I poliziotti sono dalla nostra parte!» è ormai del tutto obsoleta, non ha più alcuna concretezza: il fascino impulsivo dell’autorità violenta ha assolutamente la meglio sulla vicinanza sociale oggettiva con i manifestanti, su cui poggia l’illusione dell’«unione» – si tratta di un materialismo volgare, se prende in considerazione solo i dati dell’esistenza materiale e ignora tutto il resto (che non è interamente riducibile a essi). È questo il modo in cui le strutture producono i loro effetti, in cui un ordine soddisfa le sue necessità: trasmettendosi nella psiche dei funzionari che si è scelto. Da Macron, che si trova al vertice, fino all’ultimo agente abbrutito, mobilitato nelle strade.

Controforze 

Tuttavia, esistono delle controforze che ci possono proteggere dallo sprofondamento nella tirannia o, più semplicemente, dal rischio di essere fisicamente schiacciati dalla polizia. Citiamo la prima per amor di coscienza, cioè senza crederci troppo. È forse possibile che qualche residuo di moralità, qualche idea dell’equilibrio e dei punti di rottura, sopravviva ancora nell’apparato statale – non certo al ministero dell’Interno, dove il virus autoritario si è diffuso ovunque e dove troneggia un ministro quasi del tutto fascista, proprio come le sue truppe – ma nei gabinetti, nei cosiddetti «entourage» dove, a un certo punto, potrebbe formarsi la consapevolezza che si stanno oltrepassando i limiti politici, l’ansia di commettere l’irreparabile. Come sappiamo, è meglio non contare troppo sulle ipotesi di un sussulto morale, su una forma laica di miracolo, soprattutto nello stato di corruzione, morale e finanziaria, della nostra sedicente «epubblica esemplare» – e tantomeno nel momento più critico della difesa dell’ordine borghese.

Una controforza più materiale è legata al possibile sbandamento della polizia. Non grazie a un’iniziativa di lotta localizzata – in queste circostanze, e a meno di non sviluppare rapidamente nuove tattiche, probabilmente non c’è speranza di riuscita – ma su scala nazionale. Infatti, se da qualche parte al ministero dell’Interno c’è un big board stile Dottor Stranamore, esso starà senza dubbio lampeggiando come un albero di Natale, ma solo di rosso. La polizia aveva resistito durante i Gilets Jaunes (e non senza sfiorare l’esaurimento), perché gli «atti» del movimento si svolgevano in un numero limitato di grandi città e solo una volta alla settimana. Ora invece sta accadendo ovunque in Francia, tutti i giorni. Si è dispiegata la meravigliosa forza del numero – il terrore di tutti i poteri, e la stella polare di ogni rivoluzione. Hanno già la lingua di fuori, e il fiato corto, dietro le visiere. Ma non hanno ancora finito di correre e di fare chilometri sui loro furgoni. Bisogna piazzargli i fuochi d’artificio, in modo che quell’albero di Natale diventi un’enorme ghirlanda rossa e che il big board faccia saltare in aria il tavolo. Ecco un tema nevralgico, oggi, per il movimento: lo sfinimento della polizia.

Infine, c’è una risorsa di altro tipo: l’odio per la polizia – ma inteso come forza positiva, motrice. Quando il potere scatena i suoi sgherri, in effetti, possono prodursi due risultati radicalmente diversi: l’intimidazione oppure la moltiplicazione della rabbia. Tutti i ribaltamenti si verificano quando il primo risultato si trasforma nel secondo. Ci sono molte ragioni per pensare che siamo ormai arrivati a questo punto. Sarebbe infatti riduttivo dire che, nel paese, si respira un’atmosfera di rabbia. Siamo ben oltre: l’odio per la polizia è destinato raggiungere una profondità e un’ampiezza senza precedenti. Ora, con Macron attaccato alle sue guardie, l’odio per la polizia si converte ipso facto in odio per Macron. E quest’ultimo, in verità, non sappiamo esattamente come e dove finirà – la cosa migliore sarebbe: in fuga in elicottero.

Andare oltre il «pre»

È evidente a tutti che, a forza di voler troneggiare da solo, come un eroe in gloria, Macron si è attaccato a qualsiasi cosa: si è attaccato alla legge sulle pensioni, così come si è attaccato alla polizia, ed è perciò diventato, per metonimia, la sintesi vivente di tutte le indignazioni particolari, e infine il loro unico oggetto. Per spingere più in là questa metonimia, ma anche per riconoscere una necessità strutturale, si potrebbe dire che Macron è anche attaccato all’«ordine capitalista». Ecco, quindi, che si pone la questione all’ordine del giorno: farla finita con «Macron, ossia l’ordine capitalista». Ovvero, una questione rivoluzionaria.

Tale questione, ormai di scottante attualità, può essere rivoluzionaria anche senza che lo sia la situazione oggettiva in cui è posta. La storia ha mostrato che, in questo caso, ci sono due opzioni possibili: aspettare pazientemente, come uno spettatore sulla riva, che la situazione si trasformi spontaneamente in tempesta, oppure provare a dare attivamente una spinta perché lo diventi. E ciò a rischio di sbalzi, forse, ma con l’eventuale aiuto dei ritmi della storia che, in determinate congiunture, possono subire accelerazioni fulminee. In ogni caso, non si passa dall’attuale situazione «pre-rivoluzionaria» a un contesto «rivoluzionario» solo con la negatività di un rifiuto. Serve anche un’affermazione, un enorme «per», che realizzi l’unificazione delle forze di tutti. Che cosa può essere? – la domanda va intesa a condizione di essere all’altezza di quel guazzabuglio indefinito che si sta sollevando nel paese, e deve avere per obiettivo di farlo passare a una forma definita.

Per fare dell’insurrezione un mezzo e non un fine, perché essa si trasformi in un vero processo rivoluzionario, occorre articolarne uno sbocco. Vale a dire, formulare un desiderio politico positivo, in cui la forza del numero – ancora e sempre lei – possa riconoscersi. Ma non dobbiamo cercare molto per trovare un tale sbocco. Anzi, in qualche modo lo conosciamo già: si tratta di occuparci noi stessi dei nostri affari, a partire da quelli della produzione. Il desiderio politico positivo, quello che il capitalismo e le istituzioni politiche borghesi offendono per principio e per definizione, è quello della sovranità.

La sovranità dei produttori sulla produzione: ecco qualcosa che può risuonare, e ben al di là della sola classe lavoratrice, la prima a esserne coinvolta. Perché, sempre più numerosi, quelli che si definiscono «colletti bianchi» soffrono anch’essi della stupidità manageriale, del controllo cieco degli azionisti, dell’idiozia delle scelte produttive dei loro dirigenti, quando non della loro nocività, e aspirano – ed è già un’aspirazione immensa – ad avere voce in capitolo su tutto ciò di cui sono espropriati.

C’è legittimità, e quindi titolo alla sovranità, solo per coloro che praticano il lavoro. Quanto a coloro che, pur non sapendo nulla, pretendono di organizzarlo, consulenti e pianificatori, sono solo parassiti, e come tali vanno cacciati. L’argomento supremo, incontestabile a favore della sovranità dei produttori è stato avanzato da un sindacalista, Eric Lietchi, della Cgt Energie di Parigi. I bilanci parlano da soli, ha osservato: sotto la guida della classe parassitaria, il paese è stato distrutto. Gli ospedali sono in rovina, la giustizia è in rovina, l’istruzione è in rovina, la ricerca e l’università sono in rovina, la medicina è in rovina – i farmacisti vengono pregati di produrre amoxicillina nei loro retrobottega. Quest’autunno, Borne si è ridotta a sperare nella «grazia di Dio» che l’inverno non fosse troppo freddo, perché l’industria elettrica – in rovina come il resto – potesse reggere. Si fanno reclutamenti flash degli insegnanti, in mezz’ora. I dipendenti pubblici vengono mobilitati per guidare gli autobus – e in futuro pure i treni? La gente, inoltre, ha fame. Non avremmo mai pensato che fosse possibile scrivere una cosa del genere a questa latitudine, ma i fatti parlano da soli: un quarto dei francesi non ha abbastanza da mangiare. I giovani hanno fame. Le code per gli aiuti alimentari sono interminabili. Tra questo e la polizia, France 2 potrebbe fare un classico servizio stile «quadro d’insieme», ma alla cieca, senza indicare di quale paese si tratta: si organizzerebbe subito un Machinthon di solidarietà; Juliette Binoche si taglierebbe una ciocca di capelli e Glucksmann preparerebbe un appello sui giornali – per questi sfortunati dell’altro mondo.

In pochi decenni, con un picco a partire dal 2017, un intero modello sociale è stato messo in ginocchio. Loro hanno messo in ginocchio l’economia. Non la Cgt, non il fronte intersindacale – se solo fosse così! – ma loro. Sono i sedicenti «competenti» ad aver rovinato il paese. La disorganizzazione è totale. Come sappiamo, il diploma e la competenza sono stati storicamente promossi dalla borghesia come titoli sostitutivi del sangue e del lignaggio per spodestare l’aristocrazia. Il paradosso (ma non lo è davvero) è che, nel tardo capitalismo, l’incompetenza della borghesia sia diventata una forza in sé – possiamo darle il nome con una minima variazione di Schumpeter: distruzione distruttrice. Oppure il suo nome proprio: McKinsey.

Immaginare l’inaudito

L’argomento del sindacalista Lietchi assume qui tutta la sua forza. L’idea della sovranità dei produttori, di solito relegata al mondo dei sogni, giunge come la logica conseguenza di un fatto inconfutabile. Se ne trae la conclusione con altrettanta nettezza: bisogna cacciare via questi idioti dannosi e riappropriarsi della totalità della produzione. Quelli non sono stati in grado di fare nulla? I lavoratori e le lavoratrici lo sapranno fare, anzi, già sanno farlo. Si potrebbe pensare che questo sia il vero significato da dare alle parole «sciopero generale»: non la cessazione generale del lavoro, ma l’atto d’inizio della riappropriazione generale dei mezzi di produzione – l’inizio della sovranità dei produttori.

È a questo punto che l’evento rivela la sua potenza inaudita, anche se per il momento solo sul piano dell’immaginario. È inaudita, in effetti, la fisionomia delle imprese quando tornano nelle mani dei lavoratori. Inaudita è la riorganizzazione dei servizi pubblici quando sono sotto la direzione di chi sa curare, insegnare, controllare la sicurezza delle ferrovie e guidare i treni, tracciare linee, distribuire la posta avendo il tempo di parlare con le persone, ecc. Inaudita è l’apertura delle università a tutti e tutte, la liberazione dell’arte dalla borghesia degli artisti e dai suoi sponsor capitalisti. Inaudita è la disfatta della borghesia, la condanna storica della sua caratteristica miscela di arroganza e nullità – non sapendo fare nulla, non ha mai fatto altro che far fare agli altri.

Si converrà che l’immaginario non costituisce, in sé stesso, un progetto ben definito – tanto meglio, d’altronde. Esso può però almeno dare una direzione allo spirito. In questo caso, una direzione comune, derivata dalla questione politica centrale, da declinare in ogni modo e a tutti i livelli: chi decide? Più precisamente, si tratta di una decisione derivata da un principio: tutti gli interessati hanno il diritto a decidere.

Questo principio fa da spartiacque. Per la borghesia, solo la borghesia è competente e ha perciò il diritto di decidere. CNews, che rivela la vera natura della tarda borghesia, la sua vera natura, fascista se necessario, è perfettamente consapevole del pericolo: «Dobbiamo forse temere il ritorno del comunismo?» – titolava un suo servizio della scorsa settimana. Anche se involontariamente, la domanda è posta, in fin dei conti, nel modo più corretto. Finché per «comunismo» si intende il partito opposto, il partito del diritto di tutti, il partito della sovranità generale, il partito dell’uguaglianza, la domanda è giusta.

Il meraviglioso insorgere dei Gilets Jaunes ha avuto il limite di non essersi mai legato alla questione salariale. Quanto ai titolari ufficiali di questa questione, adagiati nelle direzioni sindacali, ingranaggio sistemato al caldo del sistema istituzionale, essi non hanno mai smesso di depoliticizzare la questione di cui erano responsabili, trasformata in un affare di accordi collettivi. E, sotto questa guida illuminata, noialtri siamo rimasti abbonati alla sconfitta.

In due mesi, tutto è però cambiato. Le forme di lotta si diversificano e si completano a vicenda: non si potranno più separare le manifestazioni del giovedì, massicce ma vane, dalle manifs sauvages che fanno correre qua e là la polizia fino a notte fonda. Così la sostanza della lotta di classe confluisce nella forma dei Gilets Jaunes. Una combinazione inedita, a lungo attesa, e questa volta sbalorditiva.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 28 marzo 2023

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