Spionaggio, disinformazione e rischio censura. Il dibattito in Europa per difendere il giornalismo

di Irene Doda /
18 Gennaio 2023 /

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Il 16 settembre 2022 la Commissione Europea ha adottato una proposta legislativa mirata a proteggere l’indipendenza dei media in Europa. Il Media Freedom Act, (MFA) come è conosciuto, ha lo scopo di proteggere la libertà di informazione, proibire azioni di spionaggio contro i giornalisti e rafforzare l’indipendenza editoriale. L’MFA, una volta completato l’iter di approvazione, dovrà trasformarsi in un regolamento, una tipologia di legislazione dell’Unione direttamente applicabile in tutti gli Stati Membri (che non necessita, cioè, della conversione di legge da parte dei Parlamenti nazionali). Nel 2022, insieme all’MFA si è sviluppata un’ampia discussione su altre due iniziative riguardanti l’ecosistema informativo: il Digital Services Act (DSA), considerata una delle leggi più ambiziose, a livello internazionale, sulla regolazione delle piattaforme e un nuovo Codice di Buone Pratiche sulla Disinformazione. Quest’ultimo non è uno strumento legislativo vero e proprio, ma un codice dall’applicazione volontaria, e “spetta ai firmatari decidere quali impegni sottoscrivere ed è loro responsabilità garantire l’efficacia dell’attuazione dei loro impegni”.

L’obiettivo del Media Freedom Act

“I media sono un pilastro della democrazia”, ha dichiarato la Commissaria ai Valori e alla Trasparenza Vera Jourova, a proposito dell’MFA “Ma oggi questo pilastro si sta incrinando, con i tentativi di governi e gruppi privati di esercitare pressioni sui media. Per questo motivo la Commissione proporrà regole e garanzie comuni per proteggere l’indipendenza e il pluralismo dei media. I giornalisti devono poter svolgere il loro lavoro, informare i cittadini e chiedere conto al potere senza timori o favori”. Al momento della stesura di questo articolo, il Consiglio dell’Unione Europea (uno dei due organi legislativi dell’Unione) ha completato una prima lettura tecnica del testo della proposta, che si trova ora nella fase preparatoria presso il Parlamento.

Appare chiaro che l’Unione Europea, specialmente in opposizione alle politiche di Stati autoritari come la Russia o la Cina, vuole assumere una postura internazionale in favore della protezione del pluralismo mediatico. La questione del pluralismo informativo e della libertà giornalistica si interseca però con altre questioni che l’Europa sta fronteggiando in questo momento: la regolazione delle grandi piattaforme digitali, il contrasto alla disinformazione, e l’utilizzo di spyware contro giornalisti e attivisti. La legislazione europea è chiamata a fornire strumenti efficaci rispetto a tali questioni. E tuttavia proprio sull’efficacia di tali strumenti e sulle loro conseguenze ci sono opinioni differenti, come vedremo.

L’introduzione del Digital Services Act e la rimozione dei contenuti dalle piattaforme

Il già citato Digital Services Act è un regolamento entrato in vigore a novembre di quest’anno, che aumenta il livello di responsabilità delle grandi piattaforme online e dei motori di ricerca rispetto ai contenuti che propongono. La soglia adottata per definire le “grandi piattaforme” è 45 milioni di utenti mensili: nella definizione rientrano dunque tutti i social media più popolari, ma anche Google, Amazon e gli app store. Grazie al DSA le autorità europee, e in particolare la Commissione, hanno il potere di sanzionare le piattaforme in caso di violazioni di legge e di applicare multe fino al 6% del turnover annuale. Alle piattaforme viene richiesto di agire tempestivamente per rimuovere contenuti illegali o dannosi, di spiegare in modo chiaro nei loro termini di servizio come funzionano i sistemi di moderazione dei contenuti e di condividere alcuni dati interni con degli auditor indipendenti. Inoltre, le piattaforme sono tenute ad intervenire anche in merito ai cosiddetti “rischi sistemici”, come la manipolazione dei contenuti da parte di attori stranieri o la violenza e le discriminazioni online.

Nel testo del regolamento vengono identificate quattro categorie di “rischi sistemici”. La prima riguarda quelli legati ai contenuti illegali, ad esempio alla pedopornografia o alla disseminazione di odio online di natura illegale. La seconda riguarda l’impatto dei servizi digitali sui diritti umani e civili fondamentali, tra cui la libertà di informazione. “Tali rischi possono insorgere, ad esempio, in relazione alla progettazione dei sistemi algoritmici utilizzati dalla grande piattaforma online o dal grande motore di ricerca online o all’abuso del loro servizio attraverso l’invio di comunicazioni abusive o altri metodi per mettere a tacere la parola o ostacolare la concorrenza”, si legge al punto 81 dell’introduzione al testo, il memorandum esplicativo. La terza categoria riguarda i rischi connessi alla stabilità delle democrazie e del discorso pubblico. La quarta riguarda la protezione della salute pubblica, sia fisica che mentale. Alle piattaforme è richiesto di valutare questi rischi, riportarli alla Commissione e a un organismo di controllo istituito dallo stesso regolamento (lo European Board for Digital Services, costituito all’articolo 61) e di “mettere in atto misure di mitigazione ragionevoli, proporzionate ed efficaci, adeguate ai rischi sistemici specifici”.

Digital Services Act e l’eccezione per i media al potere di moderazione delle piattaforme

Quali sono le implicazioni del DSA per la libertà dei media e per i contenuti giornalistici? Uno dei dibattiti che si sono consumati durante il processo di approvazione del regolamento ha riguardato proprio il rapporto tra organizzazioni mediatiche e grandi piattaforme. Tra gli emendamenti proposti al DSA ne comparivano due, il 511 e il 513, che prevedevano un’eccezione per i media al potere di moderazione delle piattaforme: quella che nel dibattito comune è diventata nota come “media exemption” (eccezione per i media). I promotori degli emendamenti chiedevano, in sostanza, di impedire alle piattaforme online di oscurare o sospendere contenuti pubblicati dai media giornalistici. Diverse organizzazioni e rappresentanti del mondo giornalistico hanno fatto pressione a favore di questo emendamento. “Un DSA più forte dovrebbe proteggere i contenuti giornalistici online dalle interferenze delle piattaforme online” ha scritto la European Journalists Federation. “Immaginate un mondo in cui le piattaforme possono censurare le notizie negative che le riguardano, in cui possono apportare modifiche arbitrarie ai loro termini e condizioni per bloccare o rimuovere le notizie e in cui il vero dibattito tra i cittadini online viene limitato” fa eco lo European Newspaper Publisher Association, un’organizzazione di rappresentanza degli editori di giornali.

L’opposizione di alcune organizzazioni di contrasto alla disinformazione

Ma non tutti sono d’accordo. Alcune organizzazioni della società civile che si occupano di contrasto alla disinformazione e fact checking hanno sollevato le problematicità di questi provvedimenti. Difatti, nel novembre del 2021 un gruppo di esperti ed organizzazioni hanno indirizzato una lettera pubblica alla Commissione IMCO (la Commissione parlamentare del Parlamento Europeo che si occupa di mercato interno e protezione dei consumatori), chiedendo di rigettare gli emendamenti riguardanti l’eccezione per i media, la “media exemption”: “La ricerca ha identificato attori malintenzionati o semplicemente inaffidabili che presentano i loro contenuti come giornalismo credibile mentre condividono informazioni false, cariche di odio o fuorvianti, intenzionalmente o meno”, si legge nel testo della lettera.
“La nostra esperienza di giornalisti e ricercatori sulla disinformazione ci dice che è praticamente impossibile definire in modo significativo chi o cosa sia una ‘pubblicazione giornalistica’ legittima nell’ambiente online”.

La Commissaria Europea Vera Jourova è d’accordo con quest’ultima posizione, tanto da aver definito l’eccezione per i media come “la via lastricata di buone intenzioni che conduce all’inferno”. Alla fine del 2021, gli emendamenti sono stati rigettati – e la media exemption esclusa dalla legislazione.

L’eccezione per i media ritorna con il Media Freedom Act

Con la proposta del Media Freedom Act il dibattito sul ruolo dei media negli ecosistemi di disinformazione e sulle grandi piattaforme è tornato attuale. L’articolo 17 della proposta infatti stabilisce che una piattaforma debba adottare, contestualmente a una deliberazione relativa alla content moderation (ad esempio la rimozione di un post o di un contenuto) “tutte le misure possibili, nella misura in cui sono compatibili con gli obblighi previsti dal diritto dell’Unione (…) per comunicare al fornitore di servizi mediali interessato la motivazione [della decisione di moderazione, ndr] che accompagna tale decisione”. Si tratta di un obbligo di notifica ex ante che vale solo per le organizzazioni e gli enti definibili come “media”.

“Accogliamo con favore la proposta della Commissione, tuttavia siamo preoccupati per la formulazione e le possibili implicazioni dell’articolo 17”, ha commentato a Guerre di Rete Rita Jonušaitė, advocacy coordinator di EU DisinfoLab. “Questo articolo rischia di reintrodurre la cosiddetta media exemption, una disposizione che essenzialmente impedisce alle piattaforme di moderare i contenuti provenienti dai media. Tale disposizione è già stata esclusa dal DSA, a seguito di un dibattito pubblico con le organizzazioni della società civile e la comunità anti-disinformazione. L’articolo 17 introduce la ‘notifica ex ante’, in base alla quale le piattaforme devono informare in anticipo i media quando i loro contenuti vengono sospesi dalla piattaforma. Non si tratta di una vera e propria media exemption, ma molto probabilmente scoraggerà le piattaforme dal moderare i contenuti provenienti da media che si auto dichiarano tali, dati i possibili costi e la complessità del processo”.

La controversia su obbligo di notifica e auto-certificazione

Sempre secondo l’articolo 17, per rientrare nella definizione di media, un ente ha la possibilità di auto-certificarsi. Alle piattaforme è richiesto di mettere in essere dei meccanismi per consentire tale autocertificazione. Secondo la definizione all’articolo 2 della proposta, un provider di servizi mediatici (media service provider) è “una persona fisica o giuridica la cui attività professionale consiste nel fornire un servizio di media e che ha la responsabilità editoriale della scelta del contenuto del servizio di media e ne determina le modalità di organizzazione”.

“Il fatto che un’organizzazione possa autodichiararsi come fornitore di servizi media è un’altra posizione problematica”, continua Jonušaitė. “In alcuni Paesi, le organizzazioni dei media sono controllate dallo Stato e impegnate a diffondere propaganda. In altri Paesi il rispetto degli standard editoriali è solo una formalità, e anche i media di qualità e affidabili a volte commettono errori”. Uno degli esempi riportati più frequentemente è quello dell’Ungheria, dove i media sono strettamente controllati dal governo e spesso si fanno megafono di disinformazione di matrice straniera – in particolare russa. “Questa disposizione rischia di ostacolare, anziché proteggere, la libertà di informazione e dovrebbe essere eliminata del tutto”, conclude Jonušaitė.

Il Codice di condotta contro la disinformazione e il dilemma della censura

Nel giugno del 2022 circa trenta organizzazioni hanno firmato un documento chiamato “Codice di buone pratiche aggiornato contro la Disinformazione”. Pur trattandosi di un’iniziativa della Commissione, il testo finale e i suoi vari articoli sono stati redatti e sottoscritti dagli stessi firmatari – trentaquattro in tutto. Tra questi compaiono grandi piattaforme come Meta e TikTok, associazioni industriali, aziende come Microsoft, organizzazioni di fact-checking come NewsGuard o l’italiana Pagella Politica. Il documento rappresenta un impegno di aziende private a prendere alcune misure specifiche – ad esempio essere più trasparenti sulle decisioni riguardanti la de-monetizzazione di contenuti disinformatori o il posizionamento della pubblicità. Nonostante il documento non faccia parte della legislazione europea, l’articolo 45 del DSA sancisce che le autorità europee debbano “incoraggiare e facilitare” l’adozione di codici di condotta, e possano monitorarne l’applicazione. Una clausola simile è riportata nella proposta del Media Freedom Act, che al comma 36 dell’introduzione invita i vari attori coinvolti nell’ecosistema dell’informazione online a “monitorare l’adesione alle iniziative di autoregolamentazione volte a proteggere la società dai contenuti nocivi”.

Una delle mancanze  del codice, tuttavia, oltre al suo essere uno strumento essenzialmente autoregolatorio, è che – come nota anche Valigia Blu – guarda esclusivamente ai media digitaliquando molta della disinformazione è riportata e amplificata dai media tradizionali, come giornali o televisione. Il problema centrale, comune a molti strumenti di soft law,  è che si fonda sulla buona volontà di adesione delle aziende. D’altra parte, un’imposizione statale (o sovra-statale) di rimuovere determinati contenuti sconfinerebbe nella censura. “Questo è l’enigma della strategia di disinformazione dell’UE”, ha scritto Mark Scott su Politico. “Emanare regole vincolanti contro le falsità online, con il rischio che le piattaforme rimuovano una quantità eccessiva di contenuti, o affidarsi a un meccanismo volontario destinato a spingere i giganti dei social media ad affrontare il problema da soli, che potrebbe portare alla rimozione di un numero insufficiente di contenuti dannosi”.

I passi da fare sono ancora molti, anche secondo gli stessi firmatari del codice. “ll Codice compie passi importanti per la demonetizzazione della disinformazione, con le principali piattaforme che si impegnano a combatterla”, ha commentato a Guerre di Rete Madeline Roach, Managing Editor per il Regno Unito della piattaforma di fact checking NewsGuard. “Detto questo, molti dei siti che abbiamo identificato come portatori di disinformazione – in particolare di quella russa – continuano a mostrare pubblicità di alcuni marchi, a dimostrazione del fatto che è necessario uno sforzo ulteriore”.

Un altro aspetto da non sottovalutare sono le differenze in termini di risorse tra Europa occidentale ed Europa centro-orientale: “Riteniamo che sia davvero importante discutere del tema della disinformazione a livello europeo. È tuttavia fondamentale dare spazio e voce anche alle organizzazioni europee non occidentali”, commenta a Guerre di Rete Katarína Klingová, Senior Research Fellow di Globsec, un think tank slovacco. “Se guardiamo alle grandi piattaforme, possiamo notare che spesso danno priorità ai loro sforzi di moderazione e contro-disinformazione in inglese o in altre lingue occidentali. In Slovacchia, ad esempio, c’è un solo fact-checker che lavora per Facebook, in tutto il Paese. In questa lotta tutte le democrazie, anche le più piccole, contano”.

Contrastare la sorveglianza e gli spyware contro i giornalisti

A novembre, due mesi dopo l’approvazione della proposta del Media Freedom Act, lo European Data Protection Supervisor (Il Garante europeo della protezione dei dati), ha messo in guardia: la proposta legislativa non basta a proteggere i giornalisti dall’utilizzo di spyware da parte dei governi, né a proteggere in modo efficace il loro diritto a mantenere le fonti anonime.

“Spyware” è un termine che indica i software usati per infettare il dispositivo di una vittima e impossessarsi dei suoi dati sensibili, incluse le credenziali, i contatti, le ricerche su internet e le comunicazioni. Possono persino avere accesso alla fotocamera e al microfono per monitorare le conversazioni dell’obiettivo. In diversi stati membri dell’UE è stato fatto uso di questi strumenti digitali di intercettazione contro attivisti politici e giornalisti. Tanto che a marzo è stata istituita una commissione di inchiesta dell’Europarlamento (la commissione PEGA) per indagare sull’utilizzo da parte delle autorità pubbliche dello spyware Pegasus (di produzione israeliana) e di altri spyware simili, come raccontato su Guerre di Rete. In tutto, i governi che avrebbero adoperato questo software sarebbero quattordici – secondo la relatrice della Commissione Sophie In ‘T Veld. Più recentemente si è discusso del caso della Grecia, in cui Predator, un software simile a Pegasus, sarebbe stato adoperato per spiare giornalisti, tra questi Thanasis Koukakis e Stavros Malichudis, che da tempo si occupavano del problema di coprire la crisi migratoria. Non è stato confermato ancora chi esattamente ci fosse dietro la decisione di hackerare gli smartphone dei reporter, ma alcuni hanno avanzato l’ipotesi che possa trattarsi di rappresentanti dello Stato o membri dei servizi segreti.

All’articolo 4, la proposta del Media Freedom Act proibisce agli Stati membri e alle autorità regolatorie di “distribuire spyware in qualsiasi dispositivo o tecnologia utilizzata dai fornitori di servizi multimediali o, se del caso, dai loro familiari, o dai loro dipendenti o dai loro familiari”, ma elenca anche eccezioni importanti, da analizzare, “caso per caso”, tra cui questioni di sicurezza nazionale. Le eccezioni elencate, secondo Wojciech Wiewiórowski, il Garante europeo per la protezione dei dati, , non sono sufficientemente dettagliate e lasciano troppo spazio per l’interpretazione: “Sono preoccupato per il fatto che le misure proposte per impedire la diffusione di spyware militari altamente avanzati, come ‘Pegasus’, ‘Predator’ o simili non sono sufficienti a proteggere efficacemente i diritti e le libertà fondamentali dell’UE, compresa la libertà dei media. Le eccezioni per lo sviluppo o il dispiegamento di questo tipo di software spia dovrebbero essere estremamente limitate e definite con grande precisione”. Lo stesso EDPS, in un’opinione pubblicata a febbraio ha espresso il dubbio che l’uso di spyware in casi di minaccia alla sicurezza nazionale rispetti il criterio di proporzionalità, suggerendo che possano esistere metodologie meno invasive. Aggiunge però che “data la scarsità di informazioni pubblicamente accessibili sulle funzionalità di Pegasus, è difficile accertarsi della misura in cui il suo utilizzo possa non essere sostituito da strumenti più tradizionali e meno invasivi.”

Il futuro della legislazione europea sulla libertà di informazione

Quando Twitter ha arbitrariamente sospeso alcuni giornalisti critici con il suo nuovo proprietario, Elon Musk, Vera Jourova ha twittato: “Il Digital Services Act dell’UE richiede il rispetto della libertà dei media e dei diritti fondamentali. Ciò è rafforzato dal nostro #MediaFreedomAct. Elon Musk dovrebbe saperlo. Ci sono dei limiti da non superare. E ci saranno presto delle sanzioni”. Eppure, ancora una volta, le organizzazioni della società civile non si sono sbilanciate in un eccessivo entusiasmo: “L’arsenale giuridico europeo non è sufficiente per contrastare gli atti di censura arbitraria”, è stato il commento della European Federation of Journalists, come riportato da Politico. L’episodio di Twitter sembra inoltre rilanciare le preoccupazioni della federazione europea dei giornalisti in merito al Digital Services Act, già espresse nel loro comunicato di inizio dicembre:  “Un DSA più forte dovrebbe proteggere i contenuti giornalistici online dalle interferenze delle piattaforme online. I contenuti giornalistici vengono regolarmente rimossi e gli account dei giornalisti bloccati dalle piattaforme online senza alcun preavviso”.

La libertà dei media è certamente uno dei pilastri di una democrazia robusta. L’Unione Europea si sta facendo più assertiva nell’affrontare quelli che sono definiti i “rischi sistemici” dell’ecosistema informativo digitale: combattere la disinformazione, rendere le piattaforme responsabili delle proprie decisioni, contrastare operazioni di influenza esterna. Ma come bilanciare a livello pratico equilibri, rischi e interessi contrastanti resta il nodo principale. Il percorso legislativo di questi anni determinerà se le armi messe in campo dall’Unione saranno affilate abbastanza per le sfide del futuro.

Questo articolo è stato pubblicato su Guerre di Rete l’11 gennaio 2023

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