L’impressionante continuità della guerra come segno di un’epoca

di Gabrio Vitali /
15 Febbraio 2023 /

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In “Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa”, Edgar Morin offre al mondo della cultura e della politica la propria meditazione sull’impressionante continuità della guerra, ogni volta di forma inedita e sempre più distruttiva, che ha tragicamente contrappuntato e continua a contrappuntare l’intera vicenda storica di un’epoca.

L’autorità e il prestigio intellettuale di Edgar Morin, riconosciuti a ogni latitudine del pensiero contemporaneo, ne fanno un autentico e insostituibile maître á penser del lungo secolo che stiamo ancora attraversando. E il fatto che egli levi la sua voce in un allarmato appello contro la guerra e le sue devastazioni fisiche e morali sempre più irrevocabili, costituisce, a 101 anni compiuti, la prova della forza lucida e intatta, sia sul piano etico che su quello culturale, di una riflessione continua e appassionata sulle derive, forse esiziali, che segnano oggi il destino dell’umanità. Nel suo nuovo libro, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa, in questi giorni in edizione italiana presso Raffaello Cortina, in chiave autobiografica e autocritica il grande pensatore francese offre al mondo della cultura e della politica la propria meditazione sull’impressionante continuità del conflitto, ogni volta di forma inedita e sempre più distruttiva, che ha tragicamente contrappuntato e continua a contrappuntare l’intera vicenda storica di un’epoca che, ipocritamente, si legge come di pace, di libertà e di democrazia. Sui caratteri di tale costante pervasività della guerra nella storia del suo secolo di vita, Edgar Morin non fa sconti né distinzioni: «ogni guerra racchiude in sé manicheismo, propaganda unilaterale, isteria bellicosa, spionite, menzogna, preparazione di armi sempre più mortali, errori e illusioni, imprevisti e sorprese» e da tutte le parti coinvolte.

Pertanto, dall’ultima Guerra Mondiale (riconosciuta), alla quale ha partecipato in Francia e in Germania, come dirigente politico-militare della Resistenza, al conflitto che oggi travolge l’Ucraina e minaccia la stabilità civile dell’Europa, il racconto di Morin trasporta in modo stringente il lettore in un lungo percorso di orrori, di distruzioni, di crimini e di sofferenza che sembra ancora costituire la cifra inamovibile della civiltà contemporanea e, insieme, il prezzo terribile del suo progresso e del sistema di idee che lo produce. L’orrore e il ribrezzo morale per Auschwitz e per il contesto di infame oppressione nazi-fascista che l’ha generato, ci dice, non possono cancellare l’analogo ripudio e terrore dei bombardamenti anglo-americani delle inermi popolazioni civili, con la loro irrevocabile ed esiziale akmé della bomba di Hiroshima, che abbiamo invece a lungo rimosso e che continuiamo a rimuovere.

E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del gulag sovietico.

Il campo di sterminio e la bomba nucleare non si contrappongono, quindi, ma sono insieme a ricordarci che l’umanità vive da allora alla temperatura della propria autodistruzione:

Questa minaccia di morte per l’umanità intera – come scrive Mauro Ceruti, nella prefazione – si è oggi potenziata con la sofisticazione delle armi nucleari in un contesto planetario sempre più interconnesso ma non solidale. Ed è proprio questo simultaneo aumento di potenza e di interdipendenza a rendere il contesto globale pericolosamente sensibile alla possibilità di una catastrofe.

E i modelli di pensiero lineari e oppositivi ai quali siamo ancora soggetti ci rendono incapaci di valutare i contesti di reazioni complesse in cui ogni azione umana si inserisce: l’antico assioma latino del si vis pacem para bellum, lungi dal manifestare la propria improponiblità nel mondo globale e nucleare di oggi, continua a farci credere che alle azioni si oppongano meccanicisticamente reazioni uguali e contrarie che le annullano o le interrompono e che, in base allo stesso modello di ragionamento, le guerre si possano fermare soltanto vincendole. Da qui, come oggi per la Russia e l’Ucraina, l’occultamento della realtà (alla faccia del preteso realismo), la mistificazione della propaganda, l’assenza di ogni percorso diplomatico e l’incapacità di contestualizzare la guerra sia nel recente passato, sia nel presente, sia nell’immediato futuro:

Perché ogni guerra comporta criminalità più o meno grande, secondo la natura dei combattenti. […] E mi sembra essenziale che queste considerazioni siano presenti nel nostro sguardo sulla guerra attuale.

È così che Morin, pur documentando e deprecando la dispotica violenza dell’invasione militare putiniana e l’aggressiva campagna d’odio e di criminalizzazione, che tende a trasformare tutti gli ucraini e il loro governo in neonazisti filo-americani, non manca di riconoscere che, per converso, in Occidente,

subiamo una propaganda di guerra che ci fa odiare la Russia, ammirare incondizionatamente tutto ciò che è ucraino e occultare ogni contesto, come quello della guerra ininterrotta dal 2014 fra l’Ucraina e le province russofone irredentiste, così come il ruolo degli Stati Uniti che comunque un giorno bisognerà esaminare dal punto di vista storico.

Per la valenza complementare di questo ragionamento, Morin non assolve nessuna delle parti in gioco dalle responsabilità del conflitto e della menzognera parzialità delle sue opposte narrazioni. Ma neppure assolve sé stesso. Anzi, «con la sua singolare capacità di concepire l’umano», si espone direttamente e con piena onestà al lettore – scrive ancora Ceruti – in un «esercizio di auto-osservazione [che] diventa così il laboratorio di un pensiero complesso, teso a cercare in sé stesso, prima ancora che negli altri, l’origine ricorrente dell’errore, dell’illusione e della menzogna». Ne viene, insieme ad un accorato grido d’allarme, l’invocazione a un credibile percorso di speranza che si può originare soltanto in un profondo cambiamento del nostro modo di pensare.

Durante tutto questo lungo periodo di ottant’anni, ho potuto verificare la pertinenza di ciò che ho chiamato l’ecologia dell’azione: ogni azione entra in un gioco di interazioni e di retroazioni che possono modificare il senso dell’azione, se non invertirla, e farla ricadere sulla testa del suo autore:

per tali ragioni, riflette ancora Morin, anche una guerra di difesa, condotta per inibire l’estensione e la radicalizzazione di un’opposta guerra d’aggressione, può innescare processi interattivi incontrollati a livello globale con conseguenze che non sarà facile dominare ed evitare.

In realtà oggi, continua,

Ci sono tre guerre in una: la continuazione della guerra interna fra potere ucraino e provincia separatista, la guerra russo-ucraina e una guerra politico-economica internazionalizzata antirussa dell’Occidente animata dagli Stati Uniti. […] Di fatto siamo entrati ormai in una congiuntura mondiale più grave.

Ed è davvero sorprendente, osserva infine Morin, che in un contesto così esasperato e pericoloso non si levino che pochissime voci, in Europa, a favore della pace e che queste vengano per giunta tacciate di insipienza politica, di filo-putinismo o addirittura di volontà ignominiosa e complice di capitolazione, quasi il non voler fare la guerra non fosse l’unica politica capace di fermarla. 

E dopo aver persino tracciato le linee di una possibile e concreta negoziazione della pace, Edgar Morin conclude il suo racconto ribadendone l’immediata necessità:

L’Urgenza è grande: questa guerra provoca una crisi considerevole che aggrava e aggraverà tutte le altre enormi crisi del secolo subite dall’umanità, come la crisi ecologica, la crisi della civiltà, la crisi del pensiero. Che a loro volta aggravano e aggraveranno la crisi e i mali nati da questa guerra. […] Più la pace si aggrava, più la pace è difficile e più è urgente. Evitiamo una guerra mondiale, Sarebbe peggio della precedente.

Questo articolo è stato pubblicato su ytali il 14 febbraio 2023

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