Il 20 marzo 2003 iniziava la guerra in Iraq. Il nemico giurato della coalizione guidata dagli Stati Uniti, insieme a Gran Bretagna, Polonia e Australia, era Saddam Hussein. Secondo l’osservatorio indipendente Iraq body count, i morti civili in questi vent’anni sarebbero compresi tra i 187mila e i 210mila. Incalcolabili i disastri sociali, gli sconvolgimenti geopolitici nell’area e i danni economici dovuti a un’invasione fondata su acclarate menzogne, come quella delle armi batteriologiche in mano all’Iraq.
Ricordate la fiala di antrace mostrata il 15 febbraio 2003 a un attonito Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dall’allora segretario di Stato americano, Colin Powell? Una bugia utile a giustificare l’intervento militare e a tentare di silenziare il movimento per la pace che in giro per il mondo faceva di no con la testa. Perché aveva capito, perché aveva ragione. Lo stesso giorno della fiala agitata in mondovisione oltre 100 milioni di persone scesero nelle piazze delle principali città del mondo per opporsi alla guerra ormai imminente. Fu la più grande manifestazione pacifista della storia. “La società civile che la animò fu definita dal New York Times ‘la seconda potenza mondiale’”, come ha ricordato in questi giorni la Rete italiana pace e disarmo.
Chi in Italia tenne la barra dritta contro la guerra fu anche Gino Strada, il fondatore di Emergency. Negli archivi del Corriere della Sera si ritrova una sua grandiosa replica datata 7 febbraio 2003 all’editorialista Francesco Merlo, ora a la Repubblica, che in quei giorni -come del resto fa ancora oggi- aveva colpito chi si era permesso di contestare la guerra del petrolio. Merlo definì Strada (e Cossutta, Bertinotti, Bindi, Asor Rosa) “signori né-né”. Quelli della “falsa pace”, “intellettuali organici”, quelli del “né con lo Stato né con le Br”, “né con la Resistenza né con il fascismo”, “né con Hitler né con gli ebrei”, “né con Saddam né con la guerra”.
Gente che “subito si mette a speculare sui nostri buoni sentimenti, sul nostro bisogno, tutto occidentale, di limitare il più possibile le guerre”. “Liberiamocene”, scrisse Merlo, di queste “scorie del pacifismo”, “serpi”, “lupi”, “volpi nel pollaio”. Provate a confrontare questo “stile” con quello dei nostri giorni, combacia. Stessa banalizzazione, stesse caricature, stessa povera violenza. “È vero infatti che noi occidentali sappiamo che il pacifismo assoluto è un’utopia infantile -proseguì Merlo-, perché la storia delle relazioni internazionali è fatta di guerre e le paci vanno difese con le armi perché rappresentano la guerra in riposo”. Gino Strada, da chirurgo che la guerra la frequentava tutti i giorni, lesse quelle righe dall’ospedale della sua organizzazione a Kabul. E si mise a scrivere.
“Ho cercato di capire meglio chi sono e come la penso”, esordì, spiegando perché lui stava dalla parte delle vittime della guerra, la “più diffusa forma di terrorismo”, e ricordando l’infamia dei 500mila bambini iracheni uccisi tra il 1991 e il 1998 a causa dell’embargo. “Guerra a Saddam, l’anno scorso c’erano i Talebani e Osama, qualche altro ‘mostro’ è già in fabbricazione. Avanti, alle armi, bombardiamo tutti, per i prossimi 50 anni -aggiunse-. Ogni volta, alla fine di una delle guerre contro i ‘mostri’, il mostro è ancora lì. Mentre almeno il 90% delle vittime delle guerre sono civili. Povera gente, che si vede innaffiata di bombe perché il suo presidente, di solito, è un dittatore in disgrazia che ha litigato con gli alleati di prima”.
Smontò i puerili “né-né” che Merlo gli aveva addebitato ma su uno, “Né un soldo né un uomo”, Strada fece quello stanato. “Lo ammetto pubblicamente, su questo punto sono un signor né-né. Credo infatti che l’Italia non dovrebbe fornire né un soldo né un uomo a nessuna guerra. Anzi credo che il Parlamento italiano dovrebbe condannare la guerra -non dovrebbe essere difficile, la Costituzione la ‘ripudia’- e starne rigorosamente fuori”. “Vorrei l’Italia fuori dalla guerra, vorrei vedere etica e umanità, e senso di giustizia, nella classe politica italiana. Vorrei l’Italia fuori dalla barbarie”. Aveva capito, aveva ragione.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 1 marzo 2023