“Cassandra a Mogadiscio”. Il libro di Igiaba Scego candidato al premio Strega

di Tamara Baris /
15 Marzo 2023 /

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Cassandra a Mogadiscio, di Igiaba Scego, è un’autobiografia in movimento profonda e sincera, un mosaico di tante biografie intrecciate tra loro: la storia di una famiglia ridotta in briciole dalla crudeltà e dall’insensatezza della Storia («Capisci ora? “Famiglia” è una parola complicata per noi. Molto complicata. Una parola in briciole», p. 74), dall’assurdità di una guerra che ha disperso nel mondo tante famiglie, un popolo di fratelli e sorelle («Sentiamo che ci apparteniamo. Che ognuno di noi è la continuazione degli altri. È forse anche per questo che la guerra ormai pluritrentennale che ci ha colpiti è senza senso. E difficile da sopportare per il nostro cervello, per le nostre mani che tremano sempre di più. Abbiamo le stesse ossa, gli stessi occhi, la stessa bocca di carne. Abbiamo la stessa pelle dei martiri. E allora come mai tutti questi kalashnikov in giro? Questa violenza cieca tra noi? Queste gole sgozzate? Come mai? Side ku timid?», p. 48).

La famiglia di Igiaba Scego è una famiglia di «stratificazioni di generazioni, di geografie, di vissuti, di casualità» (p. 67). Una famiglia che, oggi, può riannodarsi più semplicemente, almeno in apparenza, grazie alle distanze ridotte che, forse, in questi tempi così tesi e distratti, restano uno dei pochi privilegi delle nostre vite frammentate («Ci hai fatto caso, Soraya? Senza telefono noi non siamo. Da quando hanno inventato questi cellulari, queste app, la distanza tra noi si è ridotta. Ci illudiamo di poterci sfiorare con le dita. E amare. Attraverso uno schermo opaco. E una voce ovattata», p. 68). La scrittrice romana ne è il punto fermo («Io sono qui a Roma. Sono una donna made in Italy. Unico punto fermo di una famiglia sempre in movimento. Fissa nel luogo in cui sono nata e cresciuta. Abitudinaria come tutti i romani. Immersa in questo Occidente con cui a volte faccio a pugni», p. 10): un centro che riordina, riannoda, tesse sapientemente la storia delle persone che ama. Lo fa per l’amatissima nipote («Noi zie siamo da secoli chiamate a sciogliere i nodi, a sbrogliare la matassa di una diaspora infinita. A tirare uno per uno i fili di questa esistenza raminga. La mia, la tua, la nostra. Siamo nomadi contemporanei», p. 19), lo fa e ci riesce. Riesce in un compito difficilissimo e scrive un arazzo prezioso che aiuta a comprendere, a empatizzare, ad avvicinarci con il massimo rispetto a queste vite: Cassandra a Mogadiscio è uno di quei libri che ascolti in silenzio, facendoti spazio fra tutti i pensieri che disturbano, fra le distrazioni dell’esistenza: ascolti, fino a sentire pagina dopo pagina, chiara e nitida la voce dolce, onesta, elegante e saggia di chi ha saputo attraversare e ricucire («E io sono per te colei che traduce. Antenata dopo antenata. Virgola dopo virgola. Massacro dopo massacro. Viaggio dopo viaggio. Kalashnikov dopo kalashnikov. Sono la turjumaan, la traduttrice, di una storia ancora da scrivere che non so scrivere, p. 19), a partire da una ferita, ferita personalissima e comune a un popolo intero («Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e il presente», p. 17). Ricucire per guarire, per trasformare la complessità, trovare una strada per la bellezza: Igiaba cuce con le parole, sua madre lo ha fatto per anni coi suoi meravigliosi maro («Lì in quei maro, in quei tessuti a buon mercato, lei trasforma il Jirro, quello che le esplode dentro, in arazzi di puro splendore», p. 37).

La guerra ruba la lingua, la spezza, tradisce, rende vana; la guerra ammutolisce e cambia le esistenze: di chi la vive e di chi vive sapendo che una persona amata la sta vivendo. Arriva, senza preavviso. Bugiarda, comincia sempre un po’ prima di quando pare sia iniziata, finisce sempre dopo, forse mai: non ha un confine netto, maledetta, lei che nasce quasi sempre per colpa di qualche linea di potere («È la geografia a governare le guerre. Perché sono sempre una questione di confini, anche immaginari», p. 85). Alla scrittrice si manifesta, nel pieno della sua adolescenza, per la prima volta, nel salotto di casa, a Roma, alla fine del 1990, un anno di abbondanza («Fu lì che vidi per la prima volta la disperazione del profugo. La disperazione di chi si vede strappare via davanti agli occhi la propria terra, la sua Somalia, per la seconda volta nella vita. Fu lì che vidi per la prima volta la ferocia del Jirro che si abbatte su un corpo che ha già azzannato. Rendendo definitiva la sua posizione già precaria», p. 34).

Ma la guerra abitava già i corpi della sua famiglia («Con Siad Barre era finito tutto, e i miei genitori dovettero emigrare. Mio padre arrivò a Roma per primo. Poi lo raggiunse mia madre. Sola. Senza figli», p. 45); la guerra distruggeva già, aveva distrutto, affamato, disperso, cambiato tutto per sempre («Di quella guerra vissuta durante l’infanzia hooyo non ricorda molto. Solo la paura. “Quella non la dimentichi”, mi dice. “E non dimentichi nemmeno l’umiliazione che vive a lungo nei sentimenti della famiglia. Ti abbeveri di vendetta e di cattivi pensieri. Quella guerra ci ha fatto diventare poveri”», p. 89).

Cassandra a Mogadiscio è un modo di riannodare il dolore, tenere il filo: scrivendo; ricercando, («Avevo sedici anni. E sfogliavo i libri della biblioteca in cerca di una risposta. In cerca di mia mamma», p. 96); ascoltando («Mamma… non te l’ho mai chiesto. Ma… come mai sei andata verso la guerra quando tutti stavano fuggendo da lì a gambe levate? Perché ti sei ficcata in quel pasticcio?, p. 108), con l’umiltà e la capacità, che hanno alcune persone, di tendere verso gli altri. Con la cura di quelle che, ancora, credono «nella letteratura, nella punteggiatura, nello scavo storico che ognuno di noi è chiamato a fare su sé stesso» (p. 116): dovremmo farlo tutti, in realtà, scavarci dentro e consegnarci a parole accurate.

Il dolore è filtrato, ricostruito, custodito, e attraversa continenti, epoche, esistenze diverse; è preso per mano dall’amore: un infinito amore capace di amare senza orpelli, pronto a meravigliarsi e ad assaporare, col candore delle anime innocenti, gli attimi di luce, la bellezza della vita e del futuro resistente («Questa aderenza di vissuti mi ha sempre colpita. È strano stare accanto a una donna pastora, ormai emigrante, che guarda la nipote nata all’estero vestire i suoi panni dentro un film. Teatro nel teatro. Specchio distorto. Non so cosa sia, ma mi emoziona. E trattengo le lacrime», p. 43). Cassandra a Mogadiscio non è un libro facile per chi lo ha vissuto ed è un libro che merita un profondo rispetto dai lettori, uno di quelli da tenere con cura tra le mani, uno di quelli di cui parlare con la massima attenzione perché la memoria si rompe: si rompe in vita; si rompe nelle mani di chi scrive («La mia memoria è sdrucciola. Fragile. Non come la sua, che ricorda ogni evento. Vorrei confessarglielo. In questo io e la mia hooyo siamo diverse. Lei annota tutto nelle pieghe del cervello. Io in fogli di quaderni a quadretti che strappo come facevo da bambina», p. 83); si rompe quando la si legge male, quando è trattata con superficialità («Una parte di mondo ci usa ormai da troppo tempo come insulto, Soraya. “Un’altra Somalia”, dicono al telegiornale per sottolineare una situazione ormai allo stremo. Oppure dicono “la somalizzazione del conflitto”, come se fossimo uno schema di un Risiko impazzito e non un paese con gente che come tutti merita rispetto», p. 47).

Il ponte è la lingua o, meglio ancora, la famiglia di lingue che sorregge queste esistenze («È stato lui a insegnarmi l’alfabeto. A insegnarmi il Novecento. A fare di me quella che preme sui tasti e si fa chiamare scrittrice», p. 77), la famiglia di lingue che abbraccia chi scrive questa storia: la storia di un’afro-euro-politana. Un’afro-euro-politana che ha riordinato tanti frammenti, li ha nominati uno a uno, con la sua doppia anima (Jirro, malattia; Markhaati, testimone; Af hooyo, lingua madre; Dagaal, guerra; Indho, occhi; Husuus, memoria…); ha collazionato i suoi lessici familiari (edoaabohooyoawoweabayoabowe…), maneggiandoli con cura per passarli, per non perderli («Quanti siamo? Intee baan nahay?», p. 51).

La sua lingua-zia è tutte le sue lingue: lei sa, può ascoltare la madre e trasmettere alla nipote, vincendo sul tempo, consultando il suo archivio più prezioso («Il nostro archivio è hooyo. E chiunque abbia visto la Somalia prima della distruzione», p. 117), consapevole che la guerra ha distrutto carte e memorie, la guerra che è fame e fuoco («Non ha una lingua madre. Noi invece sì. Una lingua partorita da un utero di pace. Quella pace, parola meravigliosa, che ancora stentiamo a trovare», p. 125).

Raccontare è tentare la pace, Igiaba lo sa: raccontare è parlare all’anima e far parlare le anime («Allora dille, a quella mia nipote scapestrata e dolcissima, che l’italiano è la lingua dei sogni. Anzi dille che l’italiano è la lingua del più grande sogno di sua nonna. Ritrovarci io e lei presto insieme e parlare. Guardandoci negli occhi. Senza intermediari. Con la forza dei nostri sospiri. Devi dirle che la aspetto. Che sono anni che voglio chiacchierare con lei. E superare l’oblio», p. 133); accompagnare le parole su ponti invisibili e creare strade e connessioni e legami, dove l’uomo ha invece distrutto, interrotto, condannato. Raccontare è guarire e far guarire («Ma la motivazione che ti porterà a studiarlo sarà curare questa bella lingua un po’ ignara di sé. Una lingua che ha dimenticato cosa le è stato fatto. Tu la imparerai e la guarirai. D’altronde ho capito che anch’io la scrivo per guarirla. Per guarirmi», p. 167). È sentire e vedere e far ascoltare e far vedere e lasciare qualcosa di noi: («Servono cento occhi. Per sopravvivere. Per non piegarsi. Per non svendersi. Per non illudersi. Per non soccombere. Per non sparire», p. 261).

Raccontare è l’istinto di chi non vive nel suo cerchio, ma sta stretto nei confini della sua esistenza e cerca e trova, nelle parole, quello che troppo spesso non ha trovato intorno a sé nel mondo. Raccontare, in certi casi, è il bisogno vitale di chi si è sentito, troppe volte, fuori e si è cercato dentro la forza di riuscire a crearsi uno spazio proprio e ha capito che le parole erano la via, nonostante – povere parole – oggi, troppo spesso, sembrino una questione da romantici sognatori («Per una banca l’alfabeto e le sue follie non bastano a dimostrare che sono solvibile. Le banche non credono mai agli artisti stralunati come me. Sono un essere fuori norma, fuori dalla grazia dell’IBAN e dello SWIFT. Non posso presentare alla banca quelle che si chiamano “solide garanzie”. Loro in me non vedono un investimento, bensì un possibile kasaro: una tragedia, una sicura bancarotta», p. 259). Raccontare è un mestiere delicato e potentissimo («Non ho un lavoro ma ho un mestiere, alhamdulillahi. Lo dico sempre questo, nipote mia. Con orgoglio. Anzi, la mia è un’autentica vocazione. Scrivo. Ovunque. Per me. Per gli altri. Nella mia testa. Sulla carta. Sullo schermo luminescente del computer. Sono una scrittrice di un mercato minore, scrivo in una lingua bellissima, l’italiano di Dante, Gabriella Kuruvilla e Joyce Lussu, una lingua che tu vuoi imparare, ma che più di altre fa fatica a trovare la via del famigerato mercato», p. 260), un superpotere prezioso, fragile, in tutta la sua umanità («Mi basta aprire una pagina, fitta di alfabeto, per ritrovare il senso di tutto. La bellezza condivisa. La memoria salvata. Le storie affidate a un supporto fragile, capace di strapparsi, macchiarsi, ardere, eppure geniale e tenace più della follia umana», p. 359).

Raccontare è, spesso, la prima e unica via, prima di ogni altro passo e direzione. Raccontare, in casi come questo, è una necessità.

Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio, Bompiani, 2023, pp. 368,

Questo articolo è stato pubblicato su Treccani il 14 marzo 2023

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