Ci aiuteranno loro, Scilla e Cariddi, a fermare il “ponte sullo Stretto”, l’ennesima grandemente Mala Opera che in questi giorni il consiglio dei ministri ha “decretato” nero su bianco.
Ninfa l’una, naiade l’altra, ebbero la sorte di incorrere nell’ira degli dei invidiosi e vendicativi. Scilla per aver suscitato l’amore dell’uomo sbagliato, Cariddi per aver rubato i buoi destinati al sacrificio furono trasformate in gorghi marini pronti ad inghiottire gli incauti naviganti che violassero le acque dello Stretto.
Sì, sarà la natura a dar man forte a coloro che, ormai da quasi vent’anni, dicono, spiegano e praticano il NO al folle progetto.
Le ragioni del NO sono tante e chiare, a partire dal pericolo sismico legato all’incontro-scontro tra la placca eurasiatica e la placca africana (come dimenticare il terremoto che nel 1908 rase al suolo Messina e Reggio Calabria?) e dall’allargarsi della faglia che, sia pur lentissimamente, sta allontanando la Sicilia dalla penisola.
In realtà, chi si riempie la bocca di “sviluppo” esaltando le “magnifiche sorti e progressive” di cui il Ponte sarebbe volano economico e sociale per la Sicilia, anzi, per il Meridione tutto, nulla dice della situazione reale di un Sud dimenticato, in cui, ad esempio, i trasporti ferroviari davvero utili a collegare i territori sono addirittura diminuiti rispetto ad un secolo fa. In Sicilia, su 1500 chilometri di ferrovia, i quattro quinti sono a binario unico e il quarantasei per cento non elettrificati. Viaggi lentissimi, interminabili: nove ore da Trapani a Catania, quattro ore e mezzo da Ragusa a Palermo.
Non migliore è la situazione della Calabria. Qualche anno fa fui invitata come attivista NO TAV ad un viaggio-inchiesta sulle ferrovie calabresi. Fu un viaggiare quanto mai precario, su tratte semi abbandonate, tra stazioni chiuse e trasbordi su autopullman là dove le linee erano state interrotte e mai ripristinate. Ricordo in particolare la linea a scartamento ridotto Catanzaro-Cosenza bloccata per anni a Soveria Mannelli a causa di una frana.
Ma, in fondo, che valore ha questo parlare di cose basse per chi sogna lauti affari dalla costruzione del nuovo mostro di ferro e cemento?
È ancora una volta il partito trasversale della finanza e della guerra globale a condurre la danza del Ponte sullo Stretto. Accanto alle multinazionali del tondino e del cemento pesano gli interessi militari su un’area divenuta più che mai strategica per la Nato ed il Patto atlantico, come frontiera del Nord verso il Sud del mondo: il Ponte come il Muos, come la base di Sigonella, come i corridoi trasportistici TENT di una Schenghen militare che l’Unione Europea dichiara fondamentali per il trasporto di armamenti e truppe da Nord a Sud e da Ovest a Est (nel corridoio 5 Algeciras-Kiev è incappata la Valle di Susa che lotta contro il TAV). In tale prospettiva il ruolo riservato alla Sicilia è quello di servitù militare, territorio – caserma, pericoloso avamposto dell’impero capitalistico per le guerre presenti e future.
«Il ponte più lungo del mondo – vanta il ministro che, mutando governo e ministero senza mutare lo spirito guerrafondaio, ha sostituito il casco antisommossa con il casco da cantiere – Tre chilometri in una sola campata. Piloni da quattrocento metri. Sette miliardi di euro. Migliaia di posti di lavoro…».
L’inserimento nel business dei primati nulla attenua rispetto alla realtà dell’impatto ambientale insostenibile, allo sperpero di soldi pubblici, al dramma di posti di lavoro precari, pericolosi, incatenati al carro del malaffare…..
Non ultima rivendicazione deve essere il diritto alla bellezza.
È un’immagine di bellezza quella che mi si risveglia in cuore se ripenso a quel mio viaggio di qualche anno fa che mi portò a Messina, ad un’assemblea NO Ponte. A me che osservavo dal traghetto la Sicilia venne incontro senza fretta, nello splendore di una dolcissima primavera profumata di salino e di agrumeti in fiore, popolosa di paesi distesi lungo il mare e arrampicati sui pendii.
Un paesaggio azzurro, verde e oro che conserva la meraviglia degli antichi miti: la porta giusta per introdurre in un mondo di cultura millenaria, di splendide civiltà, capace di infiammare la fantasia di chi vi approda per la prima volta e di farsi inesauribile nostalgia per chi, nato in questa terra, deve lasciarla e andar lontano.
No, la devastazione non è monetizzabile ed è amore quello che deve spingerci alla lotta collettiva contro i devastatori, gli “anacronistici mostri che lo sterminio lo chiamano vittoria”.
La poesia di Danilo Dolci è un buon viatico per continuare il viaggio.
Questo articolo è stato pubblicato su L’Indipendente il 20 marzo 2023.