Morire in miniera

di Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni /
2 Marzo 2023 /

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Il 28 febbraio 1940 una devastante esplosione nella miniera di carbone di Arsia/Raša (Istria) provocò la morte di 185 uomini e il ferimento di altri 146, allora tutti italiani. Si tratta di una delle più gravi sciagure minerarie d’Europa, eppure a differenza di quella di Marcinelle non è mai stata inserita nel calendario delle ricorrenze civili.

Occorre premettere che nel 1920, a due anni dalla fine del primo conflitto mondiale, la regione istriana era entrata a far parte del Regno d’Italia dopo un secolo di amministrazione austriaca. Sulla costa occidentale prevaleva una popolazione di lingua italiana, mentre nell’interno erano i cittadini di lingua e cultura croata e slovena ad essere maggioritari. Di lì a qualche anno questi ultimi subiranno di fatto l’imposizione della lingua italiana da parte del governo fascista.

Negli anni Trenta si registra un consistente movimento migratorio verso l’Istria, con intere famiglie che si trasferiscono nelle terre da poco annesse, dove i ricchi giacimenti di lignite hanno indotto attività estrattive, portuali, edilizie e commerciali. L’immigrazione dalle altre regioni del Paese è stimolata anche dall’attesa di salari più alti e dall’offerta di case moderne.

Per far fronte alla crisi economica mondiale scoppiata nel 1929 il Regime aveva intensificato al massimo l’attività estrattiva nell’ambito della politica autarchica. Grazie alla capacità imprenditoriale di Guido Segre, al vertice del complesso carbonifero nazionale, la produzione del minerale – ad Arsia – dal 1930 al 1935 raddoppia in parallelo all’aumento delle maestranze.

Il nucleo più consistente di emigranti, circa 500 persone, sembra provenire dal distretto minerario dello zolfo di Perticara gestito dalla Montecatini. Siamo nel Montefeltro, entroterra riminese al confine fra Marche, Emilia-Romagna, RSM e Toscana. Dalla ricostruzione dei profili biografici dei migranti emerge lo spaccato di un mondo proletario segnato da miseria endemica, brevità della vita e diffuso analfabetismo. Intorno all’isola industriale dello zolfo continua a prevalere l’arretratezza della realtà mezzadrile.

I nuovi arrivati convergono ad Albona/Labin in provincia di Pola/Pula. Nei pressi di questo antico centro viene fondata ex novo quella che Mussolini definirà con orgoglio la prima città mineraria dell’impero fascista: Arsia. L’inaugurazione della cittadina, progettata dall’architetto Gustavo Pulitzer Finali, avviene nel 1937, ma già nell’estate precedente il Duce visita il cantiere e, “indossata la casacca di minatore” scende nei pozzi, come scrive Il Piccolo l’8 agosto 1936.

Da segnalare che Segre e Pulitzer Finali, entrambi ebrei, subiranno dopo il 1938 le conseguenze delle leggi razziali.

Se ad Arsia i minatori godono di migliori condizioni di alloggio rispetto ai luoghi di provenienza, la loro vita è funestata da continui incidenti sul lavoro. Del resto anche la solfara di Perticara ha il suo pesante corredo di vittime e infortunati.

Il 28 febbraio alle ore 4.30 del mattino accade quanto si temeva da tempo, vista la frenesia produttivistica dei vertici politici e militari per l’imminente ingresso in guerra. I responsabili della miniera avevano trascurato da tempo le più elementari misure di sicurezza, prima fra tutte l’innaffiaturadelle pareti per fissare le polveri del minerale e impedirne la deflagrazione. Secondo la commissione del Corpo Reale delle miniere chiamata a indagare sul drammatico evento, era stato imposto ai lavoratori “un ritmo intensissimo, febbrile, quasi nervoso” dal momento che si puntava a produrre “costasse quello che costasse”. Le maestranze lavoravano in media 52 ore a settimana, oltre al tempo necessario per raggiungere i pozzi.

Ad essere messa sotto accusa è pure l’organizzazione delle squadre di soccorso i cui addetti non avevano solo quel compito specifico ma lavoravano come tutti, distribuiti nei vari turni. Al momento dello scoppio, poi, le maschere antigas si rivelano insufficienti.

L’accaduto crea forte imbarazzo nel governo e nel partito. Negli ultimi quattro anni è già il terzo grave incidente – dopo quelli del 1937 e del 1939 – che si registra in miniera e per le stesse ragioni.Tuttavia, l’imperativo categorico di Mussolini è la ripresa immediata del lavoro, pertanto l’evento va minimizzato. Alle vedove si offrono modesti risarcimenti, agli orfani un collegio a Pisino/Pazin.

Nei brevi resoconti comparsi sulla stampa, i fatti vengono stemperati, ridotti a pura fatalità. Giorgio Almirante, allora giovane redattore de La difesa della razza, visita Arsia ad appena due mesi dalla tragedia e il 5 maggio – senza un cenno alle vittime – scrive sotto il titolo Razza e autarchia, parole beffarde: razzialmente si tratta di un vero e proprio privilegio esercitare le membra alla fatica e l’animo al rischio.

La sordina applicata ai giornali quando ormai l’interesse primario del Regime è l’entrata in guerra a fianco di Hitler fa sì che i caduti diventino eroi della patria, vittime sacrificali necessarie allo sforzo autarchico. In seguito, i travagli seguiti all’armistizio dell’8 settembre 1943 con laceranti contrasti, nuove vittime e annosi strascichi di accuse incrociate, metteranno una seconda pietra tombale sui minatori defunti. Più viva la memoria del grave lutto in Istria, recentemente raggiunta da una campana della pace che, pur bloccata a lungo dalla pandemia, ha percorso l’Italia fino ad Arsia.

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