Ci vuole fegato o un pizzico di allegra incoscienza, per convocare in una domenica sera pungente a pochissimi giorni dal Natale, un manipolo di aficionados strappati al giro di aperitivi o al focolare per assistere alla rappresentazione extra teatrale, in un circolo cittadino, di uno dei testi più irti e difficoltosi di quella che fu la new wave di lingua tedesca tra i Settanta e gli Ottanta, quell’Ella di…Herbert Achternbusch, uno degli intellettuali alle prese con il proprio campo concentrazionario d’azione tra cinema, letteratura, teatro, polemica pubblica. Concentrazionario sì, perché delimitato nell’orizzonte temporale pregresso dagli orrori del lager, interiormente invece dalle proprie ossessioni familiari e geograficamente perché riconducibile alla piccola heimat natia, opprimente come uno stigma sociale, ma unico vero punto di osservazione del mondo: in questo specifico caso la Bavaria, già onusta di immaginario dalle Scene di caccia di Straub -Huillet, dall’ipertrofismo eliogabalo di Ludwig piccolo imperatore.
Marco Cavicchioli, curiosa figura di teatrante poco profeta in patria, come vedremo e molto duttile interprete fuori dai confini cittadini, avvinto a sua volta da complessi legami di amore conflittuale non solo nei confronti della città, ma anche del suo stesso mestiere di artista, se così si può dire e dei vezzi e tic del suo ambiente, non ha certo paura di scelte poco convenzionali e poco consone al periodo e rispolvera questo testo interpretato qui da noi tra gli altri da Federico Tiezzi, Marco Sgrosso e Valter Malosti, attuale direttore artistico di ERT Fondazione.
Ricordo di aver visto non su internet, ma in quel delle Moline, questa sorta di soliloquio a due dai risvolti noir, in questa ultima versione che in qualche modo segnò una svolta per la carriera in quanto interprete-artefice, secondo il magistero di Leo, del resto fondante anche nell’esperienza di Cavicchioli, di Malosti.
Una storia disturbante, un finale orribile e indecifrabile come vita e morte in fondo sono, una interpretazione trattenuta e mesmerica, questo il folgorante ricordo personale da allora.
spettatore: insomma estremamente incuriosita a questa narrazione di degradazione e spersonalizzazione, cosi la rammento io, che si impone come un mantra di reiterati svilimenti e avvilimenti, all’orecchio dello spettatore: insomma anche il linguaggio si fa denuncia di una condizione esistenziale peculiare eppure universale, perché ha a che fare profondamente con una pulsione anarchica, in cui l’individuo, o ancor peggio, l’individua, si pone come alterità assoluta alle leggi della convivenza che noi definiamo civile.
Il flyer di invito, mi avverte del fatto che io allora pensai sommessamente tra me e me, come irriverente blasfemia, che siamo dalle parti di una ideale prosecuzione di Psycho e mi chiedo se siano note registiche dettate dall’autore stesso, amico e sodale di accanimenti, incubi, manie in buona compagnia con figure di rilievo quali Thomas Bernhard e il mai abbastanza compianto e ricordato Rainer Werner Fassbinder.
Arrivando, la scena è proprio quella di un pollaio, con tanto di rumori topici di sottofondo, paglia, seggiolina, un trabiccolo dove sta posizionata minacciosa come un bazooka, una caffettiera che si rivelerà fatale, per un caffè che non perdona. In qualche modo siamo più dalle parti del grottesco che del tragico, come se un fumettista di Frigidaire avesse riletto questa partitura, in cui in scena c’è un interprete, ma i personaggi sono due. Naturalmente, lei, ELLA del titolo, un personaggio ai confini tra realismo esasperato e fiabesco, una minus habens come ce ne sono tante di figure consimili nella grande letteratura russa, una neurodivergente, potremmo dire oggi con il nostro politicamente corretto, che ne ha viste letteralmente di tutti i colori. Eppoi Joseph, il figlio infelice implicito servo muto di scena, spalla di un delirio individuale che diventa gradualmente, passo a due verso la dissoluzione finale.
Cavicchioli arriva in scena dal fondo sala a spettatori già sistemati, con i suoi abiti “civili”, per posizionarsi poi al centro scena e avviare una metamorfosi, spogliandosi del suo vestiario, per indossare una scialba vestaglietta da donnella, diremmo noi a Bologna, due ciabattine e soprattutto una efficacissima parrucca di piume bigie che si definirà come caricatura di una fu femminilità, grazie anche ad un make-up improvvisato e sbavato. Et voilà, Ella, anziana, sfiorita, informe è davanti a noi pronta a rovesciare addosso a noi e al suo misterioso ospite cui preannuncia l’offerta di un caffè veramente buono, una lunga, cronologicamente sconclusionata vicenda che inizia dagli abusi in famiglia e prosegue con un matrimonio precoce, combinato, infelicissimo con un macellaio commerciante di carni che doppia letteralmente e passa, l’età della giovane e sprovveduta sposa. Un marito padrone violento e volgare che tra una bastonatura e l’altra mette incinta la nostra eroina suo malgrado: semplicemente Ella, come dire, una nessuna centomila, creatura impastata di solitudine, nonostante la apparentemente assidua, solerte, ragionevole presenza di una sorella, visceralmente e piagnucolosamente venerata dalla protagonista a dispetto
delle evidenti corresponsabilità nel degrado cognitivo della congiunta. Infine, ci troviamo infatti proprio nel pollaio di questa fantomatica sorella come ultima dimora possibile per Ella e, ovviamente per il suo parimenti fantomatico ospite, testimone e dunque martire. Lontana da una possibile lettura verista alla Nannarella mamma Roma per intenderci, lontana però altrettanto da un piano di astratta alterità di angoscia esistenziale o di contemplazione della follia in quanto tale, questa creatura disegnata da Cavicchioli pigola incessantemente una lunga estenuante litania di abusi e sopraffazioni subite, mantenendo il punto su reiterazioni verbali, ossessioni linguistiche e toponomastiche alla Bernhard ( del resto i due autori erano amici), che qui appunto non assumono le connotazioni di una avversione al mondo appena compressa e furente, ma, all’opposto, di una clamorosa inaspettata vitalità
In questo aspetto pasoliniana, la nostra Ella in vestaglietta ha il candore e la vaga percezione di un se identitario unito al tutto attraverso e oltre le temperie storiche come un Ninetto Davoli, Ali dagli occhi azzurri. In effetti, come molti hanno osservato questa messinscena lascia intravedere in filigrana tutte le soggettività identitarie con tanto di relative narrazioni possibili : L’ormai anziana Alzheimer protagonista del titolo, il suo alter ego maschile figlio servo muto di scena come si diceva e l’attore autore Marco con tutte le sue passioni, idiosincrasie e ultime esperienze: quindi come si diceva Pasolini, ma anche una ritmica recitativa da speech poetry americana e anche tanto cinema, con un occhio di riguardo all’amato Fassbinder e ad Herzog, del resto tutti spiriti liberi e sodali ad Achternbusch.
Del resto, l’etica amorale di Ella è un po’ quella di Cenerentola cartoon: i sogni son desideri. Quale dunque il luogo per eccellenza della vita possibile sognata se non il cinema? Lì si concretizza la lust for life di una entità altrimenti votata al fluire quasi animale degli eventi e delle pulsioni.
Questa Ella non è certamente mai sottomessa o sopraffatta fino in fondo: ad una logica vittima carnefice sembra preferire un modello nomadico: catch me if you can. Rimbombano nella sua testa e martellano sulla sua lingua tutti gli ispidi nomi dei luoghi di pena, restrizione ricovero e detenzione, che frustano anche animo e udito del pubblico, dando un incredibile risalto…. di risulta ad una più che mai aperta e attuale questione di salute mentale e di gestione pubblica e sociale delle diversità e delle divergenze. Alla fine, sarà una figura maschile sul palco a sorbire un caffè alla Sindona che metterà a tacere la complessa trama di colpe e contemporaneamente de responsabilizzazioni personali, altrui, collettive che costituiscono la biografia di Ella: insomma una sorta di capro espiatorio riassuntivo, senza voler troppo spoilerare.
Raggiungo Marco Cavicchioli già attore presso il Teatro di Leo, pedagogo alla Scuola di teatro Galante Garrone, acting coach in molteplici altre situazioni, regista, nonché interprete televisivo e cinematografico, reduce ad oggi da una piccola importante stagione di successi con i reading dalla beat Generation e dalla Poesia afroamericana curati insieme al musicista sperimentatore Guglielmo Pagnozzi, al termine di questo che per il momento si situa come un unicum performativo. Mi accingo a qualche domanda, colpita dalla attualità di una proposta in un certo senso così datata, così ancorata ad un certo rabbioso sentire della cultura europea e non solo, di qualche decennio fa, chiedendomi come già mi è capitato di fare su queste colonne se il tipo di linguaggio o la capacità di auto posizionamento nei contesti propria di certi autori, sortiscano questo effetto o forse solo sia il fatto che la miseria sociale, la povertà di strumenti culturali di certi strati sociali siano lungi dall’essere risolti o forse non vengono più nemmeno posti come problemi. Nel contempo rifletto sul fatto che in fondo Ella ha in sé tutti i paradossi di una figura picaresca e da film essa stessa: dunque con eccessi e iperboli che la mettono più che come exemplum di una condizione, come specchio e cartina di tornasole delle nostre deformità e tare ereditarie storiche. Oggi potremmo infatti dire che tutto un certo sentire sociale medio sia impastato dell’ignoranza e della sconsiderata superficialità di Ella. E le tappe storiche sono poi puntigliosamente ancorché disordinatamente indicate tutte dall’autore nel testo. Cavicchioli di versi, testi, autori arrabbiati per definizione, se ne intende parecchio. C’è sempre un sentore sulfureo nelle cose che si va a cercare e dirigere, ma anche un divertito guardarsi dall’esterno, un occhieggiare dell’impalcatura biografico/formativa dell’interprete nelle pieghe del personaggio che ci viene presentato.
Possibile che rispetto ad altre versioni di questa pièce io abbia intravisto un certo accentuato umorismo? Che c’azzecca oggi questa ripresa per certi versi démodé rispetto ad un certo mainstream diffuso?
Mi poni diverse questioni tutte intrecciate tra loro a doppio filo: l’umorismo lo hai visto, percepito, perché c’è tutto nelle intenzioni dell’autore, che è scomparso meno di un anno fa in quella Bavaria dove, comunque, era nato e a cui lo legava un rapporto bizzarro come quello di Bernhard con Vienna. Lo stesso Achternbusch peraltro era nato figlio illegittimo, era stato riconosciuto da adulto come figlio del padre biologico e la sua formazione non era prettamente teatrale, ma piuttosto visiva. Innumeri le pellicole girate, talvolta come interprete: se vedi le sue ultime foto, un vero dandy anche da anziano, miti dichiarati Karl Valentin e Groucho Marx. Dissacrante il suo spirito sempre se vedi anche qua e là le accuse di blasfemia ricevute per certe sue rivisitazioni dell’iconografia religiosa cristiana. Le note di regia su Psycho sono le sue: il film lo aveva influenzato ad immaginare una sorta di possibile proseguo di quella storia, in cui il figlio infine è la vittima. Ella ha in sé la naivete dei drop out e non si arrende mai. Tutto il contrario di un maniaco depresso perché fugge dalle situazioni che le stanno strette finché può. Poi con intuizione geniale, rispetto alla invadenza e potenza dell’immaginario nelle nostre vite, Achternbusch fa sì che il cinema sia per lei una forma di amore e sublimazione e rende tutto questo molto buffo. Poi la pièce è creata per un attore, tuttavia ne esiste una sua versione per due interpreti, in cui Ella rimane nuda a vaneggiare e urlare dopo la somministrazione del fatale caffè. C’è tutta la crudeltà dello stigma e della sopraffazione nel testo, con una particolare cattiveria attribuita agli ordini religiosi, persino peggiori dei nazisti, ma ha qualcosa di fanciullesco questa donna che semina figli e relazioni in giro sempre autogiustificandosi e autoassolvendosi, mai doma in fondo. Io credo che alla fine questi esseri toccati nella mente così come accade in certa letteratura russa o nei film dell’amico e sodale Herzog, abbiano in sé una qualche forma di rivelazione e si pongano quasi come sciamani. Comunque, conoscevo questo testo da tempo, avendolo utilizzato come un attrezzo durante alcune mie lezioni di recitazione perché è un testo difficile con alcune sottolineature cui bisogna prestare attenzione e richiede un grande sforzo mnemonico. Avevo già lavorato en travesti e non mi preoccupa per niente. Infine, sono stato lusingato che mi abbiano invitato in estate alla rassegna Feminologica, dedicata al teatro delle Donne in tutte le sue possibili accezioni e ho pensato di proporre Ella.
Il fatto è poi questo, che quando mi ritrovo stanziale a Bologna e con la lunga pausa Covid, mi è proprio successo questo per un periodo prolungato non riuscendo a recuperare le scritture che avevo perse, mi viene sempre voglia di studiare e leggere e provare con le persone con cui sento affinità elettive come il caso di Pagnozzi, per esempio, poi inventarmi progetti e cercare di autoprodurmi. In questo sono piuttosto incosciente: impiego magari un anno di lavoro estenuante per fare non più di due o tre uscite, più che repliche di un lavoro, magari in spazi ogni volta diversi, cioè in generale quelli che non hanno cartelloni strutturati, ma fanno proposte particolari, ti buttano lì una suggestione, ti fanno scrivere un progetto.
Diciamo comunque che non è che siano vintage o anacronistiche le cose che scelgo di fare, piuttosto sono io a pormi in modo asincrono rispetto che so a ricorrenze, scadenze, anniversari, buone cause. In questo senso, il caso di Pasolini è esemplare. Io ignoro completamente o quasi tutte le celebrazioni che gli vengono attribuite per il centenario della nascita. Ho fatto cose su di lui prima e so già cosa voglio fare in futuro invece a riguardo, inventandomi le scadenze e le suggestioni. Diciamo che sono un po’ bastian contrario e che non amo troppo i bizantinismi di certo politicamente corretto. Ho in mente la riduzione teatrale da un romanzo pazzesco che ci parla della realtà vista da un ratto e poi, sempre senza svelare troppo, sono in contatto con il mio amico scrittore Tiziano Scarpa, che ogni tanto scrive e si inventa come in questo caso di cui sto parlando, un impasto linguistico particolare tutto per me e al centro c’è sempre un po’ qualcosa di sgradevole e apparentemente underground come una discarica. La lingua è un tema che mi interessa e che dibattevo spesso con Leo. Con lui non eravamo d’accordo sulla predilezione per certi attori cinematografici da Actors Studio che avevo io e anche su una certa staticità o ieraticità delle posture che dovevamo avere in scena, però sul fatto che le caratterizzazioni gergali e dialettali dovessero essere accenni ben dosati e non mezzi piacioni oppure ritenuti più realistici, eravamo concordi.
Tornando ad Ella, io ho scelto una traduzione in un buon italiano, anche se so che ci sono vezzi linguistici bavaresi nel testo e mi piace molto, in mezzo al pigolare lamentoso della mia protagonista farle scandire e reiterare i nomi germanici di tutti gli squallidi luoghi da lei evocati perché l’effetto allusivo implicitamente sadico e spiazzante che ne deriva, so creare un filo di ironica isteria. Un filo che tiene avvinto lo spettatore in uno stato di allerta in mezzo a ciò che altrimenti potrebbe apparire una giaculatoria di disgrazie o fatalità.
Saprai bene che Nemo propheta in patria è sempre un proverbio veritiero e che senza una vera compagnia o meglio associazione è difficile darsi una identità riconoscibile, nonostante la professionalità e sapienza scenica che si può aver accumulato. Anche il discorso del Covid ha portato comunque fuori un problema di artisti, creativi, operatori, intellettuali, comunque tutti lavoratori, come tante altre categorie, quindi bisognose di tutela e di una visione collettiva della propria condizione. Cosa ne pensi e cosa immagini come auspicabile nella situazione teatrale attuale?
Probabilmente è vero che nonostante il magistero e le esperienze politiche pregresse dei nostri maestri, noi, io e tanti altri che in parte hanno fatto percorsi simili, abbiamo una visione sfumata, diversificata tra noi e molto particolare di ciò che significa politico per noi. Quando lavoravo con Leo sapevo non di stare in un gruppo, ma in una Compagnia e che si andava oltre il teatro a creare insieme Arte e bellezza e che questo era un possibile senso politico. Poi il fuori, il dopo, è stato naturalmente molto diverso. Io sono di indole particolarmente anarchica e nomadica, forse individualista, nel senso che seguo incessantemente le mie ispirazioni, ma mi piace ritrovarmi come è accaduto anche in questo caso, con persone con cui ho lavorato in passato come Elisabetta Muner che mi ha fatto da coach, mi piace creare sodalizi, convergenze, rapporti di affinità e continuità. Poi certo, forse rimango un cane sciolto di base e sai cosa mi piacerebbe? Che si potesse in qualche modo chiamare a raccolta le tante individualità artistico performative sparse del territorio e poter costituire una specie di repertorio un po’ a rovescio, di spettacoli o prove da sviluppare che avrebbero meritato di più, comunque lavori poco visti per tante ragioni o che hanno potuto girare poco.
Mi congedo a questo punto dall’anomalo buon Natale di Cavicchioli con una sorta di umoristico augurio slogan a tutti noi, pochi o tanti appassionati visionatori e visionari in cerca di futuro: Freak out! In questo aspro 2023 che s’avanza. Mi sembra forse che un pizzico di irriverenza possa tornare ad essere un buon viatico per tempi difficili.