Quando abbiamo la tentazione di dividere il mondo tra buoni e cattivi, tipo “noi che non invadiamo i vicini e gli altri che lo fanno”, “noi che rispettiamo i diritti dell’uomo e di genere e gli altri che non lo fanno”, “noi che ‘di noi ci si può fidare’ e degli altri no”, ricordiamoci – almeno chi c’era e la vide – la notte del 20 marzo 2003, quando, senza essere stati né provocati, né minacciati, né tanto meno attaccati, gli Stati Uniti lanciarono su Baghdad l’operazione ‘Shock and Awe’, atterra e terrorizza, che segnò l’inizio dell’invasione dell’Iraq.
Le immagini vivide delle deflagrazioni e degli incendi nella notte della capitale irachena ‘esplosero’ sugli schermi delle tv negli Usa all’inizio del pomeriggio: nulla a che vedere con le immagini quasi asettiche, senza colori e senza sonoro, della Guerra del Golfo del 1991: Peter Arnett e la Cnn documentavano, con i mezzi dell’epoca, i bombardamenti su Baghdad preliminari alla liberazione del Kuwait.
Se l’invasione russa all’Ucraina è inspiegabile, pur letta alla luce dei cui prodest della geopolitica, lo era – e lo resta – ancor di più quella degli Usa all’Iraq: quella per Saddam Hussein di George W. Bush jr era un’ossessione forse paragonabile a quella della Russia – meglio, di Putin – per l’Ucraina. Il presidente figlio si sentiva investito della missione di realizzare quello che il presidente padre, George W.H. Bush, non aveva giustamente fatto nel 1991, cioè il cambio di regime a Baghdad: Bush senior, una volta ripristinata l’indipendenza del Kuwait occupato dalle truppe irachene, fermò il conflitto.
Dodici anni dopo, l’amministrazione di Bush junior giustificò l’attacco con la minaccia delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, profittando del clima d’obnubilazione patriottica in cui gli Stati Uniti ancora vivevano dopo avere subito gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Allora, oltre quattro americani su cinque approvarono l’attacco, anche se una percentuale analoga non aveva la minima idea di dove fosse l’Iraq sulla carta geografica; e il Congresso avallò il ricorso alla forza a priori.
L’invasione dell’Iraq e il rovesciamento del regime di Saddam era nei programmi elettorali di Bush e dei suoi consiglieri ‘neo-cons’. A cose fatte, la minaccia delle armi di distruzione di massa si rivelò inesistente. Ma molti avevano fin dall’inizio la percezione che fosse un’invenzione, o quanto meno un’esagerazione, dell’intelligence; e tutti sapevano che l’Iraq non c’entrava nulla con l’11 settembre – solo uno dei 19 terroristi di al Qaeda era di origine irachena.
Eppure, l’invasione trovò l’avallo della Gran Bretagna di Tony Blair, della Spagna di José Maria Aznar e dell’Italia di Silvio Berlusconi, oltre che di una ventina di altri leader e Paesi: divise l’Europa e creò una faglia tra l’Europa e l’America, dove il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld sbeffeggiava la Francia di Jacques Chirac e la Germania di Gerhard Schroeder, che non seguirono gli Stati Uniti nella loro avventura. Alla buvette del Congresso, le ‘french fries’, le patatine fritte, vennero sostituite dalle ‘Liberty fries’.
Colin Powell, segretario di Stato ovunque rispettato, divenne il volto della campagna per convincere il mondo che l’Iraq aveva armi di distruzione di massa, che non c’erano, e per giustificare l’invasione del Paese e il rovesciamento del regime di Saddam. La mattina del 5 febbraio 2003, Powell presentò all’Onu le prove – false – della minaccia irachena: dirà poi di avere in buona fede creduto ai rapporti dell’intelligence, che gli aveva però fornito solo una fialetta contenente polvere bianca – presunta micidiale – e foto di camion militari – presunti laboratori chimici.
La misura del fallimento della missione di Powell fu immediata e fragorosa: le sue parole furono ascoltate, ma non furono credute, e caddero nel gelo di una riunione del Consiglio di Sicurezza allargata a tutti i Paesi Onu. Invece, il veemente discorso anti-invasione del ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin suscitò un applauso travolgente.
A frenare Bush, un cristiano per di più “rinato in Cristo” dopo essere affogato nell’alcol in gioventù, non servirono neppure le pressioni di Papa Giovanni Paolo II: a inizio marzo, fui testimone e cronista del disagio e della delusione dell’inviato papale, il cardinale Pio Laghi, che doveva dissuadere il presidente dall’invasione. Il prelato lasciò Washington dicendo che la pace è un dono di Dio – ma la guerra restò la decisione di Bush.
Poche settimane dopo, l’aggressione all’Iraq partiva, forse un po’ in anticipo sui piani: si disse che l’intelligence aveva saputo dove fosse Saddam quella sera e che l’attacco mirava ad eliminarlo – non fu così. Il 1o maggio, rovesciato e catturato Saddam, poi condannato a morte e impiccato il 30 dicembre 2006, Bush proclamava, a bordo della portaerei Lincoln, “missione compiuta”. L’ennesima fandonia. La guerra era destinata a durare fino al 2017, quando le truppe occidentali completarono il loro ritiro; a innescare moti d’insurrezione contro l’occupazione e scontri intestini fra sciiti e sunniti; a essere la scena di orrori, come quelli documentati nel carcere di Abu Ghraib; e ad avere appendici di terrorismo in Europa e a fare nascere l’Isis. Senza, peraltro, trasformare l’Iraq in una Svezia della Mesopotamia.
I costi umani sono estremamente incerti. Le perdite della coalizione occidentale sono abbastanza attendibili: 4.839, di cui 4.520 militari statunitensi, 180 britannici e 33 italiani, quasi la metà nell’attacco di Nassiriya del 12 novembre 2003. A questi vanno aggiunti 468 contractors, alias mercenari, Usa. E poi ci sono le perdite dovute a fattori collaterali, come i suicidi dei veterani – quasi 2000 fino al 2010, solo negli Usa.
Le perdite irachene sono molto più difficili da calcolare: si stimano a 160mila i civili uccisi, cui vanno aggiunti 10mila caduti delle forze di sicurezza irachene che, sotto l’egida degli occupanti, sostituirono l’esercito di Saddam, che venne dissolto (e di cui molto ufficiali e soldati parteciparono alla resistenza).
Nell’anniversario, i media statunitensi sono zeppi di autocritiche – anche l’informazione fu complice di quell’aggressione, sui cui retroscena e sulle cui falsità indagò solo a cose fatte e a Bush rieletto. Foreign Affairs, autorevole rivista del Center for Foreign Relations, con il titolo “L’Iraq e la patologia della Supremazia”, pubblica un articolo di Stephen Wertheim, docente alla Columbia University. Vi si legge che “la decisione di invadere l’Iraq derivò da una politica estera americana che perseguiva la supremazia globale”: “Può essere doloroso – scrive Wertheim – rivisitare le ragioni che indussero i leader americani, su base bipartisan, a invadere un Paese che non aveva attaccato gli Stati Uniti e che non intendeva farlo, Ma, se non guardiamo indietro ai nostri errori, non potremo andare avanti con fiducia e unità”.
Buoni e cattivi, la linea di separazione non sai mai dove metterla. E forse non c’è.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 20 marzo 2023